venerdì 28 settembre 2012

III - Guatemala (+Copàn e +Caraibi) col Petén, 1979


Diario di viaggio in Centroamerica nel 1979

TERZA PARTE  che ho suddiviso in 4 paragrafi
(Guatemala, +Copàn, +Livingstone, +Petèn) praticamente sono aree culturali ed etniche distinte, nel Guatemala vero e proprio, indio e creolo; in Honduras, per resti archeologici; poi navigando sul mare o sul fiume, in area caraibica e nera, di influenza britannica; e infine nella giungla sterminata del Petèn.

vi riporto il diario che dei ragazzi (noi due) scrissero tanti anni fa su un avventuroso viaggio fai-da-te. Sono avventure d’altri tempi oramai, ma credo che possano dare un po’ un quadro di che cos'era viaggiare alla ventura in paesi allora cosiddetti  ”esotici” e "sotto-sviluppati" del "Terzo mondo", ovvero poverissimi, in quegli anni Settanta (è dunque anche una sorta di documento storico).
[nonostante sia oramai lontano nel tempo, sembra comunque che abbia suscitato interesse, dato che è stato letto da 270 lettori]

l'unica guida del Guatemala che avevamo trovato prima di partire (in francese, edizioni Uniclam, 1978)

martedì 24 luglio,  Ciudad de las Casas (nello Stato del Chiapas)
Con l' omnibus della linea "Cristòbal Colòn", si va da S.Cristòbal de las Casas, a Ciudad Cuauhtémoc verso la frontiera.

§. - 1  Repùblica Guatemalteca
Da subito dopo aver passato il confine, entrando a La Mesilla, si incominciano a vedere molti alberi di banana spontanei  o coltivati, con i loro caschi verdi che crescono verso l'alto, e il loro grosso fiore vermiglio che pende sotto. Non vediamo, né forse potremmo vedere i domìni chiusi della United Fruits, ma si capisce che siamo già in banana republic (comunque in Guatemala non ci sono solo banane e frutti tropicali, ma anche caffé, cotone, cacao, pepe, pomodori (rossi e verdi), avogados, fagioli, calabaza, e sopratutto mais, ecc.).
Abbiamo con noi l'unica guidina che siamo riusciti a trovare alla Librairie française di Milano: Aa.Vv. (a cura di E.Justo Caballero), Guatemala, au pays des Mayas, edité par l' UniCLAM, Paris, 1978.  Per fortuna prima di partire esce in italiano la guidina di Gianni Macali sul Messico, che ha un capitoletto anche sul Centro America, è pubblicata da Savelli, in collaborazione con Nouvelles Frontières, giugno 1979. Intanto rileggiamo i romanzi di Asturias sugli uomini del mais, e sulla figura terribile del señor Presidente, e le interviste di Rigoberta Menchù.
Inoltre c'è un ciclostilato del Centro di documentazione di via Vitellia a Roma, della neonata associazione "Avventure nel Mondo", intitolato "Maya 78".
Infine sulla storia leggo: V.Von Hagen, Il mondo dei Maya, tr.it. Newton Compton, Roma, 1977; e dello stesso autore, Alla ricerca dei Maya, tr.it. Rizzoli, Milano, 1976; e altri.

Per andare in Guatemala non è necessario per gli italiani alcun visto.
Il paese ha 5 milioni e mezzo di abitanti su centomila kmq.
fuggire.it

Siamo con un bus della linea "Rutas Lima". La corriera è piena zeppa, il guidatore a ogni fermata lancia i suoi gridi ai passeggeri, tipo: "Vayan atràs jovenes!" (andate verso il fondo ragazzi), oppure "Adelantito hay lugares!" (un po' più avanti c'è posto), oppure salgono venditori che urlano "Quiere sandìa? sandìa, hay sandìa!" (anguria).
Dopo una insulsa lunga sosta a Huehuetenango, cittadina ladina, creola e meticcia (di 30 mila ab.), che si distingue nettamente dalla campagna con i suoi campesinos indios (53,6% della popolazione guatemalteca) che qui sono dei Mam. La città (tenango è un termine ereditato dal periodo della invasione tolteca, che significa luogo) era stata importante prima della conquista (infatti significa Luogo degli Antichi), ma oggi è priva di interesse se non per escursioni sulla Sierra de los Chuchumatanes, la più alta del Centroamerica, con villaggi indios ancora molto tradizionali. Giungiamo con i consueti tempi lenti a Totonicapàn, a Quetzaltenango, per dirigerci poi finalmente verso il lago Atitlàn. Poco dopo il bivio c'è un mirador da cui si gode un panorama splendido del lago di Atitlàn e dei tre vulcani della sierra madre, Tolimàn, San Pedro e Atitlàn, che troneggiano. I due più alti (4200 metri s.l.m.) cioé l'Atitlan e il Tajamulco, sono considerati monti sacri dagli indios.
l'unica cartolina che troviamo relativa al lago Atitlàn

Da Los Encuentros lasciata la carretera Panamericana, dopo Cuatro caminos, scendiamo verso Sololà con un colectivo, che è poi una camioneta vecchia e scassata che trema tutta e con i suoi vari pezzi separati, col tetto dell'auto bassissimo, guidata da un tipo che si trascina dietro i suoi due bambini nel tragitto su e giù per il pendio. Faceva le discese ripide in folle, mentre la macchina sembrava sfasciarsi definitivamente...
Dopo questa strada ripidissima, poi si approda al bordo del lago, al paesino La Laguna, dove passeremo ore sbagliando lancha, cioè barca, e mangiando banane fritte con yogurt in attesa della partenza. 
viajeaguatemala.com

Il lago si trova a 1600 metri di altitudine, ma l'acqua non è fredda o gelida, al contrario è a temperatura ambiente (il nome deriva da Ama - Titlàn, cioé acque tiepide). Tutta la costa lacustre è cosparsa di villaggi dei Kaqchikel (o Cakchiquel), e dei Tzutuhil, sicché ogni villaggio coi suoi costumi tradizionali e i suoi colori.




Siccome a quanto pare non c'è un pullman che porti dall'altra parte del lago (o forse non c'è una vera e propria strada asfaltata, ma una stradina sterrata), chiediamo chi ci può far attraversare il lago con una barca, ma non ci capiscono gran ché. Attraversiamo il lago con le sue chiare trasparenze, ammirando i vulcani sovrastanti, e per due quetzales (è la moneta locale, pari al dollaro usa) giungiamo al paese maggiore dell'altra sponda, Santiago Atitlàn (qualche migliaio di ab.), dopo aver raccolto dei giovani locali che forse stavano per naufragare con una loro barchetta.

SANTIAGO Atitlàn
Ed ecco che ci ritroviamo nell'Altrove, e l'impatto è notevole. Pensavamo di andare subito in cerca di una pensioncina a buon prezzo, ma ci ritroviamo circondati e travolti da una fiumana festante e coloratissima di indios di ogni paesino della regione attorno al lago, vestiti tutti con i loro vari e diversi bei costumi, che vanno in massa verso la piazza della chiesa dove si sta svolgendo una gran fiesta per il patrono San Giacomo (Sant' Iago).
Proprio quando arriviamo noi un gran numero di uomini col sombrero e coi bermuda a righe tornano da una partita di calcio, e convergono verso il paese. Con i nostri sacchi in spalla tentiamo di muoverci tra la ressa, alla ricerca di una camera, ma ben presto ci rendiamo conto che per il momento è impossibile. 


Passa la processione con i santi cristiani addobbati con tessuti e colori degli indios, che poi vengono messi in fila davanti alla scalinata della chiesa, con alcuni lumini davanti, e la gente che va dinnanzi a loro a pregare ad alta voce. Oltre ai santi, che a volte possiedono le caratteristiche di antichi dèi maya, c'è pure il leggendario personaggio di Maximòn, del folklore locale, molto popolare ma le cui statue decenni fa furono espulse dalle chiese cattoliche che vi vedevano una figura "pagana". In effetti quello in suo onore è un culto esoterico-magico-sciamanico. Lo spettacolo è straordinario e certo da non perdere, un vero sballo che in effetti ci sballa completamente.... e ci immerge in una dimensione altra, a metà tra un film holywoodiano anni '50 sul centramerica, e una allucinazione vera e propria.

Un gruppo con maschere danza con le maracas, un complessino con marimba (che è uno xilofono di legno dell'albero delle formiche, e può essere lungo sino a 4 metri!) suona su una sorta di palafitta di frasche. Intanto che si svolge la processione con i suoi santi di legno, una loro banda produce la sua musica scassata, c'è anche più in là un luna park paesano e la fiera dei prodotti locali. In chiesa il prete inizia il sermone, mentre nella vicina chiesa di una congregazione protestante si tiene una specie come di comizio (circa il 25% della popolazione sono protestanti, in gran parte pentecostali). Si sparano in gran quantità petardi e fuochi d'artificio, c'è pure un rodeo nell'arena. E il tutto avviene quasi contemporaneamente. 
Sono tutti allegri, ridono di frequente, si divertono moltissimo con poco, in certi casi sembrano ingenui, naif, e anche un po' infantili.
La sensazione era un po' da film felliniano. In questo gran casino ecco che arriva l'ingenuo dalla campagna e viene subito avvolto, stravolto e affascinato dal caos godereccio della fiesta, sballottato coi suoi pochi averi nell'allegria, sentendosi limitato nell'ignoranza di ciò che avviene e del perché accade...
Per associazione di idee vengono alla mente libri di Miguel Angel Asturias, con il suo romanzo sugli indios maya  "Uomini di maìs", e la sua raccolta di leggende, e di Carlos Fuentes, o di Garcia Marquez, e di Rigoberta Menchù, con la sua autobiografia, ma anche di Arguedas, con i suoi saggi su musica e danze indigene peruviane, o romanzi di Dos Passos e anche di Hemingway. . . varie suggestioni...
Ma anche ci fanno impressione certi bimbi seri, che svolgono il loro lavoro nella fiera, vestiti già da omini in miniatura, e poi ci sono certi giovani uomini sposati che sembra proprio che abbiano al massimo 15/16 anni... Il fatto è che non c'è differenziazione di abito a seconda dell'età, ma solo a seconda del villaggio, cioè della tribù originaria.
Parlano delle lingue (Quiché, Kaqchikel, Mam, Tzutuhil, Kekchì, Pocoman ...) che hanno una sonorità di tipo orientale, un po' spezzate, e con aspirate, ma comunque con tante vocali.


