Ho già postato diverse foto del viaggio sulle Ande in Ecuador, in
http://viaggiareperculture.blogspot.it/2011/07/diario-di-viaggio-in-ecuador.html
e poi in altre due puntate postate nel dicembre scorso 2014.
Ora, dato che il libro "Il viandante e lo sciamano" (Este-Edition, Ferrara) ha avuto già tre ristampe, e dato che è di fatto esaurito (era stato adottato in corsi sia all'università di Ferrara che all'università di Parma), propongo di leggerlo prendendolo in prestito in una biblioteca.
Riporto qui di seguito la Introduzione. Tra l'altro essa può ben collegarsi e integrarsi alla lettura della Introduzione al nuovo libro appena uscito "Con lo sguardo del condor" (Este-Edition, Ferrara, 2015):
Riporto qui di seguito la Introduzione. Tra l'altro essa può ben collegarsi e integrarsi alla lettura della Introduzione al nuovo libro appena uscito "Con lo sguardo del condor" (Este-Edition, Ferrara, 2015):
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Carlo
Pancera, La fecondità della narrativa di viaggio per la
Pedagogia.
prefazione teorico-epistemologica
prefazione teorico-epistemologica
E'
mai possibile veicolare un messaggio di valore pedagogico attraverso un testo
narrativo come un racconto di viaggio? La lettura commentata di un diario di
viaggio potrebbe svolgere una funzione educativa proficua? Più in generale un
testo di carattere narrativo può essere assunto (al di fuori degli insegnamenti
linguistico-filologico-letterari) come testo di studio? ad es. in un corso di
pedagogia? Ma ancor più: le problematiche e le questioni dell'educazione
possono essere validamente esposte, esplicitate, illustrate, oltre che in testi
specifici di genere saggistico, anche in testi scritti in modalità
narrativa?
§.1 -
l'intreccio di una relazione fruttuosa
Forse
si può dire che di fatto ogni opera in forma narrativa ci parla in qualche modo
di esperienze di vita, quindi dei contesti che ci hanno formato e che ci
continuano a formare, e dei vissuti, e della rete delle azioni sociali, cioè
delle relazioni tra gli "agenti" in campo, tra i quali si trovano
differenti generazioni e concezioni della società, e della morale, ecc., con
situazioni, accadimenti, illusioni, aspirazioni, delusioni, recriminazioni,
ecc. che costituiscono l'anima delle interazioni sociali, per cui tratteggia
contesti e percorsi di crescita degli individui e delle comunità umane, cioè
temi che rientrano negli ambiti di studio delle scienze dell' educazione.
Nella
narrativa in generale si tratteggia la fenomenologia (e non solo ) sia dei bisogni
cosiddetti "alienanti", che riguardano il possesso di beni, il
dominio sugli altri, lo sfogo delle energie distruttive represse, eccetera, ma sia,
e molto, la fenomenologia di bisogni come l'amicizia, l'amore, la convivialità,
l'evasione, l'introspezione, cioè di quei bisogni che, come dice Agnes Heller
(1970), riguardano la radice stessa di ciò che chiamiamo umanità.
Scrive
Peter Brooks in Trame - Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo :
“Le nostre vite sono incessantemente intrecciate alle narrazioni, alle storie
che raccontiamo o che ci vengono raccontate, a quelle che sogniamo o
immaginiamo o vorremmo poter raccontare: e tutte vengono rielaborate nella
storia della nostra vita, che noi raccontiamo a noi stessi (…)” (trad.it.
Einaudi, 1995, p.3). Quindi le narrazioni divengono come specchi grazie a cui
riflettiamo sulla nostra vita trascorsa e in fieri (cfr il mio “Le maschere e gli specchi”, 2011).
E'
pleonastico dirlo: ci sono romanzi che hanno letteralmente segnato il corso
della nostra personale maturazione, e altri che sono stati e continuano ad
essere punti di riferimento capitali per la nostra formazione intellettuale.
Testi di narrativa, che hanno saputo farci comprendere aspetti complessi dello
stesso processo formativo e dei contenuti impliciti di costumi educativi.
Menzionerei, così alla rinfusa, di William Golding, "Il signore delle mosche"; e i romanzi di Jane Austin; e
quelli di Simone de Beauvoir; e… "Padri
e figli" di Turghenijev; "Infanzia
e adolescenza" di Tolstoj; la "autobiografia" romanzata di
Goethe "Poesia e verità" o "Wihelm Meister, gli anni di apprendistato";
poi "Sotto la ruota", "Knulp", "Demian" e altri di Hesse; "Kim" di Kipling; poi "La
donna che fuggì a cavallo" di Lawrence; "L'uccello dipinto" di Kosinski; "Il giovane Törless" di Musil; il "Bel Ami" di Maupassant; "I Budenbrook" o "La
montagna incantata" di Thomas Mann; "L'educazione sentimentale" di Flaubert; "Il giovane Holden" di
Salinger; eccetera, ecc. ecc., ma ciascuno, anche a seconda della sua fascia
d'età, avrà da citare i propri titoli. Questi pochi citati sono
indubitabilmente tutti testi narrativi che ci dicono veramente molto e ci fanno
riflettere, proprio sui problemi della formazione, dell'educazione,
dell'istruzione, e del percorso di maturazione. Se commentati e utilizzati ad
arte possono ovviamente costituire materia abbondante di spunti per svolgervi
un corso di pedagogia, o di psicologia dell'età evolutiva, o sociologia
dell'educazione o altro…
Vi
sono poi nello specifico i cosiddetti "romanzi di formazione" (Bildungsroman
o roman d'apprentissage) che hanno intenzionalmente un obiettivo
pedagogico, e che sovente contemplano appunto dei viaggi a volte reali o
realistici, o a volte di pura fantasia, o metaforici, che ci mostrano e fanno
ben comprendere come si presentino e si svolgano nella loro complessità le
relazioni sociali ed educative in determinati contesti culturali (anche a
noi non-familiari).
Vi
sono poi anche narrazioni assai istruttive (o "romanzi di
istruzione", romans d'éducation, educational novels),
che si propongono apertamente un fine didattico e di insegnamento, tra queste vi
può essere anche un semplice resoconto relativo a un viaggio, anch'esso reale o
realistico, oppure inventato, che può ampliare le nostre cognizioni
geografiche, storiche, culturali, o almeno stimolarci a voler approfondire
certe conoscenze, o può contribuire a farci cogliere degli stili di vita, un
sistema di valori o di atteggiamenti comportamentali, una mentalità o
convinzioni morali, ideologiche o spirituali… e relative pratiche. E' spesso
dunque una importante occasione di confronto.
La
comunicazione narrativa ci può anche dare in modo molto preciso un quadro di un
ambiente, il che ci può far meglio cogliere la complessità e la problematicità
di situazioni che a noi potevano forse apparire più semplici da valutare
attenendoci a semplicistici schemi interpretativi… Anche recentemente un autore
come Bencivenga ha saputo esporre la filosofia in 42 favole, ed ha avuto un
notevole esito.