Insomma siamo stati presi da un assalto innanzitutto di colori, poi di suoni, e anche di odori. Una gran voglia di sgranocchiare questo e quello dai banchi ... Ed è tale lo sbalordimento di quel che succede attorno, che appunto trascuriamo la ricerca dell'albergo per stare a guardare tutto con occhi grandi. Faccio tante foto. Spesso lo sguardo va alla scalinata della chiesa, dive siedono prevalentemente donne e bambini. Le donne in gran numero portano sul capo avvolta una lunga fascia che forma come una grande aureola rossa, che lascia scoperto il centro della testa. Assistiamo anche a
uno spettacolino di rievocazione storica dell'arrivo degli spagnoli, i cui volti (caricaturali) sono raffigurati da maschere. Probabilmente si tratta di una danza di valore apotropaico.





 bianche con gran baffi e barba a pizzetto, è el baile de la Conquista, una rappresentazione viva e svolta in piazza dinnanzi al popolo locale dell'incontro/scontro tra spagnoli e quiché (che in realtà ricorda il fatto che dopo l'occupazione, nel Cinque e Seicento continuò la conquista nel senso della guerra contro gli "infedeli pagani", dato che i castigliani assimilavano mentalmente gli indios con i moros dell'Andalusia (che loro chiamavano pagani). La conquista culturale iniziò subito dopo lo sbarco del luogotenente di Cortès, Pedro de Alvarado, nel 1523, che si impadronì del paese in un solo anno. Diego de Landa, un prelato al seguito, scrisse: "Trovammo anche un gran numero dei loro libri, ma non contenevano altro che menzogne, demoniache. Li bruciammo tutti ... e gli indios si sentirono per questo molto afflitti" (in un suo libro di memorie scritto più tardi, nel 1566 quando era divenuto vescovo). Sembra che quei roghi fossero durati per mesi.




C'è musica continuamente, con marimba, con il flauto indio chiamato pito o chirimià, o coi tamburi e tamburelli, o con le ocarine, o la chitarra. Questo viaggio è caratterizzato da queste incessanti canzoni tropicali che "fanno tanto ambiente", e non ci abbandonano se non per poche ore di notte. Sembra che questa gente non possa vivere senza musica. E giustamente. Più che altro si tratta di canzoncine allegre ma anche sgangherate, e però con un fondo di melanconia. Le orchestrine di marimba, o di certi tipi simili a mariachis, che suonano abbastanza male, ma anche questo fa parte della realtà quotidiana. Nessuno si preoccupa se più canzoni si sovrappongono facendo ansimare per desiderio auditivo il povero visitatore. Le parole delle canzoni sembrano sempre parlare di amori totali, focosi e spesso senza speranza. E bisogna anche dire che le canzoni sono un po' sempre quelle, che in Europa sono state scoperte negli anni quaranta e cinquanta, ma che qui c'erano già tali e quali anche prima. Così come gli abiti: sono sempre quelli, così la processione è sempre quella, e la fiesta pure, tutto è un po' sempre quello, in gran parte la senti, la percepisci questa dimensione di immobilità che si perpetua nel tempo. E' così la vita di campagna, dei campesinos. Forse solo adesso qualcosa sta cambiando, in parte anche a causa del turismo, che prima non c'era, e poi la radio, il cinema, la televisione, le macchine, prima non c'erano. Ma mi sembra che ancora prevalga la tradizione.





Dopo un po' torniamo verso il lago dove c'è un'aria calma e rilassata diversa dalla frenesia della festa e del mercato. La señora del bar-alloggio dove ci siamo rivolti, il "Hi-Nim-Ya", ci diceva che i prezzi delle stanze sono màs altos en los dias de fiesta que en los dias de silencio, quindi siccome questa notte finisce la festa (durata vari giorni) d'ora innanzi i prezzi sono ribassati. E' stata corretta e gentile a dircelo, se no noi non lo avremmo nemmeno saputo.
Il paese di Santiago Atitlàn è il capoluogo dei tzutuhil, e si trova in una baia riparata. Donne che lavano i panni sulla riva, o raccolgono l'acqua con anfore, uomini che si bagnano o si lavano, baracche di legno o capanne, pattume sparso, richiami di uccelli tropicali, e vegetazione rigogliosa.



Molti uomini ora vanno a vedere la partita di calcio tra due squadre locali. 
Qui si incontrano vari giovani "occidentali" col sacco in spalla, viaggiatori, giramondo, freaks... Chiediamo un po' di informazioni e consigli. Ognuno da informazioni diverse, ma poi questo fatto ci provoca ogni volta anche incertezze sulle scelte di itinerario futuro. Comunque per fortuna che sono andato a parlare a Sololà con quelle due italiane che ci hanno consigliato di prendere la barca per Santiago, anziché San Andrès o Panajachel, che sono più turistiche.


Al café restaurante El Cayuco, dove si ritrovano gli europei e americani, si può prendere un enorme yogurt con frutta tropicale e miele. C'è sempre come contorno un ottimo guacamole, cioè puré di avogado con pomodori e cipolle dolci, o avogado con salsina rosa. I frijoles sono neri e grossi e con un sapore un po' diverso dal nostro. Poi c'è il magüey, quel frutto viola che sembra un fico d'india con coloranti, che è dolce e buono. Ci rimpinziamo di frutta tropicale ma non solo, mangiamo anche pollo, e pesce fresco del lago, o che arriva dalla costa sull'oceano.

I tipi del Hi-Nim-Ya sono veramente gentilissimi, la pensioncina è semplice e pulita; un po' mi dispiace partire. 
Impariamo anche due parole in k'iché (o qwiché), ovvero: shiskarreth (o almeno così ci sembra...) per dire buon giorno, e heckh per il mais. Benché in generale in Guatemala il 66% della popolazione parli lo spagnolo come prima lingua (nelle città e lungo la Panamericana), in provincia, nei borghi e nei villaggi delle campagne molti contadini parlano solo nelle lingue di antico ceppo maya (che i ladinos e i meticci chiamano spregiativamente incomprensibili dialetti indios).
Abbiamo comprato per pochi quetzales una giacca di lana bianca con disegni neri, per un equivalente 7 mila lire, una  camicia blu con huipil (specie di blusa bordata) di Chichi, a 4500 lire, un borsettino di lana per 3100 lire, e una bella amaca di tela piena e fitta, grande, per sole 4500 lire.

La piazzetta di Sololà, semplificazione del nome indigeno di T'zolojy'a, a 2.114 metri di altitudine, non è più vuota e tranquilla come quando eravamo appena arrivati, ma si è aperto il mercato ed è animata da indios colorati. Ci inoltriamo in salita. Il costume distintivo di certi uomini di un paesino vicino sono semplicemente i calzoni bermuda a righe eppure, almeno nei giorni di festa ci tengono a rimarcare in pubblico la loro appartenenza e origine.





CHICHI (il mercato)
Andiamo poi verso nord a Chichicastenango (="luogo delle ortiche", chiamato così quando ancora esisteva la capitale dei Quiché poi rasa al suolo; ora è un paesone di più di 10 mila abitanti in gran parte appunto maya quiché). Anche qui siamo a quasi duemila metri di altezza. Ci dirigiamo subito verso il luogo del famoso mercato. Lì è dove si radunano e appoggiano i loro prodotti per terra. Donne con le coperte piegate in cima alla testa, il tocoyal,  una specie di copricapo, e con decori di righine colorate differenti a seconda dei villaggi di provenienza, come pure sulle gonne e le camicie, alcune hanno fili d'argento in mezzo, e altri ricami coloratissimi su stoffe già coloratissime. 
 Eccoci in pieno mondo indio guatemalteco... Inoltre anche qua siamo praticamente gli unici stranieri.







Ora forse starete pensando che sto un po' troppo abbondando con le foto, ma questo luogo ha una forza attrattiva, è dotato di un magico potere di seduzione, per cui non riesco a contenermi. Vorrei come d'incanto essere ancora là anche adesso e riprovare quelle stesse emozioni. Data la mia formazione per me è come potere fare un viaggio anche a ritroso nella storia e vedere dal vivo come è una società tradizionale (ma forse per i nostri paesi occidentali industriali dovrei tornare ai tempi del padre del mio bisnonno..., comunque mi fanno tornare alla mente alcuni racconti di mio nonno paterno, che era di una famiglia povera della campagna di Caravaggio in provincia di Bergamo).  Ad ogni modo -a parte che in un diario di viaggio le foto d'ambiente non sono mai troppe- ora è anche un modo per far calare il lettore dentro questa realtà, questo mondo lontano, a cui non siamo abituati a pensare, a tal punto che ancor oggi chiamiamo queste popolazioni, popoli dell'America Latina (!!?).








Più tardi entriamo in una trattoria per cenare, ma alle 19 e 40 mandano via la gente che arriva perché dicono che hanno finito la roba da cucinare ... così dicono, ma probabilmente si sono stufati di servire e di cucinare perché al sabato c'è più gente del solito ...

CHICHI (le pratiche devozionali)
Al mattino ci alziamo presto, e andiamo subito alla chiesa domenicana di santo Tomàs (san Tommaso). 
 il borgo di Chichicastenango
 la chiesetta degli indigeni
verso il cimitero


I portali delle due chiese bianche che si fronteggiano sono illuminati dai falò e dai ceri, ma coperte dai fumi e dagli incensi che vengono sparsi in giro da scatoloni di latta. Molti indigeni non entrano neanche in chiesa o solo fugacemente, ma ci tengono molto a accendere incenso sui gradini, dove rimangono a lungo, o a portare fiori. 
la scalinata della chiesamaggiore



Un limpidissimo cielo tutto stellato con la falce di luna, silenzio, qualche giramondo a zonzo per curiosare, tutto è pronto per compiere il ciclo settimanale che rompe la consueta vita della borgata. Una orchestrina toca la marimba in una cantina (osteria), gridolini di ahi-ahi-ahi, intanto si ode una donna che chiama il figlio, e si sente pure una chitarra, un guitarròn e una piccola batteria.