La
narrativa in generale ha il vantaggio rispetto alla saggistica di riuscire a
farci cogliere anche commistioni, compresenze, contraddizioni, antinomie,
apparentemente incompatibili (o almeno tali in una stringente logica
consequenziale) ma che a volte nella realtà vissuta convivono (drammaticamente,
o anche pacificamente) non solo in società o in gruppi umani, ma anche all'
interno di una singola personalità. "Il romanzo è per eccellenza il genere
che favorisce questa polifonia" (Bachtin). E ce le fa cogliere spesso
senza nemmeno cercare di spiegare, chiarire, definire, e molte volte anche
lasciando interrogativi aperti, problemi insoluti, semplicemente perché così
stanno le cose, e anche perché non è necessariamente fine e compito di un testo
narrativo quello di "far quadrare i cerchi", cioè di piegare la
realtà alla razionalità astratta e a una logica classificatoria o ligia a un ésprit
de géometrie, che non vada oltre i cosiddetti e mitizzati "dati di
fatto". (E' proprio per queste qualità che nel mio libro sui processi di
costruzione dell'identità, del 2011, ho inserito in bibliografia quattro pagine
e mezzo di titoli di testi di narrativa e anche due pagine di filmografia, in
quanto ritengo che essi riescano a farci cogliere in modo più reale i
termini fluidi e compositi in cui sta effettivamente "l'ordine” delle cose).
Diceva a questo proposito Vézina: "Contrariamente alla teoria, che tenta
di spiegare, eliminando per quanto possibile ogni forma di ambiguità, i
racconti riflettono le inevitabili contraddizioni degli esseri umani che
siamo" (p.17), e per questo sono più rivelatori, e persino in poche parole
sanno essere più esatti, nel senso che sanno "rendere" la effettiva
molteplicità del reale.
Nelle
sue lezioni tenute nel 1985 ad Harvard sul futuro della letteratura, Calvino
disse: "La mia fiducia consiste nel sapere che ci sono cose che solo la
letteratura può dare coi suoi mezzi specifici", ed elencò cinque sue
virtù: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, e molteplicità (di cui poi
specificò il significato particolare che lui attribuiva a questi termini in quel
contesto).
§.2 -
il raccontare di un viaggio altrove
Un
diario o racconto di viaggio, può senz'altro essere letto, studiato e
analizzato, utilizzandolo quale materiale ad es. per far conoscere a studenti o
a non esperti i contorni e i contenuti di una cultura "altra", a
noi estranea, e divenire un proficuo pretesto per dare spunti al docente
per ampliare la lettura con commenti e riferimenti di vario genere ed agganci
opportuni, e sviluppare in aula i temi di suo interesse, che possono ad es. essere
incentrati su problematiche della formazione, dell'educazione e della
pedagogia.
Nello
specifico, un diario di viaggio, o un racconto, più o meno immaginario, di un
viaggio, o brevi novelle con storie connesse ad una vicenda di viaggio, hanno
la peculiarità di essere narrazioni comunque ambientate in un contesto
differente da quello a noi usuale (lontano o vicino che sia, nel tempo e nello
spazio), situandosi in un contesto, forse approcciato o conosciuto in seguito
ad un contatto, o a un soggiorno, a una esperienza, a un viaggio appunto, o a
una visita, e può certamente essere letto, interpretato, commentato utilmente
in funzione di un insegnamento, ad esempio per compiere una analisi di contesti
in cui si articolano interrelazioni sociali con ambienti o istituzioni che
possono essere anche di forte condizionamento sul piano educativo, e tale
lettura e/o analisi testuale può evidenziare e comunicare molti importanti
concetti, e potrebbe inoltre avere di per sé anche un'influenza a volte
decisiva sul percorso di evoluzione personale di un lettore, e anche dare uno
stimolo a intraprendere un percorso di auto-trasformazione… A volte veniamo
presi da una grande passione, un innamoramento per una storia, una narrazione,
e certi racconti, o rappresentazioni, riescono a cambiare persino il nostro
modo di raccontare a noi stessi la nostra vita...
A mio
avviso per es. anche un testo in cui si svolga una semplice e asciutta
relazione, relativa alle vicissitudini e alle scoperte compiute durante un
viaggio, può agevolmente essere utilizzato al fine di svolgere una funzione
educativa.
Un
diario o racconto di viaggio ci mostra in molti casi come in ambienti
socio-culturali differenti dal "nostro" (cioè da quel contesto a noi
noto e con cui condividiamo componenti importanti della nostra identità
culturale, sociale, collettiva), possano essere diverse dall'usuale le stesse
componenti che entrano in campo nella costruzione della identità personale, e
quindi ci dice qualcosa dunque della educazione, intesa come azione e influenza
formativa, che ci ha plasmato, forgiato, o in qualunque modo condizionato,
mostrandoci la varietà dei percorsi che tali processi possono prevedere (anche
in quelle narrazioni non incentrate specificamente su queste tematiche).
Ad es.
il prendere consapevolezza del fatto che culture differenti, non sono semplici
stranezze, ma sono sorte da contesti ambientali, sociali e mentali a volte
assai differenti da quella che è stata la nostra esperienza, il nostro
personale vissuto, e così porci in grado di valutare, da lontano,
dall'esterno, con uno sguardo distaccato, il peso di una serie di
caratteristiche che magari sono riscontrabili anche nei nostri contesti,
seppure sotto forme e aspetti differenti, sono presenze importanti nella nostra
stessa società e cultura, di cui molte volte non abbiamo una chiara coscienza
perché non abbiamo i mezzi, gli strumenti concettuali, per uno sguardo critico.
Accade che siamo portati a dare per scontato che certi aspetti della cultura,
della mentalità, degli usi e costumi, ecc. che condividiamo nel nostro
ambiente, non siano solo caratteristici di esso, ma siano semplicemente quelli
"normali" e normativi, perché a noi appaiono ovvi e vengono dunque
dati quasi per "naturali", in quanto non li vediamo, non li percepiamo,
nella loro relatività e specificità se non ad es. nel momento in cui li
possiamo confrontare con aspetti di una cultura diversa. Sia la sociologia
della vita quotidiana (cfr. Jedlowski) che i grandi romanzi ci rivelano la rete
di gesti, atti comunicativi verbali e non, e significati impliciti che
sottendono questi aspetti più minuti e ordinari della società e della cultura,
e ce ne forniscono un quadro intellegibile. In spazi e interstizi come
questi (ma ve ne sono anche altri) si gioca la possibile “risonanza” di un
testo letterario nel processo formativo di un soggetto (cfr. E.Madrussan).
Ma
questo accade non solo nei grandi romanzi del realismo, ma, come scrive Balsamo
(v. in biblio.), in generale anche una narrazione dai toni fiabeschi, anche
"il linguaggio non realistico, evidenzia che il proposito della narrazione
non è tanto quello di comunicare informazioni interessanti circa il mondo
esterno, ma di chiarire i processi interiori che hanno luogo in un
individuo" e in un gruppo o in una comunità. Ancora Balsamo ci sottolinea
come "la possibilità dell'incontro (tra un autore e un fruitore) passi con
intensità attraverso la parola narrativa -e non solo quella argomentativa-,
parola particolare e quindi complessa, una parola che implica differenza e non
solo medesimezza".
Se
pensiamo ad es. ai reportages di Beppe Severgnini sui suoi soggiorni in
Inghilterra o negli Stati Uniti, o alle considerazioni di Luigi Barzini jr. sul
carattere degli italiani, scritte in forma giornalistica, non potremo che
trovare che sono riusciti a comunicare molto bene acute osservazioni senza fare
ricorso a categorie sociologiche esposte col rigore delle scienze sociali.
In
particolare nel vivere comune è proprio la diversità e la sua visibilità che ci
fa da specchio e ci permette di vederci sotto un'altra luce o angolatura. Ad
esempio l'ambiente materiale ed umano con cui veniamo a contatto durante un
viaggio in un mondo "esterno", in un "altrove", dunque ci
rende ragione tra l'altro di differenti "scuole di vita", di
differenti processi e contesti formativi. L'impensato si rivela a volte
possibile, a volte con nostra sorpresa e sconcerto, e ci rendiamo conto di
quanto effettivamente vi siano realtà assai differenti tra loro e di quanto
ognuno di noi sia condizionato suo malgrado. Inoltre riconoscere l’alterità
significa appunto comprendere ciò che il nostro “io” non è. Entrare in
relazione con i rappresentanti di tale alterità non neutralizza né la nostra
identità né l’alterità, ma ci rende più consapevoli del rapporto tra le nostre
risorse e i nostri limiti., in quanto il riconoscimento delle appartenenze e
quindi delle differenze avviene nel rispecchiamento. Qui risiede anche l’educabilità
della relazione, di ogni relazione. Se questo incontro/confronto non riesce ad
attivarsi nel qui/ora, c’è bisogno di compiere un movimento per andare verso il
dissimile, l’inconsueto.
Pascal
diceva che "la nostra natura è nel movimento", cioè essendo esseri
animati, vitali, la nostra stessa essenza è il movimento, il cercare di
conoscere ciò che ci sta intorno, e poi uscire dalla nostra cerchia per
esplorare e conoscere anche ciò che vi è più lontano, e infine anche per
ricevere nuovi stimoli e dei diversivi. Il grande viaggiatore e autore di
narrazioni di viaggio, Bruce Chatwin era rimasto colpito dal fatto che dei
neurologi americani in una ricerca su questa questione, avevano sottoposto un
gran numero di viaggiatori assidui ad encefalografia, ed era risultato che il
cambiare ambiente (ma anche solo l'avvertire con intensità il passaggio delle
stagioni) contribuiva a stimolare i centri cerebrali, e a dare motivazioni alla
vitalità. Già Montaigne nei suoi Essais, annotava che il viaggiare era
"un utile esercizio, la mente è stimolata di continuo dall'osservazione di
cose nuove e sconosciute", e più avanti concludeva che a seguito del
viaggiare "nessuna proposizione mi sorprende, nessuna credenza mi offende,
per quanto contraria alle mie". Sempre Chatwin aggiungeva che secondo
Robert Louis Stevenson, altro gran viaggiatore e scrittore, "le asperità
sono vitali", dunque Chatwin concludeva che è meglio se il viaggio è
avventuroso, perché appunto le asperità, o difficoltà, o imprevisti, tengono in
circolo l'adrenalina. Nel viaggiare altrove, occorre tenere desta l’attenzione,
e sapere praticare l’arte dell’osservazione. Altrimenti persino l’Ulisse di
Pascoli, pur essendo dotato di multiforme ingegno, se si addormenta potrebbe
non accorgersi di essere passato accanto ad Itaca (cfr. i “poemi conviviali” ).
Un
racconto di viaggio, ma anche semplicemente uno stringato reportage
giornalistico, un report annotato su un taccuino tascabile, è una forma di
comunicazione narrativa che non solo ci fa conoscere, e forse capire, contesti
"altri" appartenenti ad un altro hic et nunc (=ciò che accade
in questo momento in un luogo determinato), ma che ci mette di fronte
necessariamente ad un confronto appunto, ad una comparazione, che ci porta così
a riflettere non solo dunque su quell'oggetto di osservazione, ma anche sulla
nostra stessa formazione culturale, magari appunto vedendola in questo caso da
una prospettiva inusitata, da punti di vista e prospettive esterni a noi, o
comunque non nostri, da noi non-condivisi, che ci consentono -e questo è il
dato più importante- di relativizzare il nostro stesso mondo, di accorgerci
quanto in esso non sia scontato, ovvio, e "normale", né tantomeno
"naturale", o comunque consentirci di percepirne i limiti
socio-storico-geografici. Ci da la misura delle nostre effettive conoscenze
sulla nostra stessa origine, e ci aiuta ad acquisire la percezione della
complessità interna delle varie realtà socio-culturali, che ci potrebbe indurre
ad essere meno certi e drastici nei nostri giudizi riguardo al mondo
"esterno", e nel contempo più consapevoli di nostri pre-giudizi
rimasti a lungo stagnanti in un limbo nel sub-conscio o pre-conscio.
§.3 -
il viaggio attraverso la nostra vita
Un
ancestrale interrogativo (da cui poi è sorta la spiritualità umana e infine
anche la filosofia) è: cosa ci facciamo a questo mondo? a quale scopo siamo
stati gettati su questa terra con la nascita, e quindi perché dobbiamo vivere
questa nostra vita?
Secondo
una antica leggenda, noi siamo sulla terra in questa vita allo scopo di
ritrovare la risposta a una domanda che gli dèi ci hanno occultato. E una
leggenda indiana dice che l'abbiano nascosta nel luogo dove forse meno
penseremmo di andare a cercarla: giace dentro noi stessi. Ognuno ha la sua
domanda e a ognuno si addice la sua risposta. Stando a quanto ci indicano molte
fiabe ad es. siamo impegnati in questa récherche, (o quest ), ed
è una avventura veramente eroica. Fortunatamente ci sono molte cose e persone e
situazioni che possono aiutarci a scoprire quel che ora non riusciamo a
vedere.
Ad
esempio partire da dove ci troviamo e andare a conoscere altre culture, potrebbe
essere una strada da tentare per trovare risposte che altrimenti non troviamo:
grazie agli strumenti che altre culture potrebbero darci, potremmo vedere le
cose diversamente e magari guardare a noi stessi diversamente, e anche questo
potrebbe aiutarci, se non sappiamo dove cercare e come fare, forse c'è un
paese, un popolo differente che potrebbe darci spunti ora impensabili, per
nuove idee. Potremmo cioè servirci dello sguardo che noi proiettiamo
sull'Altro, per riflettere uno sguardo nuovo su noi stessi…
Ho già
altrove citato una vecchia storiella yiddish sulla ricerca affannosa per ogni
dove di un tesoro visto in sogno, che in realtà era nascosto dietro la vecchia
stufa arrugginita e sporca, nell'angolino più recondito di casa propria; qui
ora vorrei rivolgermi a chi ha visto il film francese "Il favoloso mondo
di Amélie" di Jean-Pierre Jeunet (2001), in cui la protagonista naïf
chiede a suo padre mentre sta curando il suo giardino, "se tu
ritrovassi qualcosa a cui nell'infanzia tenevi come fosse un tesoro, come ti
sentiresti? felice, o nostalgico, o malinconico…?", ma come al solito il
papà non ha mai davvero prestato ascolto alle continue domande della figlia…. e
allora un giorno lei fa in modo che gli giunga una strana cartolina da Mosca…
che sorprende il padre e riesce a risvegliare la sua attenzione… il papà
comincia a sentirsi a disagio perché avverte l'urgenza di partire per Mosca,
proprio lui che non aveva mai amato allontanarsi da casa… eccetera.
Anche
l’esperienza dell’avventura, è una pratica che può divenire importante
strumento, via, percorso, di formazione (cfr. R.Massa, in biblio.).