Cerchiamo di stare ad osservare senza disturbare, le gestualità, le espressioni verbali, i comportamenti, che si svolgono tutti seguendo un loro cerimoniale liturgico antico. Saliamo la scalinata facendoci largo tra gli indios che stazionano lì, pregando o accendendo fuochi, entriamo attraversando la cortina fumogena all'incenso, il pavimento è totalmente ricoperto di petali, e di fiori sparsi per terra, ci sono moltissimi ceri accesi, e le pareti sono annerite a causa di questo.  Chi prega dinnanzi alle immagini o alle statue poste tutte lungo le pareti, versa intanto un po' di acquavite, e lascia offerte in frutta, o immaginette, o bottigliette di bibite, pacchetti di biscotti, o i biscotti sbriciolati, sigarette, banconote, e generalmente prega a voce alta in una lingua indigena con ogni tanto parole o frasi in spagnolo come fossero formulette magiche (ma c'è anche -raramente-  chi prega recitando le preghiere cattoliche in spagnolo). In generale accendono i ceri sul pavimento. Ci sono dei curanderos (guaritori) che si occupano di qualcuno, e sciamani, chiamati spregiativamente dai conquistadores spagnoli e della borghesia creola: brujos (= stregoni) che fanno i loro rituali; entrambi si riferiscono a certi brani del libro sacro maya, il "Popol-Vuh" (o Popol Buj, ritrovato alcuni decenni fa nel convento francescano adiacente), o agli "Annali Cakchiquel" (o Kaqchikel). Tengono una mano sulla spalla del richiedente, o gli appoggiano un bastone sul capo mentre fanno invocazioni agli dèi della pioggia, o del raccolto, o chiedono protezione per un matrimonio, intanto che si rivolgono ai santi. Ci sono i "fattucchieri", cioè quelli che conoscono le ricette per le pozioni, chiamati chuch-kajau, che pure vengono qui consultati. Ora entra in chiesa un gruppetto, uno mentre dice le sue orazioni fa una gran scoreggia, c'è ovunque una gran puzza di piedi e di alcool, per cui dopo un po'  usciamo anche per l'eccessiva fuligine. 
Da quel che ci diceva un ragazzetto gli indigeni sono discriminati anche nelle celebrazioni delle festività, e persino nel costituire loro orchestrine musicali per le fiestas...
immagini da cartoline locali



Quel ragazzetto indio che ci aveva parlato ieri sera con quel suo ritmo lento, e che ci pareva un po' sbronzo, lo reincontriamo oggi, ed è ancora così, come trasognato. Alcool? funghi? oppure davvero è così di carattere? Comunque ci ha raccontato un sacco di cose interessanti su Chichicastenango. Ci ha parlato di cosche rivali, di gente che vive sulle spalle degli altri, della amministrazione locale a cui possono partecipare ora anche dei rappresentanti degli indios (93% della popolazione della cittadina e dintorni qui sono Quiché). Ma i ladinos a suo parere tengono ancora saldamente in mano il potere e giocano come vogliono con i poveri indios, anche con i nuovi rappresentanti.  Secondo lui il potere è dato loro dalla cultura: siccome tutti i ladinos sono tra i pochi qui che hanno studiato, possono tenere l'amministrazione, ogni atto politico passa attraverso di loro, sono padroni dell'economia, quindi fanno ciò che vogliono. Lo sollecitiamo anche su altri aspetti, sul mercato del lavoro, sui giovani, sulle tradizioni, ma manca totalmente in questo ragazzo qualsiasi altra prospettiva nella analisi della situazione, dato che effettivamente gli mancano le conoscenze ecc. (d'altronde teniamo presente che in media in Guatemala il 63% sono analfabeti, e lo sono pure il 44% dei ragazzini in età scolare; di fatto al di fuori delle città, in provincia, ovvero nelle campagne, la percentuale sale al 78% ..).
Lui soprattutto è preso dal fatto che -come probabilmente molti altri come lui- aspira ardentemente a poter fare il suonatore di marimba. Però non ne possiede una perché dice che costa circa settecento mila lire. E dunque il suo desiderio rimane frustrato, e siccome lo ha identificato come l'unico modo possibile per poter emergere, questo ostacolo gli fa crescere molti risentimenti (comprensibilmente).


Pensiamo un po' alle differenze riscontrate tra il Chiapas e il Guatemala, e ci sembra di aver visto in Messico più rispetto per gli indigenas, un qualche tentativo di recupero della loro cultura, con le loro specificità, o meglio forse più che altro solo di preservazione e conservazione di certe loro  tradizioni. Comunque invece qui ci sembra di notare un forte contrasto tra i ladinos,  i meticci  (un terzo della popolazione) e gli indigeni di origine maya. Tra i meticci ci sono sia assimilati che non assimilati alla cultura dei latino-americani.

Qui a Chichi, come anche a Sololà, c'è l'edificio della Alcaldìa municipal (cioè il comune locale) e di fianco la Auxiliadora indigena, sulla cui porta vediamo sostare in piedi dei capi di Confrarias (confraternite) con un abito nero, giacchetta e calzoni al ginocchio, e una sorta di copricapo rosso "a turbante". Li rivedremo anche stasera. Poi c'è uno, che secondo me è un cacicco (capo tribù indigeno), vestito come quelli ma senza turbante, che sta passando praticamente tutta la giornata a fare dei riti col copàl davanti alle due chiese fino a sera tardi. 
Oggi nella chiesa più piccola, c'era un tizio che parlava ad alta voce con certe statue di santi, e raccontava le sue cose, la sua vita; aveva acceso molti ceri, e portato dentro moltissimi petali di fiori, ma anche arance, mele, e limoni come offerta. Poi aveva fatto bruciare un piccolo falò (dentro in chiesa) e agitato più volte il secchiellino dell' incenso-copàl, e ora faceva vari percorsi in ginocchio per implorare ora questa ora quell'altra statua. Poi vedremo anche altri uomini fare similmente, con le mogli che fanno da assistenti.
Non pochi camminano scalzi e hanno dei piedi impressionanti, sembrano a volte come mummificati ...

Oggi la cittadina è sconvolta dai preparativi per il mercato dei turisti che si terrà domani martedì. Per cui se ieri era un villaggione di campagna, calmo, silenzioso, tranquillo, con le sue stradine semideserte, i boschi visibili subito dopo le ultime case, pochi rumori e motori, piuttosto  si udivano i versi delle galline, dei maiali... 
Poi si è visto che han cominciato presto ad arrivare da ogni dove, facendo fiesta, e a darsi da fare a montare intelaiature di legno con teloni sopra, invadendo la piazzetta e tutte le stradine. Stasera sembrava una cittadina occupata dai lanzichenecchi... Bancarelle, strutture precarie, tendoni, gente che bivacca, che dorme all'addiaccio per le strade ...
Poi ecco masse di turisti stranieri bianchi che arrivano con i pullman, e riempiono tutti gli alberghetti, le pensioncine, tutti gli alberghi e gli hotel, tutto viene stravolto in funzione della grande market session di domani.
 bambini aiutano a trasportare cose
un bambino viene mandato ad andare su una palma per sistemare un collegamento elettrico





A Santiago Atitlàn e in altre occasioni avevo fatto delle foto bellissime durante la fiesta, soprattutto di persone, con dei bei ritratti, ma ora mi accorgo che per un errore mio la pellicola non era ben agganciata al trascinatore e si era riavvolta, per cui di foto non ce n'è nessuna! .... nemmeno UNA !!!!!! sconforto, tristezza ..... dispiacere grande ....  (Ora posso dire che per anni poi mi sono rimaste impresse nella memoria quelle inquadrature, tutte quelle singole foto non fatte ....)

Stamattina fuggiamo dal paese sconvolto e irriconoscibile, a causa della folla più incredibile. Andiamo fuori dall'abitato per fare una passeggiata in montagna tra pini e ruscelli, alla ricerca del Pascual Abaj.
Si tratta di una antica statua alta solo 80 centimetri, che rappresenta una divinità maya. Il nome significa "Signore di pietra".


I conquistatori spagnoli provarono varie volte a proibire la devozione verso quello che chiamavano per dispregio l'idolo pagano, ma non vi riuscirono mai nei secoli. Ancora oggi viene mascherata come devozione a San Pasquale.
Dunque si esce da dietro il municipio verso la campagna, in direzione sud-est, ma non c'è assolutamente nessun tipo di indicazione, ci dicono che si trova a soli dieci minuti dal paese.
Un indio fortunatamente ci indica un sentierino che si inerpica sulla collina, per evitarci di fare la strada che è piena di cani da guardia, e di cani randagi. Dopo tre kilometri arriviamo con letteralmente il cuore in gola, ansanti, anche a causa del clima afoso e soffocante, su uno spiazzo contornato da alberi che c'è in cima al cerro (colle), ma per fortuna nostra giungiamo proprio in tempo per assistere al rito propiziatorio (appena da pochissimo già iniziato) di una bruja che -ci diranno dopo- è stata richiesta dalle due persone lì presenti.
Io intanto mi sventolo con il mio sombrero inseparabile, leggero e simpatico, e pur restando fermo in rispettoso silenzio, osservo interessatissimo ed emozionato.



La assiste un tizio ed è presente anche un giovane, forse suo figlio. Non c'è assolutamente nessuno, il boschetto è bello, c'è silenzio, si odono i suoni degli uccellini, e tutto attorno allo spiazzo ci sono delle pietre, poi in un punto c'è un circolo di pietre grosse annerite e tra queste una più scura con scolpito un volto abbozzato, e con un falò acceso dinnanzi.
La vecchia officiante compie i sui gesti rituali millenari, poi ogni tanto si ferma e sorride soddisfatta. Agisce molto concentrata, ma a volte viene interrotta dai suoi accompagnatori che sembra pongano un quesito. A un certo momento la vecchia, aiutata, taglia il collo ad una gallina sopra al fuoco del tumulo centrale, fa bruciare la testa, e, sempre con orazioni, sprizza il sangue sulla faccia della statua, tutta affumicata, e poi sulle varie pietre e sui fuochi che sono tutt'attorno. Per cui gira rapidamente dappertutto spargendo il sangue recitando delle formule magiche.
il taglio della testa



Siamo contemporaneamente sbalorditi, essendo la prima volta che assistiamo ad una cerimonia del genere, e quindi anche incantati dato che ci sembra di essere catapultati in un mondo lontanissimo anche nel tempo, e in parte disgustati per il sacrificio a causa di una nostra tenerezza animalista.
Ma il fascino di questa cerimonia nel silenzio del bosco è grande, ci sovvengono immagini e associazioni di idee di come potessero essere riti antichi, oramai dimenticati.
Dal paese salgono fin qui gli echi di lontani rumori e vocii del mercato, si sente un motorino, e qui in cima al colle, tra gli alberi col profumo di resina dei pini scavati per toglierne il nettare, sotto ad un cielo ancora assolato e nell'aria calda nonostante si stia per rannuvolare, ecco questi moderni antichi maya che compiono gesti e pronunciano parole sacre nate da una cultura e una storia in gran parte dimenticata e perduta, in omaggio ad una rozza scultura che forse ha come dicono 2300 anni. L'impressione è anche che con questi popoli vinti, il cristianesimo non abbia gran ché attecchito, anzi si sia meticciato, e che i preti in quelle chiese tappezzate di petali, piene di bottigliette di acquavite, e sigarette, e di fuliggine, farfuglino inutilmente richiedendo di adempiere ai loro riti europei, parlando in una lingua e per una religiosità di casta... Ma anche che l'ostinatezza di questi montanari colorati, e questo piccolo spiazzo nel bosco, nero di fumo e illuminato e caldo di fuoco, mi sembra che marchino il segno imbarazzante delle difficoltà dei vincitori.