Persino
fattori in parte destabilizzanti, di spaesamento, possono essere anche positivi,
in quanto ci spingono tra l’altro alla pura curiosità, al desiderio
disinteressato di imparare qualcosa di nuovo (e forse anche di stimolante e
arricchente), se non addirittura di positivo Qualcosa che potrebbe poi indurci
ad una trasformazione, ad attivare in noi stessi una volontà (o disponibilità)
ad una "revisione" interiore, ad andare verso un cambiamento,
intraprendendo una metamorfosi, o comunque stimolarci a compiere un percorso di
crescita, di maturazione ed evoluzione, o almeno di chiarimento o di
approfondimento.
Il
chiedersi come è una cultura, una civiltà, una religione, una spiritualità, una
morale, un'arte, una filosofia, un popolo, un individuo, un oggetto diverso dal
consueto, è già di per sé un importante "salto" qualitativo che se
non altro, alla fine non può che allargare i nostri orizzonti e renderci in
generale più consapevoli del Mondo e della vita.
E'
anche per questo che si è spesso detto che un viaggio (e il suo narrarne) è in
fondo una metafora della vita stessa (e della nostra riflessione su di essa). Si
pensi a “Linea d’ombra” di Joseph
Conrad, oppure valga ora il riferimento al testo di Claudio Magris, "L'infinito viaggiare" (dato
che è ritornato alla ribalta della cronaca in occasione del recente tema
scritto per gli esami di maturità).
Anche
se magari questa metafora non è da tutti sentita come esaustiva, o per lo meno
può non essere da tutti avvertita come a sè congeniale. Ad es. lo scrittore
Erri De Luca recentemente in una intervista diceva proprio: "io non
intendo l'esistenza come un viaggio. E' per me piuttosto un esperimento svolto
in un laboratorio alla periferia dell'Universo".
§.4 -
di che impasto mai siam fatti?
Quanto poi il contesto
naturale e sociale in cui siamo nati e cresciuti, e le condizioni e le forme di
cultura dominanti nell'ambiente circostante, possano averci plasmato è assai
arduo stabilirlo in misura precisa e netta… Si ricordi ad es. la classica -e
per certi versi sviante, ma comunque ancora attuale- polemica tra Helvetius e
Rousseau, e Diderot al riguardo del rapporto tra ciò che sarebbe in noi innato
e ciò che abbiamo invece acquisito nel percorso di formazione (su cui anni fa
scrissi un saggio). Così si esprimeva nel 1801 il dottor Itard, incaricato di
esaminare un ragazzo abbandonato, vissuto sin da piccolo da solo come un
salvaggio in mezzo alla foresta del dipartimento dell'Aveyron: "Gettato su
questo globo senza forze fisiche, né idee innate, inizialmente incapace di
obbedire da solo alle leggi costitutive del suo organismo, che lo destinano al
primo posto nel sistema degli esseri viventi, l'uomo non può che trovare in
seno alla società il ruolo eminente che gli è riservato dalla natura, e
sarebbe, senza la civiltà, uno degli animali più deboli (…). Nella più
vagabonda delle orde nomadi e selvagge, che [i filosofi] hanno giudicato non
civilizzate perché non lo erano alla nostra maniera, (…), così come nella
nazione più civile d'Europa, l'uomo è soltanto quel che lo si fa essere;
necessariamente educato dai suoi simili, ne contrae abitudini e bisogni; le sue
idee non sono sue (…)" (p.23).
Le
odierne scienze umane e sociali, cercano appunto di darci conto anche delle
complessità di tali intersezioni (tra l'innato e l'acquisìto), e anche di
quanto sia problematica e complessa la domanda stessa (o forse soprattutto
quella sua particolare impostazione dei termini…).
Ma non
va dimenticato che un diario di viaggio, cioè di un percorso di attraversamento
di contesti "altri", ci riferisce qualcosa anche su come esso può
venire visto e vissuto da un individuo estraneo a quei contesti, cioè ci riferisce
anche di un segmento di vita dell'autore, di esperienze compiute dal
viaggiatore curioso, e di sue reazioni ed eventualmente anche riflessioni a
contatto con uno scenario complessivo differente da quello di partenza. Alfonso
Vinci scriveva: "ho divagato molto, come è mia abitudine, mentre dovevo
solo spiegare il senso di questo libro che si intitola Lettere tropicali.
Da dove vengono, che cosa dicono, perché sono state scritte. Evidentemente
molte raccontano in definitiva soltanto fatti personali: una autobiografia
frammentaria e paradigmatica, recitata sugli scenari mobili del tropico. Ma una
gran parte di queste lettere investe pure profondi interessi umani"
(A.Vinci, Lettere tropicali. Taccuino di viaggio di un esploratore, p.
10). Egualmente si potrebbe dire ad es. dei libri di viaggio affascinanti
(anche se certo non imparziali, nel senso di obiettivi, ma molto appassionati e
coinvolgenti) di un giornalista di valore come Tiziano Terzani, inviati da vari
Paesi dell’Asia, o di Alberto Moravia, e così pure di altri grandi scrittori, e
uomini e donne di cultura, …. “Un uomo
si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni popola uno
spazio con immagini di provincie, di regni, di isole, di navi (…). Poco prima
di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del
suo volto…” (Jorge Luis Borges).
Come è
noto, nella lettura o nell'ascolto di una narrazione è possibile che mettiamo
in atto una sorta di "drammatizzazione" nella nostra mente, che
avviene sia con il concorso della ragione riflessiva, che anche con la
compartecipazione delle nostre emozioni e sentimenti. Una drammatizzazione
"immaginale" dunque, compiuta cioè attraverso e tramite il nostro
immaginario, grazie alle nostre capacità di fantasticare, di raffigurarci ciò
di cui le parole ci parlano, più o meno bene, quasi per un condizionamento e
per aver attivato una forma riflessa di reazione dinnanzi alle
"informazioni" che ci raggiungono e che ci provocano o stimolano.
Con un
racconto, un romanzo, o altra forma di narrazione, ma -ripeto- anche dunque con
un semplice resoconto il più possibile "oggettivo" di viaggio in un
altro luogo e in mezzo ad un'altra popolazione (ammesso e non concesso che
possa esistere una descrizione così asettica e obiettiva da essere scevra da
ogni soggettività), si viene spesso indotti quasi naturalmente a sentirsi
implicati con il ruolo del protagonista della narrazione stessa e a partecipare
delle sue azioni e reazioni, o almeno a quelle di qualche personaggio in scena,
ovvero nella trama discorsiva (si pensi ad es. ai brevi e puliti
reportages di Sandro Veronesi, o invece d'altro canto ad uno sdolcinato
romanzetto d'appendice di Elizabeth Gilbert).
Ma non
vi è solo questo, come scrive Enrico Testa: “ ricca e fruttuosa è apparsa
l’idea che il personaggio, al di fuori di ogni effetto-specchio, sia piuttosto,
insieme, il luogo di un commento e di una interpretazione della vita reale che
si realizza producendo una vita possibile: con i tasselli del concreto insomma
un mosaico della finzione, in cui a prevalere è l’intentio cognitiva su quella imitativa” ( p.4).