Qui, e dentro la chiesetta di Sololà cosparsa di aghi di pino, tutta adorna di festoni di carta colorata e di pepsi-cola, tra gli odori di piedi sudati e del copàl che impregna di sè le porte delle chiese assediate dalla devozione degli indios, sin dai primi gradini della scalinata  tutta occupata dai loro falò, si celebra continuamente il funerale della chiesa romana cinquecento volte morta tra le gestualità dei campesinos ignoranti che se ne sono appropriati. Hanno fatto la loro scelta di mimetizzazione per salvarsi, hanno accolto solo i simboli esteriori, propinati loro per attirarli dentro ad una matrice culturale europea, cogliendo di istinto l'essenza pagana del culto dei santi che a propria volta la Chiesa aveva già adattato agli antichi sentimenti religiosi della romanità, rimasti vivi a livello del folklore popolare.
Ma a parte queste critiche alla chiesa cattolica locale che è ed è stata troppo complice di politiche discriminatorie ed ha cogestito il potere compromettendosi con potenti latifondisti, con politicanti e con militari, estremamente reazionari, non va comunque dimenticato che gran parte della popolazione è ignorante, e quindi anche legata a supersitizioni, scongiuri, pozioni, amuleti, pratiche magiche, per cui è normale per loro recarsi da una fattucchiera per regolare i propri problemi, ed è ad es. diffusa la credenza negli spiriti o nella presenza nella vita quotidiana delle anime dei defunti ... 

Che senso di pena ci avevano suscitato ieri le lamentazioni accorate, compiute procedendo sugli scalini e poi tra le candele strisciando le ginocchia nude, di quel vecchio pellegrino questuante perdono in spagnolo nella chiesa di Chichi in richieste individuali ad ogni statua di santo esposto lungo i muri della navata (e li ha passati tutti, uno per uno). Pena per la sensazione di disperazione affranta che emanava da quelle perorazioni lamentose e supplichevoli mormorate e biascicate dal poveretto. Non abbiamo invece assistito poi alla processione degli auto-flagellanti, di pesante esibizione barocca, perché troppo fastidiosa per la nostra vista è l'auto-mortificazione della carne e l'ossessione del giudicarsi peccatori colpevoli di fronte al Padre severo il cui occhio indagatore è onnipresente. Questo modo di vivere la devozione ci fa sentire fortemente distanti ed estranei.
Il periodo della fiesta è terminato, e si chiude con una messa all'aperto.


Ce ne andiamo a Quetzaltenango  (la seconda maggiore città, = "luogo del mitico uccello piumato" Quetzal), che prese il posto dell'ex capitale dei quiché Xela-hù, che fu bruciata e rasa al suolo da Alvarado nel 1524.
E' lì dove speriamo di trovare posto in un alberghetto con il caminetto a legna in camera! si attraversano campi di cotone, di canna da zucchero e di caffé, e poi si va un po' su di altitudine (2333 m.) così ci rinfreschiamo un attimo... Qui in questa zona l' 80% degli abitanti sono indios maya, sia asimilados che non asimilados.
Il Paese stesso è denominato "il Paese del quetzal", ma il suo nome Guatemala deriverebbe da come lo chiamavano gli Aztechi nella loro lingua nàhuatl: Quauhite-malla, il paese delle aquile. Mi viene in mente che potrebbe derivare forse anche da Quauhite-maya, il paese dei maya, ... o almeno io mi ero fatto questa idea. Invece altri dicono che venga da Quactemallan, ovvero aquila catturata, conquistata... chissà.

ANTIGUA
Poi andiamo con il bus della "Rutas Lima" (tiket de camino: dos quetzales) nella vecchia capitale coloniale, Antigua appunto, dove ci coglie un monsone pazzesco che allaga tutto, è una alluvione "bella e buona" in piena regola...  Ci aspettavamo magari dei terremoti (qui frequentissimi e anche forti, l'ultimo è di tre anni fa) ma non questo diluvio. Comunque passata la bufera, vediamo che la cittadina (che ora ha 27 mila ab.) ha dei bei palazzi (vediamo le rovine della cattedrale spagnola e del convento di santa Clara), andiamo anche nel vecchio centro storico (ciudad vieja), tutta progettata a reticolo di cuadras. Fu fondata da Pedro de Alvarado (il guardiano di Montezuma prigioniero), che fu inviato da Cortés a conquistare il Guatemala nel 1523 (a cui era stata data dalla città antiazteca e filospagnola di Tlaxcalà una giovane nobildonna in sposa, battezzata doña Luisa, che lo accompagnò e aiutò). Anche questa città soppiantò la precedente capitale dell'etnia maya Cakchiquel (o Kaqchikel), che si chiamava Iximché, distrutta. E poi da qui ci si gode la bella vista dei vulcani che sono incombenti: il Pacaya, attivo, Agua, e Fuego, e il grande Acatenango che arriva fino ai 3976 m. di altitudine.
Ora la città è stata dichiarata Patrimonio dell'Umanità. Ci è piaciuta (anche se i tombini e gli scoli urbani non funzionano proprio  per niente ....).



E carino è anche il nostro Hostal.



Compro anche un vecchio libro di antropologia sociale, Cultura indigena de Guatemala, 2a ed., 1959, in cui sono tradotti in spagnolo interessanti studi quasi tutti nordamericani (allora c'erano ancora pochissimi rari studiosi locali interessati alla "cultura" degli indios, che comunque avevano studiato negli Usa).


GUATE CITY
Il 30 luglio con un breve comodo viaggio, andiamo nella "nuova grande capitale moderna", all'arrivo il guidatore urla "Guàte-Guàte-Guàteeeeee!". Scendiamo alla grande terminal camionera, e passiamo una giornata del cacchio, ma proprio insulsa in questa Guate-Ciudad (o Guatemala City, 900 mila ab.), che è solo una gran brutta cittadona tutta fatta di case case case, messe anche male, e nient'altro. Tutto sbrecciato, scrostato, cadente, un po' misero e squallido.



Ci spostiamo con i ruleteros, taxi collettivi sovraffollati e disastrosi. Andiamo a vedere se abbiamo ricevuto posta al Fermo-Posta del Correo Central, ma non c'è nulla per noi... Questa capitale NON ci è piaciuta. Per cui qui ci stiamo pochissimo. Domani partiremo da questa insopportabile cittadona insulsa e cercheremo di andare in Honduras per visitare le famose rovine maya a Copàn, facciamo solo una sortita fuori dai confini restando là una notte, e poi rientreremo in Guatemala.

§.2 -  Una giornata hondureña
Prendiamo la corriera delle "Rutas Orientales", poi a Chiquimula cambiamo, e di qui con la linea "Vasquez" fino a El Florido; quindi si prende un mini-bus o camioneta della "Union Maya Imperial" verso la frontiera.

Non è facile recarsi al sito archeologico di Copàn, la sterrata con cui si può passare il confine è poco praticabile, soprattutto dopo una piovuta abbondante. Le autorità hondureñe di frontiera danno un "lascia-passare" per poter fare questa escursione ma scade in 48 ore. Si paga una tassa d'ingresso. Non cambiamo, pagheremo coi dollari, e riceveremo il resto in lempiras hondureñi.
Dunque una gita un po' cansante, che però è come un viaggio indietro nel tempo, diciamo agli Anni Venti, non fosse che per il cosiddetto mini-bus (comunque anche quello era piuttosto vecchiotto).
Vasti spazi di campagna florida e completamente disabitata dove contadini creoli ladinos, o meticci, o asimilados, si stanziano sparsi, si costruiscono le loro baracche, che poi perfezionano e ampliano col tempo e con calma, senza avere altra acqua che quella di un pozzo che loro stessi si trovano e si scavano, senza luce elettrica, senza gas, senza telefono, senza nulla. 
E c'è ancora tanto territorio da abitare e colonizzare e coltivare. Campesinos molto poveri, con i loro pantaloni sopra le caviglie e la loro blusa "bianca", sombrero di paglia e machete o coltellacci enormi nella cintura. Un territorio molto arretrato veramente. 
Nel minibus mi sembrava un po' come essere negli autobus pakistani ... Ogni tanto si inceppava il cambio, e allora lì veniva fuori il suo rapporto personale con la sua macchina (o ex tale) e si lamentava ad alta voce: esta es un diablo, lo vees? que me haces? yo no la comprendo, no la entiendo! e il suo aiutante biondo che si chiama Jesùs, con rabbia: Dios  bendito! Abbiamo pensato che quando il cambio gli si è rotto e non ripartiva più, veramente quello sarebbe stato per il minibus il suo ultimo viaggio, e che dunque noi avremmo dovuto farci i 14 km mancanti a piedi con i sacchi in spalla...  E invece rollando rapidissimo a marcia indietro va in folle giù per la scarpata, e così si è poi riavviato il motore ed è ripartito...!!!
Copàn è un paesino con gente gentile e ancora ingenua. La señora che riceve i viaggiatori nel suo piccolo Hospedaje (=alloggio) "Los Gemelos" come fossero degli amici ospiti che arrivano proprio da lei fin da lontano per venire a trovarla. Così, stanchi ma contenti, possiamo appendere le nostre amache in una stanza pulita e ordinata.

E che altro dire? que màs? pueblito de montaña con solo alcune calles incementate, e la sua plaza, o parque central come la chiamano, che ancora stanno lentamente mettendo a posto..... ahorita!.
E queste cose sono possbili grazie all'incipiente turismo diretto alle rovine, perché gli altri villaggi sono di baracche e nel fango, senza alcuna prospettiva di miglioramento.
Il nostro cuarto è un cubo di legno, essenziale ma a posto. C'è fuori un bel pappagallone, credo un Ara, non so se sia un Ara  ararauna o maracana, o altro, ma comunque è ben grosso. Bella vegetazione rigogliosa tutt'attorno.