§.5 -
vivere una storia
La
stessa cosa avviene sia con una comunicazione esclusivamente orale, che con una
scritta e letta, quindi sia solamente ascoltando, che solamente leggendo a
mente. Ma ovviamente avviene anche in misura maggiore con una comunicazione
intrecciata tra modalità linguistiche e figurative di trasmissione di
informazioni e contenuti, e nel contempo accompagnata da immagini, simboli,
figure, forme, colori, suoni, musiche ritmi, ecc. come accade ad esempio con la
rappresentazione teatrale (recitata, cantata, danzata, o mimata) oppure filmica
di una narrazione. Eraclito lasciò scritto: ”tutte le cose cui si rivolgono la
visione, l’udito, l’apprendimento diretto, sono quelle che apprezzo di più”.
Un
antico adagio, che esprime una elementare riflessione pedagogica (troppo spesso
trascurata), era: "se solo sento, dimentico; se anche vedo, ricordo; se
faccio, imparo".
Pier
Paolo Pasolini per rendere conto delle sue più profonde impressioni del suo
viaggio in India, cercò di comunicare per iscritto cosa fosse “l’odore
dell’India”. Noi, in quanto fruitori, dunque attiviamo -come è ben noto- forme
di implicazione (per empatia, o per simpatia o avversione) con la situazione e
con alcuni di coloro che in essa agiscono, che ci consentono di fare di tale
ricezione una vera e propria esperienza totale, che entra a far parte del
nostro stesso vissuto esperienziale. Molto dipende in quel caso da come la
parola scritta viene letta e dunque da come il suo messaggio viene veicolato
nella comunicazione orale. Scriveva Florenskij forse stimolato dal vecchio
Gorgia: “La parola è molto più ricca di quanto lo sia di per sé stessa. Ogni
parola è una sinfonia di suoni, reca potenti depositi storici, e racchiude un
intero mondo di concetti.” E più avanti: “il vero significato della parola si
ha pronunciandola”.
Anche
in assenza di un contesto collettivo di "contagio" emotivo, come
accade nel observer-expectancy-effect (o in situazioni in cui si
attivino i nostri neuroni-specchio), dunque –a dispetto di quanto appena detto
prima- persino ad es. in una fruizione silenziosa e del tutto solitaria, si
innesca una modalità, sempre variabile e molto personale, di compartecipazione (forse
parziale o incompleta, o magari trattenuta e contenuta dal soggetto, ma
comunque appunto fortemente individuale), che enfatizza e valorizza proprio la
soggettività dell'esperire un testo, anche se si tratta dunque di una
comunicazione a distanza di spazio e/o di tempo, di una situazione di vita che
non sta affatto accadendo a noi in quel momento.
Insomma
non vi è quasi mai una ricezione del tutto passiva di dati oggettivi, ma
piuttosto la lettura o la visione si fa intrecciata di emozioni e moti d'animo,
o di riflessioni, o associazioni di idee, in quanto essa mette in moto pensieri
e sentimenti, in una dinamica intessuta di vitalità, di reazioni, e anche di
contraddizioni e/o antinomie (che, come dicevo più sopra, potrebbero infine
anche restare inspiegate, non-sciolte) che mette in mostra e rende il quadro di
quel magmatico insieme di stimoli che è per noi "la realtà" (la quale
è sempre un complesso di fattori sia fuori che dentro di noi). “Ogni
mente –scrisse Simone Weil- chiusa nel mero linguaggio, è capace solo di
opinioni. Ogni mente capace di cogliere pensieri, anche inesprimibili, è già
nella verità”. E questo, ripeto,
potrebbe accadere al limite anche con un asettico report cosiddetto
"obiettivo", ma che, se riguarda contesti inusuali (come accade di
solito durante un viaggio fuori dal nostro piccolo o grande
"ecosistema"), e se ci stimola l’immaginazione, non può non suscitare
in noi una qualche forma di moto interiore.
Da
quel detto più sopra citato, ne deriva anche che si apprende maggiormente
partecipando, il che viene suggerito soprattutto per quanto riguarda il fare,
l'esperire, ma se ciò non fosse praticabile, tuttavia se anche solo leggiamo, o
ascoltiamo, o vediamo qualcosa che ci risulta intrigante, diventiamo comunque
più partecipi ai contenuti del testo, ci lasciamo coinvolgere mentalmente ed
emotivamente nella misura in cui si attiva l'immaginazione per associazione.
Quindi
più spesso accade che una narrazione ci coinvolga maggiormente che non un
saggio. Se, come dicevano i latini, è consigliabile ludendo docere, cioè
insegnare "divertendo", è valido anche l'altro lato della medaglia, serio
ludere, cioè cercare di divertire anche attraverso cose serie.
Questi
sono in poche parole i principali termini e i livelli in cui la funzione
pedagogica che può svolgere anche un testo di un diario di viaggio (o di una
qualsiasi descrizione discorsiva di un qualsiasi ambiente estraneo con cui si è
entrati in contatto), con le varie implicazioni che può avere sul piano
formativo ed "educativo" e che ne possono conseguire, o che si
possono intravedere.
§.6 -
Da una piccola scintilla mentale, stimolata da uno spunto (scritto o figurativo
o sonoro), può nascere un canovaccio-copione di una narrazione.
In
quel fatale momento nel quale la nostra inventiva si focalizza su un punto, una
intersezione, un rudimentale complesso tematico, e si configura nella nostra
mente una situazione immaginata, fittizia e finzionale, fictional, si
incomincia ad elaborare -magari procedendo per associazione di idee o per
grazia della cosiddetta serendipity - una serie di antecedenti, di
casuali sincronicità, di implicazioni che divengono motori causali di
successivi eventi e sviluppi di quella situazione fittizia ma emblematica.
Questo conglomerato si tramuta gradualmente in una ipotesi plausibile di una
narrazione, con i suoi abitanti, dotati di loro caratterizzazioni individuali.
Quando tutto ciò si interseca con azioni e reazioni di ordine psicologico o
sociologico, o d'altro tipo, e si contestualizza in una dimensione tratta da
una realtà effettiva o finzionale, nasce un plot, o una sequenza che
viene raccontata, e si sviluppa in un intreccio, una trama, un canovaccio, e
viene posta su un supporto cartaceo o direttamente su un palcoscenico, o su un
video.
Ciò
riguarda qualsiasi narrazione (pure quella di un resoconto di viaggio), che poi
sottostà alle regole dettate dalla pratica della scrittura in una cultura
alfabeta, pratica che ha le sue esigenze e le sue modalità discorsive
articolate per generi letterari, o comunque generi espressivi, organizzati
secondo codici più o meno formalizzati, che portano con sé particolari
andamenti comunicativi, e suoi ritmi, cadenze, sequenze, successioni, e che a
volte inducono a rispettare veri e propri rituali sociali ad essi connessi.
Ad
esempio, scrive G.Robbiano, "la triade di avvio-sviluppo-finale, che il regista
serbo-bosniaco Emir Kusturica ha chiamato «la gabbia aristotelica» [e
che a mio avviso però potrebbe anche essere evitata in un diario di viaggio],
fa sì che in tal modo si crei una certa "circolarità", che
"restaura" una unità, riportando un ordine non solo narrativo ma
anche emozionale e perfino sociale. Indica una forma canonica, riconosciuta e
riconoscibile, ossia appunto un rito da rispettare" (G. Robbiano, "Il
nulla tangibile. Rituali di formazione e simbologia nella sceneggiatura",
in: Il viaggio dell'eroe, cinema e riti di passaggio, a cura di Alberto
Fassina).
Una
sequenza di sviluppo simile a quella sopra abbozzata della ideazione creativa,
va similmente offerta al gruppo di auditori, o lettori, o fruitori (ad es. del
nostro "diario di viaggio"), rispettando la gradualità della
ricezione e della assimilazione dei componenti che permetteranno una
comprensione dei contenuti della narrazione in questione. Un bombardamento di
troppi input, di troppi elementi di informazione da assimilare e ordinare e
matabolizzare, non può che disorientare e forse allontanare, con un
atteggiamento di rifiuto aprioristico, dalla curiosità verso il tema proposto,
che sola induce alla disponibilità all'ascolto e alla partecipazione. Mentre
altra cosa è una "esposizione densa", thick description (cfr.
Ryle e Geertz) che dando i primi lineamenti di un quadro sociale, può accennare
contestualmente anche alla varietà e complessità dei livelli di problematicità
e di interpretazioni in essi implicita. Certo che la difficoltà consiste nel
fatto che un percorso di apprendimento deve iniziare da cose semplici, e una
buona pratica d’insegnamento tende a cercare di semplificare per esigenze di
chiarezza, mentre al contrario un approccio ermeneutico vuole presentare una
cultura "altra" nella sua dimensione di articolazione e
stratificazione, nella sua complessità e problematicità dunque, poiché è questa
la prima e principale caratteristica di ogni cultura umana. Un diario di
viaggio può anche essere visto come un percorso che procede per gradi
nell'andare in profondità all'interno di un mondo estraneo, per riuscire infine
a comprenderne almeno certi elementi costitutivi di base. Trovare il giusto
grado di compromesso e equilibrio tra questi due lati della bilancia non è
sempre agevole. Un approccio narrativo è forse in certi casi il miglior modo
per evitare definizioni azzardate e categorizzazioni premature, ma rendere
l'insieme con i suoi variegati colori e tutte le sue sfumature, che possono
trovare spazio e forma anche in poche frasi o elementi discorsivi.
Proporrei
come esempio ottimamente riuscito di esposizione narrativa ma densa, l’opera
del ferrarese Quilici.
Folco
Quilici ha svolto ricerche, documentari, interviste in Oceania in vari viaggi
compiuti nel Pacifico, negli anni 1956,'61,'64, e 1970. Il suo libro "Oceano",
oltre a contenere suoi brillanti reportages di viaggio, e
interessantissime osservazioni sui cambiamenti avvenuti in una quindicina
d'anni nella società tradizionale polinesiana, è scritto in modo narrativo, e include
anche una «Odissea Polinesiana», relativa a una storia epica veramente
accaduta, raccontata molto bene da Quilici, da cui poi derivò anche un film
svolto in modo semi-documentaristico, con commento parlato molto scorrevole,
facile da seguire, e decisamente appassionante.
Nel marzo 2003 la nostra Facoltà di
Lettere&Filosofia di Ferrara (preside il geografo C.A.Campi) gli conferì la
laurea honoris causa proprio da parte di quel Corso di Laurea in
Operatore del Turismo Culturale (O.T.C.), che era stato realizzato partendo da
una sua idea-proposta. Quilici voleva che si parlasse ai giovani di un modo di
viaggiare culturalmente impegnato, e che si preparassero operatori qualificati
nel settore, voleva dunque anche che diari, reportages, narrativa, immagini,
foto, filmati documentaristici, film avvincenti, potessero svolgere una
comunicazione pedagogica fruttuosa.
Ad esempio anche le narrazioni densissime di
riflessioni, di Gabriella Rossetti, in "Terra incognita", che
in certa misura sono un resoconto, scritto nell’out of Africa, in forma
discorsiva (di thick description) di esperienze e ricerche da lei svolte
nell'arco di molti anni di viaggi in vari campi di lavoro nell'ambito di
progetti di cooperazione in Tanzania, rappresentano proprio, a mio avviso, un
altro esempio che si può considerare di "pedagogia narrativa".
§.7 - Riflessioni sui contenuti della comunicazione
Inoltre
Clifford Geertz ci propone di prestare attenzione a quelli che sono a suo
parere concetti experience-near, "vicini all'esperienza" e
altri che sono invece experience-distant, "lontani
dall'esperienza". I primi sono in sostanza anche quelli che più sopra
chiamavo i concetti ritenuti ovvi, scontati, normali, naturali, eccetera,
mentre i secondi sono quelli per cui non disponiamo di un supporto dato dal
vissuto. I primi dunque fanno in fondo parte di un linguaggio pubblico, di quel
che Basil Bernstein chiamava un “codice ristretto" cioè comprensibile tra
chi è compartecipe di una cerchia definita (di tipo ad es. professionale, o
religioso, o culturale, o specifico di una regione, di una vallata, ecc.), per
cui ci si intende anche con pochi vocaboli o persino cenni, dato che molto
resta implicito, o non-detto, mentre i secondi sono quelli che per lui
richiedevano un linguaggio formale, o “codice elaborato", più
esteso, allargato, perché contempla ampie possibilità alternative, in cui
però tutto deve venir detto ed esplicitato, senza dare alcunché per scontato, e
la prevedibilità è bassa, ma ciò che è espresso è più differenziato personalmente.
Nel secondo caso è forse più complicato comunicare, il linguaggio usato è forse
a volte ridondante, ma può divenire alla fine più facile comprendersi anche tra
appartenenti a gruppi differenti; nel primo caso si può essere più laconici
perché c'è più intesa tra i membri del circolo chiuso, essendoci meno
alternative possibili, e inoltre la prevedibilità è alta, ma è difficile farsi
capire da chi ne è al di fuori, dagli esterni o estranei, cioè da tutti gli Altri.
Perciò
nella comunicazione a fini didattici si dovranno introdurre termini del lessico
specifico alla disciplina solo gradualmente, e possibilmente solo quando
necessario (e accompagnandolo con una spiegazione), badando a non infarcire
eccessivamente il discorso con un codice per iniziati (anche se procedendo si
dovranno senz'altro introdurre strada facendo terminologie più specifiche).
Solo
con la compartecipazione, come sosteneva Bronislaw Malinowski (cfr. Giornale
di un antropologo), si può giungere a condividere esperienze e vissuti con
le popolazioni che ci interessano, e quindi giungere ad accettarsi
reciprocamente sforzandosi di adattarsi all'altro per essere sicuri di essere
capiti.
Proprio
perciò è in un certo senso più basilare riflettere sulle vie pratiche di
apprendimento che non prioritariamente [se non a volte esclusivamente!] sulle
metodologie d’insegnamento, come è spesso accaduto nella storia della pedagogia
e della didattica.
Ciò è
importante per una circolarità di comunicazione tra docenti, o
conduttori-accompagnatori, e discenti impegnati in un percorso di apprendimento
(ovvero studenti).
Un
linguaggio di tipo narrativo a volte è certo più facilitante in certi casi, che
non un saggio sintetico con eccessive schematizzazioni e classificazioni, che
sono spesso semplificazioni definitorie (cioè che hanno valore risolutivo) che
non rendono nemmeno giustizia alla realtà vivente dei linguaggi, delle
relazioni sociali, dei processi indentitari, delle culture, eccetera, realtà
che è complessa, cioè magmatica, malleabile, mutevole …
Un
testo narrativo contempla anche sospensioni dei temi e delle situazioni, crea
curiosità e attese, poi ci porta per mano a entrare sempre più addentro nel
contesto specifico, differisce la mèta e giunge gradualmente a farci capire
quel che si propone di dirci. E' un buon modo (se si è capaci di narrare bene)
per suscitare il desiderio di proseguire nel percorso, a chi si è riusciti ad
implicare e intrigare.