Tuffo maya, andiamo alle ruinas!
Alla entrata generale ci sono anche qui appollaiati dei grandi pappagalli colorati Ara che stanno sulla rete di cinta.








Si tratta originariamente di una sede cerimoniale, fondata nel V sec., che giunse ad avere più di 100 mila ab. Poi il luogo fu  abbandonato nel IX secolo, e poi scoperto solo nel 1838 (de Waldeck, Viaggio romantico e archeologico nello Yucatan, Parigi1839). L'emozionante avventura di Stephens e Catherwood è raccontata nel cap. 29 da C.W. Ceram, Civiltà sepolte, 1950, tr.it. Einaudi, 1952, pp. 388 e segg. Chi scoprì questo luogo, e capì che cosa aveva trovato, e lo comprò (!), fu Stephens, ma Catherwood con i suoi disegni precisi e ben fatti artisticamente, è colui che lo ha fatto conoscere, e che ha colpito l'immaginario della cultura europea e nordamericana di allora (cfr. J.L. Stephens, Incidents of Travel in Central America, Chiapas and Yucatàn, New York, 1842; e F. Catherwood, Views of Ancient Monuments in Central America, Chiapas and Yucatan, 1844). E poi pochi anni dopo ci volle William H. Prescott, già noto per la sua storia della conquista del Messico, a dare un inquadramento storico e archeologico all'importanza di Copàn. Allora tutto quanto era ricoperto e stritolato sotto la foresta fitta e le portentose radici dei grandi alberi secolari. Gli scavi e i restauri comunque sono iniziati solo nel 1935 e continuano tutt'ora. Il maggiore studioso è stato monsignor Federico Lunardi negli anni Quaranta del novecento. In generale che quella maya fosse stata una grandiosa e straordinaria civiltà, lo aveva mostrato Désirée Charnay, che fu il primo a fotografare siti maya nella giungla, nel 1859.

Ecco che ci sono: uno stadio per il gioco sacro della pelota, vari templi, e delle magnifiche steli scolpite a bassorilievi. Il grande spettacolo dei sacrifici umani agli dèi si svolgeva di fronte a quelle steli un po' "mandarinesche", con i dignitari raffigurati adorni di piumaggi e seduti su tartarughe mostruose di pietra, nella enorme spianata o plaza.
ecco la vasta spianata centrale con attorno l'insieme dei principali monumenti (conjunto principal)
si intravede Annalisa in basso a destra (per farsi una idea delle dimensioni del luogo)

E' stato il luogo più importante per le osservazioni astronomiche maya e per l'elaborazione dei sistemi di calcolo matematico (su base 20, e inoltre conoscevano lo zero) per stabilire un perfetto calendario. Gli spagnoli non lo conobbero, quindi non fu mai distrutto da nessuno, solo fu abbandonato e rimase poi distrutto dalla corrosione dell'umidità e dalla potenza delle radici, e dalla coltre di vegetazione che lo sommerse.


 Straordinari il tempio della meditazione, e la gradinata coi geroglifici. Quest'ultima consta di 64 gradini tutti costellati di geroglifici in numero di 2500, una delle più lunghe iscrizioni su pietra del mondo, non ancora decifrata. 
Ma sembra tutto un po' abbandonato, salire sugli scalini con uno staterello di muffa scivolosa, non è facile (soprattutto poi ridiscendere senza punti d'appoggio).

Interessante la sensazione di non-definitivo di questi resti dissepolti, si prova la sensazione di una grande civiltà ancora tutta da studiare, da scoprire, da riesumare. Conferisce alle cose un senso di mistero che affascina. Questa idea di un sapere non-definitivo è uno sfuggire al controllo razionale della nostra cultura. In questo caso No non è possibile rispondere a tante domande, ancora non si sa, non si capisce, non si può ancora dire alcunché di definitivo in merito. Si esce dall'immagine di definitivo rispetto alla conoscenza possibile sul passato che si acquisisce durante l'istruzione scolastica. Qui siamo in un evidente "provvisorio culturale" che non solo ci lascia ancora il piacere della scoperta, ma soprattutto ci da la consolazione del sapere che non siamo ancora giunti al culmine delle conoscenze nemmeno sulle civiltà umane passate da qualche secolo.







Interessante il piccolo museo, con strumenti di ossidiana, collari e decori di giada, otturazioni dentali, una lente biconvessa di cristallo di roccia,  manufatti di ceramica di vari stili, piatti con pitture o con disegni incisi, ecc. Stupenda questa "Atene dei Maya" come la chiamano. Compero oltre alla guidina del sito, di Adan Cueva, anche un opuscolo di J.Diaz Bolio, sulla geometria maya derivata dai disegni che compaiono sulla pelle del serpente a sonagli crotalus durissus (o "vipera di cascabel centramericana"), specifico di questa area geografica, il quale, adorno di piume, rappresenta il quetzal, uccello-drago simbolo del divino supremo, il Quetzalcoatl.
Però qui tutto crolla, è semiabbandonato, le radici degli alberi che crescono sui cumuli di rovine, stritolano tutto...  quei pochi addetti non sembrano né dotati di strumenti, né personale specializzato da poter riassemblare il puzzle con cognizioni sufficienti...


 il Consiglio dei maggiorenti (da immaginare con copricapo in fibre vegetali e piume colorate)






l'area sacrificale


il sacerdote con davanti la tartaruga che regge un ripiano dove compiere il sacrificio

una sorta di "Hanuman" il dio-scimmia


testa del serpente piumato (Kukulcan, nella lingua degli Aztechi: Quetzalcoatl)

ovviamente si è pensato che i Maya avessero ancestrali origini asiatiche


Importante è stato lo studio di Federico Lunardi, del 1948:


Anni dopo il nostro viaggio uscirà questo bel libro:

Gridi continui di uccelli che tento di imitare ottenendo risposta...
Pappagalli, pappagalli, grandi, colorati ... àra ! àra !  àra !

Quiriguà
.
Rientrati in Guatemala ci sono dei camion che portano a Jocotàn, di là a Chiquimula, poi si passa vicino a Quiriguà, dove ci sono pure qui varie steli, e la stele "E", alta 9 metri, è la più grande pietra scolpita dai Maya che si conosca (e con uno stile originale, forse di una etnia particolare, comunque non di Copàn).

Proseguiamo fino alla costa, a Puerto Barrios.
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P.S.: per chiarire, anche se con una certa dose di schematismo, la popolazione del Guatemala, come del Chiapas, e di alri territori presenta una notevole concentrazione e convivenza di culture diverse una accanto all'altra, si compone grosso modo come segue:

Ladinos sono i bianchi, (non solo di origine spagnola ma in generale di origine europea), che non si sono mescolati con altri; creoli, criollos, sono tutti coloro che avendo come lingua madre lo spagnolo (e che lo parlano anche in ambito domestico e privato), sono "bianchi" nati in America o sono figli di nati in America, quindi la popolazione bianca locale (con esclusione dei bianchi di recente immigrazione).  Meticci, mestizos, o mixtos, sono i figli di unioni miste tra individui di origine europea (per lo più uomini) e individui di origine india, indigena (per lo più donne), e i loro discendenti, prevalentemente sono hispanoparlanti anche nella vita privata, anche se non sempre;  indios, o amerindi, sono gli individui di origine locale, quindi aborigeni, indigeni, e ve ne sono di assimilati (detti anche aladinados) e altri culturalmente "puri", o non-assimilati; la gran parte sono di madrelingua amerinda, anche se molti conoscono lo spagnolo come seconda lingua (e lo usano in pubblico), mentre un'altra parte generalmente analfabeta e non assimilata, parla solo la propria lingua. Esistono molte diverse etnìe amerindie con differenti lingue e tradizioni proprie. Mulatti sono i figli o discendenti di unioni tra bianchi e neri; i caribe o caraibici, o negros (neri), sono di origine africana, e generalmente anglofoni, e i loro discendenti; e gli zambos (termine derivato da strambus), sono misti nati da unione tra neri e indios, e i loro discendenti (vengono detti anche lobos in Messico, e garifuna sulla costa dei Caraibi). Vi sono anche zambos derivati da unioni tra neri e individui di provenienza asiatica.

I nordamericani vengono chiamati o yanquis (da yankee, che originariamente designava i pirati di lingua inglese), oppure più comunemente gringos (derivato da griego= greco, cioè per estensione uno straniero che parla una lingua strana che non si comprende).


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CARAIBI guatemalan Caribbean coast


§.3 - Some time in slaveland   (formerly)

Poi l'indomani mattina viaggio scassatone "all'indiana" verso Puerto Barrios, la cittadina è intitolata a Justo Rufino Barrios, un liberale dell'Ottocento che tentò riforme in senso laico e fu ucciso in uno scontro armato con vari caudillos del Paese.
Facciamo un percorso dritto, lungo la ferrovia della nordamericana United Fruits Company, e vediamo i terreni cintati da filo spinato con le guardie sulle torrette, è una porzione grandissima del territorio del Guatemala (più di un terzo) che è privata e del tutto inaccessibile ai non addetti... Là dentro vigono solo i regolamenti stabiliti dalla Compagnia, ogni problema interno viene risolto all'interno della zona cintata, si configura una sorta di Stato dentro allo Stato. Ha cominciato ad operare in Guatemala dal 1870 e alla vigilia della seconda guerra mondiale possedeva piantagioni per un milione e mezzo di ettari, una flotta di cento navi per l'esportazione della frutta negli Usa. Se inoltre si considera che a livello economico oggi la metà del caffé prodotto è in generale in mano a imprese Usa, così pure per il cotone (in questo campo l'altra metà è di ditte giapponesi), e quasi totale è il controllo UF sulla produzione di zucchero nelle piantagioni...  e si consideri anche che le ferrovie esistenti nel paese sono proprietà privata della stessa United Fruits Company (per 2100km, di queste solo due linee sono per il pubblico), si può ben misurare chi comanda in Guatemala... Oltretutto si consideri che ancora oggi il 2% dei proprietari terrieri possiede il 72% delle terre, e che il 75% delle imprese economiche e commerciali dipende da capitali stranieri. D'altronde quando nel 1944 salì al governo una lista progressista che nel 1952 nazionalizzò i quattro quinti dei terreni incolti della UFC (e li distribuì a centomila contadini) intervenne l'esercito Usa, con il pretesto che le riforme erano state appoggiate dal partito guatemalteco dei lavoratori (di orientamento filocomiunista), e la CIA nel '54 mise al potere il generale Fuentes. Ci fu una rivolta nel '60 ma fu spenta definitivamente nel '63 con un colpo di stato da parte di una giunta militare. Oggi il Paese è in mano al generale Lucas e al suo "partito rivoluzionario" di estrema destra. Non di rado qualche persona sospetta di essere un oppositore, semplicemente scompare senza lasciare traccia ad opera dei cosiddetti "squadroni della morte" (vedi quel che racconta il premio Nobel per la pace, Rigoberta Menchù). Dall'inizio degli aa '70 la UFC si è fusa con altre compagnie a formare una più grande Corporation, la United Brands Company per opera dell'industriale Eli Black, che poi nel '75 si è suicidato gettandosi dalla finestra del suo ufficio al 44° piano della PanAm building a New York. Ora è stata comperata da un grossissimo gruppo finanziario multinazionale...