Già
cercare di capire è un impegno che da soddisfazione, e infine arrivare a capire
è qualcosa che ci procura piacere.
Un
"diario di viaggio" dovrebbe essere il resoconto di uno sguardo
disincantato e "ingenuo" (cioè "puro" e aperto) su una
realtà non conosciuta, in cui la curiosità e la casualità ci portano ad
esperire, a fare esperienze di un contesto, e, venendo sempre più accettati e
introdotti nelle relazioni interpersonali, giungiamo ad avvicinarci ad
una migliore comprensione della diversità. In questo caso il viaggiare può
essere metafora del percorso di conoscenza e comprensione, e quindi della vita
stessa.
§.8 -
iniziazione a un percorso ermeneutico
L'Odissea
è generalmente considerata per la nostra cultura occidentale l'archetipo del
resoconto di un viaggio, un viaggio travagliato e lungo, denso di patimenti,
quale è quello del ritorno di Ulisse alla sua isola, opera letteraria che è a
lungo stata, e ancora può essere, fonte di grandi insegnamenti, che ci può
mostrare esemplarità significative, e che può essere letta in chiave metaforica
come un viaggio di conoscenza del mondo e “dell'umano sentire”.
Diceva
Seneca (ma in tutt'altro contesto) che "non esiste un vento favorevole per
quel marinaio che non sa verso dove navigare" (Lettera 71 a Lucilio), ma
potremmo aggiungere che in qualunque modo lo diventa quel vento che ci porti
verso ciò che ci pare più stimolante e interessante per soddisfare le nostre
curiosità, la nostra umana volontà di sapere (Aristotele), e i nostri
interrogativi, cioè il nostro desiderio di capire (Socrate). E poi comunque
bisogna pur percorrerla una qualche strada, come canta Jason Mraz in una sua
canzone: “it takes a road to go nowhere”, ci vuole una strada per andare
non-si-sa-dove …
Come
tutti noi sappiamo, quando ci si cala integralmente in una lettura (ovvero come
si usa dire, quando "ci si sprofonda" in una lettura), si entra in un
rapporto dialogico e si compartecipa empaticamente con l'autore o con il
protagonista, o con un altro agente, immaginandosi a modo proprio l'ambiente e
le vicende descritte, o alle quali si fa anche solo allusione, per cui in quel
caso ci stacchiamo dalla realtà quotidiana che ci circonda (nell' hic et
nunc attuale e di fatto) e ci trasferiamo su un altro piano di realtà, in
una dimensione che tocchiamo con la sola mente, con l'immaginazione, e cui
aggiungiamo quel che la nostra specifica capacità di fantasticare e il nostro
complesso psichico interiore ci suggeriscono per la cogenza di
associazioni. In una sua poesia, in cui fa allusione all’opera letteraria,
Emily Dickinson scriveva: “Per fare un prato ci vogliono un trifoglio e un
ape./ Un trifoglio e un ape,/ … e immaginazione./ L’immaginazione da sola
basterà/ se le api son poche./”…
Tenendo
ben presente questo stato d'animo che a volte si viene a determinare,
l'insegnante o l'educatore saprà dunque cogliere facilmente spunti di aggancio
nella comunicazione personale del testo di riferimento del presente libro (che
in certi casi a mio parere andrebbe proprio reinterpretato liberamente da chi
si fa tramite di trasmissione) per offrirne una esposizione parlata in un
linguaggio discorsivo, o colloquiale, oppure secondo una modulazione romanzata,
oppure anche favolistica, ecc. a seconda dei casi e delle circostanze, che
insomma possa affascinare, facendo risuonare come si dice certe corde, e
conquistare l'uditorio.
Questa
modalità comunicativa giocata almeno inizialmente incentrandosi su una
comunione di tipo emozionale, a mio parare può essere valida anche con un brano
di testo che contenga in sé rimandi, allusioni, a questioni e problematiche
particolari. Ne è buon esempio tra l'altro ciò che emerge dagli studi sulla
cosiddetta "filosofia dei bambini". Tali motivi di apparenti o
momentanee impasses (rinvii a questioni e problematiche che possono
necessitare l'apertura di parentesi) però andranno poi affrontate (e
eventualmente sciolte) più che altro in seguito, o a latere, con un
approccio specifico (siano esse di carattere storico, o geografico, o economico,
o sociologico, o antropologico, o spirituale, eccetera), impegnandovisi a
fornire anche le nozioni di base necessarie (cioè aprendo virtualmente delle
"finestre" di approfondimento), e comunicando nel contempo il
sentimento della problematicità e della complessità in esse insite.
Un
testo, come lo concepisce il linguista danese L. Hjelmslev, è un qualsiasi
processo comunicativo produttore di senso, ed è estensibile a qualunque forma
di espressione (quindi non solo scritta o parlata, ma anche visiva, gestuale,
musicale, filmica, o "sincretica").
Secondo
i princìpi dello studioso di semiotica generativa, il lituano A.J. Greimas
(teorico in particolare dello studio semiotico della "narratività"),
un racconto, o anche ad es. il cinema considerato come racconto per immagini,
si basa su un continuum di equilibrio-squilibrio-riequilibrio.
Pertanto
prendendo le mosse da questi riferimenti di base, sarà il tipo di lettura (nel
nostro caso dei racconti, del diario di viaggio e delle immagini correlate) che
ne fa la guida e conduttore (ovvero l'educatore o l'esercitatore) ad ampliare
il testo stesso, con la sua azione discorsiva orale (recitazione, scelta della
modulazione comunicativa -favolistica, o romanzata, o per successione di
sketches e quadri, ecc.- tono di voce, ritmi, linguaggio corporeo e facciale),
con l'interpretazione, gli ampliamenti, i commenti, i riferimenti, i rinvii
ipertestuali (le "finestre"), eccetera, che andranno a costituire (o
costruire) il "testo" inteso in senso ampio e come processo, in particolare
processo che dota di senso.
Quindi
le schede in Appendice non vanno assolutamente viste e utilizzate come mere indicazioni
di metodologia didattica da applicare, ma come suggerimenti, o meglio
suggestioni, per intervenire sullo scritto e per produrre in piena (per quanto
possibile) autonomia creativa un processo di costruzione testuale, facendosi
solo in parte canale (cioè interpretando la parte del protagonista-autore dello
scritto), che il conduttore-educatore filtra con tutto il peso della propria
personalità e delle proprie capacità e convinzioni, ma facendosi anche attore
(o agente) che per certi versi recita "a soggetto", e quindi
scegliendo cosa e come utilizzare i testi, cioè lo
"scritto-e-le-immagini" (ed eventuali connessi suoni e sonorità) come
un canovaccio, e facendosi dunque regista, quindi in definitiva diventando un
vero e proprio coautore. E questo anche per il fatto che ogni
educatore-attore-conduttore conosce il suo pubblico e può anche modulare le
proprie comunicazioni in modo adattato al gruppo, e eventualmente anche
individualizzato.