Percorsa tutta la carretera atlàntica, che segue il corso del fiume Motagua (che va dalla capitale alla costa est), e arriviamo stremati a mezzanotte al Mar del Caribe, golfo de Honduras. Il golfo e il paese costiero, si chiamano così, perché sono state le prime coste della terraferma del Continente, visitate dallo stesso Cristoforo Colombo (Cristòbal Colòn in spagnolo) nel suo quarto viaggio, nel 1503, che qui trovò che c'erano acque molto profonde (hondo in sp. significa fondo), quindi è la costa con delle profondità (in spagnolo =honduras).

Puerto Barrios è una "cittadina" di 23 mila ab. (distrutta tre anni fa da un terremoto nel '76), dispersa tra palme e larghe stradone di fango, senza illuminazione, dove vaghiamo per ben un'ora tra le pozzanghere e la pioggia in cerca di un rifugio per la notte. Chiediamo informazioni negli unici luoghi dove ci sia qualcuno, i locali notturni del porto. Locali con musica bassa e luci basse, in cui noi, timidi e disambientati, tra questi negroni hispano-anglo-caraibici della costa, che ci guardano sbalorditi, chiediamo se ci sono dei posti dove dormire. "mi amor, sì que hay lugares...", "por aquì", "por allà", "todo recto", "sì! como no?" ...
Troviamo infine un posto qualunque (forse era La Caribeña?), e crolliamo sul letto.



Stamattina ci facciamo una camminata in giro tra casette di legno, palafitte, o baracche di lamiera, molte con verande e balconcini. E' una cittadina squallida semi-abbandonata dopo che la nuova Corporation che ha sostituito la United Fruits ha costruito un po' più a ovest un nuovo porto moderno a Santo Tomàs de Castilla. Oltre che da terremoti e cicloni, PB è anche spesso afflitta da epidemie di malaria. C'è una minoranza di britannici, e un buon numero di neri immigrati dalle  isole Antille.

Fradici di pioggia arriviamo, assieme a un compagno tedesco, all'attracco della lancha per raggiungere il porticciolo di Livingston, che sta dall'alta riva della foce del fiume Rio Dulce, detta anche La Buga, o Bahia de Amatique, che separa il territorio guatemalteco da quello dell'Honduras britannico, chiamato anche Belice o Belize (che poi due anni dopo diverrà indipendente nel 1981), che è tutto nero-caraibico di lingua "inglese". 
Aspettiamo sul pontile. E' tutto un gran spettacolo: ci sono tipi da film sullo zio Tom (quello classico di Walt Disney, Song of the South, del 1946 con la famosa canzoncina Zip-A-Dee-Doo-Dah); donnone nere, mujerones con i loro culoni enormi strabordanti portati in giro con nonchalance e allegria; ragazzine negrette  alte magre secche che si muovono con fare dinoccolato; tutti sgranocchianti porcatine (mi pare sia cotenna di maiale seccata).
Eccole lì, le due ragazzine sempre smangiucchianti, con il labbro inferiore sporgente e il naso un po' piccolo, si siedono di fronte a noi, vicinissime, e intanto che chiacchierano incessantemente, si mettono con indifferenza a giocherellare con le dita coi peli delle mie gambe... !
Tra ondine e mille spruzzi arriviamo in due ore di traghetto a Livingston la cittadina caraibica del Guatemala abitata da neri discendenti degli schiavi africani che furono portati forzosamente qua con la tratta degli schiavi per impiegarli a lavorare nelle bananeras o nelle piantagioni di canna da zucchero, o più tardi nella costruzione della ferrovia. Fu l' esploratore Gil Gonzales Davila che nel 1524 giunse qua assieme con varie persone, tra cui non solo la prima donna europea che mise piede sul continente centramericano, ma con alcuni schiavi africani. Da allora si vide che erano più forti e migliori nei lavori di fatica, che non gli indigeni, dopo di ché sulle coste atlantiche, non solo delle Antille ma anche della terraferma, giunsero in un secolo forse più africani che europei (bisogna dunque pensare che l'America fu "colonizzata" o meglio popolata dall'Africa, che tutt'ora esercita un grande influsso culturale sui suoi discendenti).
Arriviamo con un calor tropical a questo villaggio affascinante, dove parlano il caribbean (o alcuni di loro il garifuna), che è un miscuglio tra lingue africane, come lo yoruba, kiswahili, kikongo, e lingue europee, come il castigliano d'altri tempi e il pidgin english (ma con qualcosa anche di lingue precolombiane, inizialmente ancora presenti sulla costa).



Certo in un viaggio si continua a cambiare luogo, ma non solo per il fatto che si passano confini e si cambia moneta ecc., ma perché questo ci pare eminentemente proprio un viaggio tra popolazioni, e culture completamente diverse tra loro. Il fatto appunto è che non cambiano solo i volti, le facce, o i corpi, o i colori, sotto ai nostri occhi, ma siamo contemporaneamente costretti a cercare di penetrare ambienti diversi, riconvertendoci ogni volta. Così, quando si incomincia ad avere la sensazione di cogliere alcuni tratti messicani, diciamo propri della "messicanicità", anche magari con l'aiuto di un autore come Octavio Paz ad esempio, ...ed ecco che già siamo tra gli indios di montagna, dignitosi, e in parte anche rispettati, come ci sembrava tra gli zapotechi a Oaxaca, e poi tra i toltechi e infine tra i Tzotzil (o Sots'il) a San Cristobal e a Cholula, così diversi dai primi. E poi ora ecco che siamo in Guatemala, dove immediatamente ci si presentano piccoli, o non piccoli, sintomi che ci rinviano ad altri elementi, che ci danno un quadro di una politica interna ed estera, di una certa struttura economica, di una cultura, o di una pluralità di culture conviventi, che sono sintomi molto diversi da quelli messicani, per cui basti pensare all'abbraccio soffocante della United Fruits, o alla miseria interiore di una metropoli quasi priva di storia come Guate-City, all'emarginazione assai marcata, al limite del razzismo e dell'apartheid verso gli abitanti originari amerindi, che si opera con i quotidiani abusi e soprusi da parte dei ladinos, e con il far sentire inferiori gli aborigeni forzosamente marginalizzati, ma anche con una concomitante assimilazione e meticciamento che mira e porta ad una mancanza di rispetto per l'identità di partenza a favore di una identificazione con il modello culturale proposto come fosse intrinsecamente superiore. Per secoli dopo la conquista gli indios erano considerati "naturalmente" inferiori per via di varie "cause". Per ciò oggi si tende a non utilizzare più il termine stesso di indio poiché viene considerato come un termine impregnato di cultura discriminatoria e razzista, e si preferisce riferirsi alla popolazione originaria americana  come a popolazione maya, o indigena, o aborigena, o utilizzando magari la denominazione dell'etnia specifica di appartenenza.

Questa eredità culturale di matrice coloniale (ma che è stata dominante sino a poco fa nella repubblica creola indipendente), è una eredità molto pesante, e presente tutt'oggi, per cui una parte della popolazione si ritiene erede dei conquistatori, che interpreta come civilizzatori, e poi vi è un'altra parte che si sente spregiata e rifiutata e spinta a imitare anche se solo in modo abborracciato i modelli proposti da chi si ritiene a loro superiore, quasi riconoscendolo tale o aspirando ad assimilarsi per essere considerato eguale ai ladinos, o almeno per elevarsi socialmente.
Molti meticci e una parte di indios si sono col tempo integrati nella cultura dominante dei ladinos, e ciò potrebbe portare in prospettiva alla fine della cultura amerindia. Paradossalmente storicamente la segregazione e la maginalizzazione degli ultimi secoli ha perpetuato la estraneità degli indios al processo di modernizzazione e quindi ha consentito la continuazione del loro sentimento di identità collettiva. Ma ovviamente la marginalizzazione ha significato purtroppo anche una perpetuazione non solo di condizioni di vita miserabili, ma anche della ignoranza. Il che può anche intersecarsi con la cultura e la appartenenza religiosa, per es. Rigoberta Menchù ci racconta che se sua madre era di religione maya, suo padre era invece cattolico. Dal punto di vista culturale si dice che i meticci, cioè i misti dal punto di vista del sangue, siano in parte assimilati ma in parte anche composti da non assimilati. Così come anche tra gli indios molti sono cristiani, o cattolici o protestanti, ma a volte la loro devozione si estrinseca in pratiche religiose miste, meticciate, mente in altri casi non è così.
Poi spostandosi durante il viaggio verso la zona degli altipiani, la prevalenza india si sfuma e si dissolve proprio procedendo in direzione della città sacra di Copàn, dove per beffa dei poveri posteri odierni dei maya si trova la prova vivente della quella cultura ancestrale che l'umanità attuale sta riscoprendo e studiando con grande interesse.

Poi una scassata corriera di seconda classe ci mostra -semplicemente osservando dai finestrini- la potenza dei padroni della bananera, e dell'agricoltura, e infine quando si scende sulla costa, ci si sente sbattuti improvvisamente in uno sgangherato non-luogo nero-caraibico. 

Qui quasi tutti sono neri (ma cittadini guatemaltechi come gli altri), si esprimono in uno strano inglesaccio spagnolizzato, sono danzerecci e ridanciani. Ed ecco qui di nuovo che impera dappertutto la musica che ti fa venir voglia di ballare, vedendo loro così dondolanti e molleggiati. 
Ma ecco che ora passano lente e composte con i loro occhietti mongolici tre indie di qualche paesino interno, che si scambiano poche parole in una sorta di antica lingua maya (che a secoli di distanza si sarà pur modificata), e in questo contesto marino sembrano una allucinazione, un fuori-luogo. 
Questo paesone Livingstone richiama per noi veramente la dimensione dell'assurdo di Camus, così isolato nello spazio (ma anche un pochino nel tempo), quasi senza traffico motorizzato, senza collegamenti via terra con il proprio Paese, dove questa gente praticamente continua a parlare il linguaggio degli schiavi di secoli fa, essendo abituati ad essere sempre solo tra di loro quattro gatti. Anche i cani randagi qui sono sempre solo quelli e tutti li conoscono ...


Mi ero comperato un cappello hondureño (per 830 lire), e ora mi compro un cappello "alla Livingstone" (450 lire). Al comedor un ragazzino ci si siede accanto a tavola, e aspetta rispettoso che terminiamo, per poi chiederci di dargli i nostri avanzi (una testa di pesce e un osso di pollo), lo invitiamo ad accomodarsi e gli diamo qualcosa di decente.


Poi più tardi lo reincontro, e mi chiede in prestito il sombrero e ci gioca. Al comedor c'è anche un ragazzo vistosamente omosessuale.  Più tardi ad un altro ragazzino, più casinaro, insegno un paio di giochini con le dita, e si diverte come un pazzo, e così sta un po' fermo  e si calma un po'. 
Ogni tanto c'è qualcuno che accenna passi di danza. Questa gente vive dentro una sua dimensione, appartati, e con gran voglia di scherzare e fregarsene finalmente del resto. Ma sono poveri, vivono in baracche di legno o di latta ondulata, anche se si vestono con abiti allegri tutti colorati. E' un po' come la spiaggia, è molto tropical, ma è zozza.

D'altronde tutto il paese è molto povero, è un paese come si suol dire sottosviluppato del Terzo Mondo (o del Quarto?). Le statistiche dicono che in Guatemala il 74% delle case è privo di acqua corrente, e l' 81% delle abitazioni sono composte di un unico ambiente, e spesso hanno per pavimento la nuda terra.
Si pensi che in generale in Guatemala il tasso di mortalità infantile entro il 5° anno di vita è del 43,6 per mille, e tra gli indios è quasi il 90 per mille! Per cui la speranza di vita in media è di 49 anni, e tra gli indios di 40....... (Diversa e un po'  migliore la qualità di vita dei ladinos e in generale nelle maggiori città).

Il giorno dopo andiamo a Los Altos, anche chiamato Las Cataractas, a due ore di cammino. SI passano rivoletti di scolo schifosi e poi un rio in cui si affonda fino alle ascelle, ma dopo c'è un posto magnifico: palme da cocco e da banana fin sul bagnasciuga, e oltre, ci sono capanne sparse nel fitto della giungla, uccelli, animalini vari. Le palme cadono in mare

perché le onde erodono la base sabbiosa e così le radici e questa base con mista terra e muffa, esce allo scoperto e produce fiori stupendi finche l'albero non cadrà nell'acqua salata e non filtrata.
Ci sono migliaia di conchiglie, ci sono pellicani, delle specie di aquilotti, stiamo a guardare una cavalletta gialla mangiare un filo d'erba, e tante tante farfalle, delle specie di paperotti che vanno anche sottacqua e scompaiono ...
Poi ci si inoltra per un sentierino di melma nella giungla, e ci sembrava di entrare in un fumetto con Tarzan e Jean... Incontriamo una autostrada di formiche che mordono, fiori, liane, intrico d vegetazione inestricabile.

L'infinita ricchezza della biosfera che genera vita in milioni di forme, e la varietà ci incanta come una complessità dotata di bellezza se vista nel suo insieme rigoglioso. E infine si trovano queste stupende piscine di acqua fresca che si gettano le une nelle altre; vado sempre più in su e ce ne sono sempre di altre... siamo eccitatissimi. Facciamo il bagno vicino a una cascata, poi vado su a rivedere altre piscinette piene di fiori rossi, si chiamano cascate de los siete altares.

Torniamo stanchi stanchissimi, vediamo tre grossi pescioni vicino alla riva che sembrano proprio i classici pesci d'aprile, ma grossi, il pescatore ne aveva presi vari e li stava tagliando a fette col suo machete, raccogliamo due grosse scaglie dure e lucenti da portarci a casa per ricordo.
Incontriamo la capanna di una famiglia e scambiamo una elementare conversazione.

Qui si fanno tutto da loro stessi, e se ne stanno appartati nei loro villaggi di capanne o anche da soli a vivere indisturbati come gli garba, senza Stato, senza leggi, senza istituzioni, lontani da tutto. E' curioso...
Ritorniamo verso il paese, e incontriamo altre frazioni e casette isolate o in piccoli gruppi.






 un fior di banano


Ci dirigiamo verso il mare, verso Livingstone, dove partono le lance, cioè le barche lunghe, per i collegamenti esterni.



Apriamo il portone col suo rudimentale ma efficace "meccanismo di chiusura automatica", e
appena arrivati crolliamo letteralmente addormentati anche questa volta, e non ce ne importa se proprio ora sulla spiaggia stanno cominciando a ballare attorno a un falò...


Questa della costa di Livingston, e poi quelle del Belize, sono ancora tra le coste caraibiche più incontaminate e selvagge.
In un villaggio fuori Livingston vivono anche i Garifuna, una piccola minoranza di discendenti di unioni miste tra schiavi africani fuggiti e nascostisi qui, e donne degli antichi popoli indios - caribeños (ora estinti), vengono detti mulatti zambos (=strambi). Povera gente ma con loro belle tradizioni particolari, una loro lingua molto ibrida, e una religione sincretistica catto-africo-india.
  



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ISOLE NELL'OCEANO VERDE DELLA FORESTA VERGINE


4.  il Petén:  sprofondati nella giungla Maya

Su una lancha che sarebbe per 14 (??!!) ci stiamo a malapena in nove, e andiamo per due ore e mezza risalendo dalla bahia de Amatique dentro alla foce del fiume e poi su per il Rio Dulce.
Questo è il nostro Grande Viaggio.
Si affonda per il peso sin quasi a che il bordo della barca viene raggiunto dal pelo dell'acqua , e si sta in equilibrio davvero precario: tutti perfettamente allineati e immobili se no dondola tutto.
Arriviamo fradici sin nelle mutande.
Il fiume in questo tratto finale è ampio (largo) 300 metri. Spettacolo stupendo di questa landa incontaminata, di questa giungla lussureggiante, di queste capanne dei pescatori, ...di questo mondo "fuori dal mondo", o comunque assai lontano dal "mondo".












All'imbocco del lago di Izabal (che fu nascondiglio e rifugio dei pirati) attracchiamo vicino al castillo de San Felipe, e da lì parte una pista non asfaltata di terra battuta (= di fango e melma) che va su dritta a nord attraversando tutta la regione del Petén, ovvero la immensa distesa della foresta del Petén. Il viaggio di ben 8 ore fino al borgo di Flores è un po' massacrante (e poi sapremo di essere stati anche  fortunati...). E' come un nostro viottolo di campagna non ben tenuto, su cui viaggia un pullman. Verso l'interno la foresta si fa fitta, e il paesaggio è veramente anche qui stupendo. Per due volte a dei ponti di legno dobbiamo tutti scendere perché non reggono un autobus con i suoi passeggeri, e quindi attraversiamo i ponti a piedi. Mi chiedo come facciano per i trasporti merce pesanti. Una volta un lungo serpente ci attraversa la strada.
Infine giungiamo a Flores (4 mila abitanti), che è un borgo costruito in una penisola sul meraviglioso lago Petén Itzà, ma è un buco insulso e brutto. Oltretutto nessun albergo o pensione o ostello è libero.

Troviamo nella vicina San Benito, all'  "hostal del Rey". Questa è una urbanizzazione di frontiera (la "frontiera" guatemalteca non quella del FarWest, ma è simile) da cui si irradia il processo in corso, di popolamento e colonizzazione del territorio, quindi si vedono tutti i movimenti del caso nei negozi, nelle stradine, e con i trasporti. Tanta povertà e altrettante speranze quasi tutte frustrate. E' proprio il caso di dirlo: tristi tropici...!
 
Inoltre sembra che con il piccolo sviluppo della regione, sia ripreso il traffico clandestino, il giro di petrodollari, il narcotraffico (ma era mai cessato? non credo), per cui ci sono alcuni che si illudono di fare guadagni facili e poi restano bruciati e finiscono nei pasticci.
Appena possibile ce ne andiamo al mattino presto da quel penoso hostal. Facciamo il tratto da Flores a Tikal gratis dato che incontriamo degli italiani, che avevano dovuto rinunciare e tornare indietro, che ci regalano i loro biglietti. Il tragitto è di circa 63 km e lo compiamo in circa 4 ore. Si mette a piovere (siamo nella foresta pluviale....) e dopo scivoliamo di continuo in modo impressionante nella melma. Ogni tanto sale qualche indio maya Itzà con pantaloni e blusa di cotone grezzo "bianco" e con alla cintola il suo bel grosso machete, magari anche vecchio e superusato e un po' arrugginito, che si mette in piedi nel corridoio traballando con la punta del machete rivolta verso il mio sedile... Poi non si capisce da dove sia comparso? e dove vada? quando scende... si incammina dentro alla foresta e scompare... povera gente ...



Eccoci al capolinea di Tikal ("il posto dell'eco", in antico maya). Qui attorno non c'è assolutamente nulla, solo qualche baracca di legno, si vede più in là uno stradone che poi scopriremo sarebbe la pista d'atterraggio di areoplanini da turismo, due alberghetti (pieni), e tanti mosquitos. 
Col permesso dei proprietari attacchiamo le nostre due amache in un posto sotto una tettoia libera. Ci cospargiamo di Autan e di Baygon. Reincontriamo il tedesco! e in quel momento lui ci indica una scimmia che sta lì ferma ad osservarci bene con calma, e poi scappa.




Vagoliamo in qua e in là sempre sotto assedio dei mosquitos, e anche dei terribili piccoli zancudos, finché decidiamo sotto una luna quasi piena, tanto forte da fare le ombre nette per terra, di andare a tentare di dormire perché siamo assonnatissimi.
Sarà praticamente una notte in bianco, non solo per via dell'amaca, ma per un certo timore che la foresta tutt'intorno incute nel buio con la sua fitta e misteriosa oscurità popolata di rumori, di magiche grandi lucciole, di gridi, versi, forse scricchiolii di passi che si avvicinano ... ci sono certamente varie scimmie urlatrici.
Spessissimo mi sveglio un po' di soprassalto sentendo spezzarsi dei rami. Questi richiami di uccelli e il rumore della semplice presenza, delle attività e della vita degli animali notturni stimolano l'insorgere di timori ancestrali relativi al buio e alla perdita di vigilanza. Sono suoni e rumori a cui non siamo abituati, che non conosciamo e sentiamo per la prima volta. Ci sentiamo soli ed esposti, allo sbaraglio, non protetti. E gli occhi si chiudono per la stanchezza e il sonno.
Annalisa poi ad un certo punto vede uno scorpione nero passeggiare sul "tetto" ed è terrorizzata al pensiero che le possa cadere addosso. Quando ci viene da andare a fare pipì, è tutto un lavoro per scendere dall'amaca in silenzio, e con la pila cercare il bugliolo schifoso, inaffidabile al buio notturno, 

per cui andiamo in due un po' più in là ma con precauzioni per timore di pestare qualche bestia. Mi torna in mente che nel lodge alla "periferia" di Livingstone, ci avevano mostrato varie tarantole, e alcune le avevano in gabbiette dentro casa. All'albeggiare alle cinque ci alziamo e vediamo due animali che ci sembrano due pantegane mostruosamente grandi passarci nelle vicinanze! (ma forse invece erano due capibara ...) che oltretutto si fermano e se ne stanno erette a guardarci, come degli intrusi a casa loro, 
capibara americano

e poi uccelloni neri, o uccellacci, che camminano attorno becchettando con violenza. Tutta la giungla si sta risvegliando e a turno ogni specie fa sentire il suo richiamo o verso. Ci alziamo prestissimo all'alba. Assonnati ci dirigiamo verso la ricezione di questo campamiento, e Annalisa si accorge di un serpente... wow!
colazione alla "Comedora Esperanza".
La foresta è ancora tutta avvolta nella bruma come fosse dentro al cotone, ci sono proprio nuvolette o nuvoloni di bambagia avvolgenti che stanziano là un po' sospese.
Fa un caldo afoso bestiale!  Ma la bruma bianchiccia via via si dilegua.


Scoppiano all'improvviso fortissimi battibecchi tra chissà quanti pappagalli; poi c'è insistente quello strano insetto che  fa il rumore forte di una segheria in attività. Ci sono pure dei picchi che martellano. Liane, radici scoperte che corrono qua e là sul terreno, fiori stupendi e foglie immense. Sugli alberi ci sono delle scimmiette, ci pare di aver visto un grande uccello coloratissimo che non era un pappagallo. Siamo incantati e affascinati camminando verso dove ci dovrebbero essere i resti archeologici. All'improvviso nella ancora scarsa luce e nella nebbia della evaporazione della foresta, emerge immenso un tempio maya ...



e poi delle steli con geroglifici... la foresta non è solo popolata, ma cela in sè la propria antica civiltà silvestre perfezionata e primitiva al contempo, che era nata dal suo seno. ...


La vista della gran plaza mayor è indimenticabile e indescrivibile con le due grandi piramidi che si fronteggiano. Oltretutto siamo completamente da soli e questo accresce l'incanto, ci sembra quasi di stare "scoprendo" noi questa antica città, trovando ora qui ora là le sue vestigia. Saliamo a fatica (per il caldo umido) su per i ripidissimi gradini coperti di muffa e scivolosi, sino in cima al tempio principale (a 70 m.) da cui si gode di una visione favolosa.



E' quella visione famosa che affascinò negli aa Venti/Trenta Eric Thompson, della giungla vista dall'alto (altrimenti avrebbe dovuto avere un pallone aerostatico, dato che qui non ci sono colli né monti). Un oceano verde vivente, sterminato e potente, che giunge sino all'orizzonte per 360° gradi,

e che appunto nasconde sotto la sua coltre vita e civiltà scomparse (oggi se ne contano almeno 35 di città o centri cerimoniali, e migliaia di templi), anzi proprio le fonti di entrambe, da cui emergono qua e là come fossero isole di pietra le vette dei grandi templi sedi ed eredi di culti in cui il sacro è veramente e profondamente al contempo mistero, fonte di timore per la sua sovrumana potenza, e dotato però di un magico potere di attrazione ammaliante.




Già nel 1696 un missionario, fray Andrès de Avendano vide questi resti. Si era avventurato nel profondo della giungla con l'aiuto di quattro "selvaggi" Itjaes (o Itzà) convertiti, per raggiungere Tayasal, l'ultimo ridotto maya ancora non conquistato e sottomesso, e tentare di fare opera di conversione. Ma, rimasto solo, abbandonato dai suoi fedeli, si perse e vagò attanagliato dalla fame e dalla paura, finché non si imbatté in questi templi satanici; ritrovato da un gruppetto di soldati spagnoli, fece poi dei disegni e scrisse un resoconto. Un secolo e mezzo più tardi la città abbandonata fu vista per caso a metà Ottocento dal colonnello della repubblica, Modesto Mendez, governatore militare del Petén, che stava inseguendo delle bande di indigeni nei loro rifugi nella giungla per stanarli, con l'aiuto della guida locale Tut, e dai suoi racconti nacque il mito delle antiche città sconosciute nascoste nel fitto della foresta. Ma ancora il mondo occidentale era incredulo di fronte all'eventualità che gli antenati di quegli indios primitivi e straccioni potessero avere raggiunto simili capacità, per cui i suoi restarono racconti favolosi di un mondo misterioso. Anche se nel 1877 lo svizzero Gustave Bernouilli la raggiunse e portò a Basilea le architravi di legno scolpito dei templi. Ma i secoli trascorsi dopo la conquista avevano fatto dimenticare del tutto la storia pregressa di questi paesi. Poi nel Novecento Eric Thompson andò alla ricerca della città perduta dei Maya, fece ricerche sistematiche e scientifiche per tutto il Petén, accompagnato dalla sua guida indigena di nome Bol, un maya yucateco del popolo Mopàn, ancora presente in Belize (la sua gente nell'Ottocento fuggì dalla repubblica creola nel territorio del vicino Honduras britannico; vengono alla mente le molte tribù pellerosse nordamericane che nella stessa epoca si salvarono fuggendo nel Canada britannico). E fece la grande scoperta di Tikal pur sommersa dalla vegetazione.
Il tempio del Grande Giaguaro è dunque una piramide alta 60/70 metri che si erge con il tempio alla sua sommità al di sopra degli alberi e con la vista diretta del cielo azzurro. Il tempio delle Maschere anche è straordinario con i suoi bassorilievi di personaggi piumati.
I lavori di recupero svolti in questi ultimi anni dalla Università di Pennsylvania non hanno messo alla luce che una piccola parte di questa area (si suppone che gli edifici si trovino in un cerchio che si estende per un raggio di 40 km per una superficie totale di 123 km quadrati). Molti edifici sono stati sgretolati dagli intrichi delle radici delle piante, o sono del tutto occultati da cumuli di terra con la vegetazione sopra.Inoltre se non guardi bene, certe grosse radici di superficie, potrebbero sembrare un grosso pitone o un boa, o addirittura un coccodrillo...


e poi per esempio questo cos'è? una bacca, un frutto, una muffa, o un insettone??







Giù tra le gradinate della cosiddetta acropoli vedremo due lucertole accoppiarsi, e poi tantissime meravigliose farfalle tropicali e grandi libellule. Giriamo affascinati sino ad essere esausti. Al ritorno preferiamo prendere una stanza al "Tikal Inn" visto che ora ce n'è una libera, e che oltretutto è una pensione per sette quetzales (=7dollari) pasti compresi, l'unica cosa che dispiace è che si sta costruendo proprio ora una nuova ala di questa Posada, invadendo la foresta proprio vicino all'ingresso. Poi rimaniamo sconcertati a vedere atterrare un bimotore ad elica, tipo Fokker degli anni '50, su quello stradone-pista di terra gialla, proveniente dalla capitale, che scarica un gruppo di anziani nordamericani che sciamano ovunque parlando inglese e poi risalgono e ripartono. Saranno stati certo ammirati da questo sito, ma è altrettanto sicuro che non hanno vissuto la sensazione impagabile di esserselo conquistato questo godimento e meraviglia.
Mangiando ci distraiamo giocando con i pappagalli dell'alberghetto che girano liberi e che vogliono un po' delle nostre tortillas. Ad una parete c'è una pelle di un serpente immenso. Intanto il bimbo dei padroni uccide orgoglioso uno scorpione nero. In una gabbia, dimenticata aperta (per errore voglio supporre) c'è una schifosa tarantola pelosa, e poco più in là indisturbato si fa gli affari suoi un grillo gigantesco.
Comunque appena cenato cadremo distrutti in un sonno riparatore.
Al mattino prestissimo partiremo e vedremo il cartello: "Quel che ci rende simili agli antichi maya è l'amore per il Petén nostra patria, e per il lavoro redentore, che noi uniamo alla devozione al Guatemala". Penoso e tardivo tentativo di coprire le colpe della storia e della attualità.

Con un camion guidato dallo stesso "gorilla" dell'andata Flores-Tikal, lasciamo Tikal alle 4 e nel buio attraversiamo il fitto della foresta sino a El Cruce. Di lì poi con una camioneta si attraversa una landa popolata da agricoltori, con baracche e capanne, sino ad arrivare a Melchor de Mencos al confine con il piccolo Honduras britannico per dirigerci verso Belize City (contro cui siamo tanto prevenuti a causa delle voci e del passaparola dei viaggiatori).
Adios Guatemala ! Adios a los Mayas.

(bisognerebbe tornare almeno a Tikal il 21.12.2012 quando secondo i calcoli maya inizierà l'Era del Quinto Sole, con lo spostamento dell'asse terrestre nel suo ciclo ellittico di 26 mila anni)

(il diario continua con: IV. - Belize,  e poi: V. - Yucatàn, vedi più avanti)

Nota aggiunta successivamente -
Per entrare nell'ambito del conflitto tra tradizioni di origine maya e le politiche culturali dei governi, si legga lil libro-intervista di D. Liano e G. Minà a Rigoberta Menchù Tum, intitolato Rigoberta la nieta de los Mayas, tradotto in italiano a cura di Minà: Rigoberta, i Maya e il mondo, edizioni Giunti, 1997.

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