Perciò
si tenga presente che di fatto si potrà verificare un andamento nella
interazione col gruppo di apprendimento, con un iniziale equilibrio (secondo
quanto ideato e programmato), cui potrà seguire uno squilibrio, da riaggiustare
trovando una nuova formula riequilibrante. Momenti critici nella relazione
comunicativa docente-studenti-docente, andranno affrontati come occasioni
positive di conoscenza delle singole persone con cui si ha a che fare, e delle
dinamiche di gruppo che si genereranno, e quindi di calibratura e
riaggiustamento complessivi.
Nella
"spinta" insita in ogni narrazione c'è un divenire, una dinamica
evolutiva, che produce una metamorfosi del complesso
testualità-discorsività-ricettività.
Si
possono cogliere spunti per produrre interventi e commenti, possibilmente come
esplicitazioni e esternazioni (anche da parte del conduttore) di soggettività,
(nel senso della Erlebnis di Husserl
come esperienze interiori, della mente), di esperienze collegabili in qualche
modo alle tematiche sopraccennate e alle situazioni che si determinano di volta
in volta, stimolando possibilmente procedure di drammatizzazione del tutto,
inteso nel suo insieme come text-in-progress. La fase più difficile è sempre
quella iniziale, di apertura. Man mano che si procederà in profondità sarà più
facile dare una direzione e un filo conduttore. Non c'è da temere di spingersi
dunque al di là di una semplice lettura-commento, e portare al limite lo
scambio delle proprie esperienze e delle proprie libere associazioni di idee.
In
caso si preferiscano modalità meno dinamiche e di altro tipo, può essere
eventualmente tentato anche un percorso che stimoli e valorizzi le capacità
immaginative individuali tramite sedute di visualizzazione guidata, cui
accennerò fra poco.
In
ogni caso si può iniziare, già dopo un paio di incontri, proponendo un breve
svolgimento scritto in cui tentare una narrazione su un tema proposto dal
conduttore e discusso collettivamente, attinente ad un proprio viaggio
(materiale o metaforico), e in cui mettersi in gioco. E proseguire con la
modalità sopra accennata di lettura (a turno), commento e dibattito, e
rilettura e analisi del testo o dello scritto personale; per poi compiere i
relativi approfondimenti e rimandi a problematiche che ciascuno può voler
approfondire per poi riferirne nel gruppo. Dopo la lettura di alcuni
componimenti, si tornerà al testo narrativo di riferimento. Altre richieste di
componimenti personali potranno venire anche in seguito. Ma su questo poi
ritornerò nelle schede con le suggestioni di utilizzo a fini didattici del
diario e dei racconti presenti nel libro, o delle immagini, o degli eventuali scritti
compilati dai partecipanti.
Comunque
in definitiva chi compie le scelte e dà l’impronta all’intero andamento è il
conduttore, l’educatore inteso come un vero e proprio Kulturgestalter (configuratore di cultura), per utilizzare un
termine di Spranger (1959), poiché “sotto le sue mani tutto si può trasformare
in «oro pedagogico» (…) dato che i beni di cultura lo interessano soprattutto
perché e fino a tanto che possono acquistare valore ai fini del processo
educativo” (p.34). “In educazione ‘tutto‘ si pone sotto la prospettiva
dell’intenzionalità pedagogica”, ma il compito non è certo semplice, e quindi
si pone la questione base (o, come la chiama Spranger, il “problema-leva”) di “come
esercitare un’influenza formatrice sugli animi”… “Come posso penetrare
nell’intimità dei sentimenti e dei pensieri?” (p.30). Dunque “ufficio peculiare
dell’educatore di vocazione, è quello di scoprire i valori educativi celati nei
beni di cultura, esaminarli in rapporto ad una mèta educativa, e sfruttarli
come concreti mezzi educativi” (p. 35), poiché “l’educatore considera il
giovane essenzialmente sotto la prospettiva della sua educabilità” (p.30). Sono
spunti di indubbio interesse su cui riflettere.
§.9
- il viaggiatore e il suo viaggio come
un percorso di ricerca
Stavo
ora pensando alle riflessioni di Joseph Campbell quando diceva di essere
rimasto colpito da un saggio di J.W.Perry sulla schizofrenia (1962), in cui
leggeva che quella "era la condizione di chi ha perso il contatto con il modo
di vivere e di pensare della sua comunità e, ormai completamente isolato, si
crea un mondo tutto suo, di visioni e di fantasie. Lo schema prevede dapprima
un distacco dal contesto sociale, seguìto da un lungo e profondo ripiegamento
verso l'interno, negli strati profondi della sua psiche. Qui si scatena una
serie caotica di incontri ed esperienze che, se si è fortunati, riescono però
ad avere una funzione in un certo senso appagante e infondono nuovo coraggio.
In tali casi segue poi un viaggio di rinascita e ritorno. Ma questa -scriveva ancora
Campbell- era anche la formula del viaggio dell'eroe mitologico che nel mio
libro (L'eroe dai mille volti) avevo distinto nelle tre fasi:
separazione (departure), iniziazione, e ritorno. L'eroe si avventura
fuori dall'abituale quotidiano in una regione di meraviglie, dove si imbatte in
forze straordinarie. Egli poi ritorna da questa avventura con la possibilità di
elargire benefici ai suoi simili" (da un articolo del 1970 inserito poi
in: Mito e modernità).
Molti poi
sono ritornati sulla proposta di Campbell, come ad esempio Christofer Vogler,
in The Writer's Journey: Mythic Structure for Writers (trad.it. "Il
viaggio dell' Eroe"), rivolto a scrittori di sceneggiature
cinematografiche.
Un
diario di viaggio in effetti racconta in sostanza la storia di un soggetto che
per vari motivi lascia il proprio mondo per partire verso società e culture
lontane, dove incontra realtà sconosciute e inaspettate, ed è spinto a
rielaborare i propri parametri, e che infine ritorna a raccontare queste
esperienze per arricchire interiormente anche gli altri. In sostanza ci trovo
una rivisitazione del concetto orientale di Bodhisattva, e anche dell'allegoria
della caverna raccontata da Platone, e una rilettura degli scritti di E.Neumann,
sulla lotta dell'Io eroico per svincolarsi dalle potenze dell'inconscio.
Le "fasi" o "tappe" della Grande Avventura
dell'eroe, precisate da Campbell sono una dozzina, ma si potrebbero
sintetizzare così:
Departure (separazione):
1. L'eroe ovvero il protagonista sente dentro di sé un
richiamo, avverte una pulsione che lo spinge a mettersi in movimento, ad agire,
a partire per andare verso un obiettivo
2. L'eroe risponde alla chiamata, e supera la soglia che
lo introduce, che lo farà passare, verso l'avventura della ricerca, e della
vita, e si incammina lungo un percorso
Initiation:
3. Durante il viaggio il protagonista incontra un
personaggio particolare, che gli farà da custode, da guardiano, da aiutante, o
da compagno di viaggio, e sceglie di affiancarsi a lui/lei, poiché avverte che
gli ha portato un messaggio prezioso, un consiglio importante, o che potrebbe
fargli da guida, da méntore; incontro che non sarebbe mai accaduto se non
avesse oltrepassato la soglia
4. Nel suo percorso avventuroso, il protagonista si
imbatte in ostacoli, e prove da superare, e incontra e conosce delle forze che,
a seconda di come le saprà accogliere e gestire, gli saranno alleate o di
intralcio, esse non sono di per sé buone o cattive, e spesso sono
simbolicamente incarnate da personaggi (detti i guardiani della soglia) che
possono farsi suoi antagonisti o meno (ad es. la figura dell'imbroglione, o
dell'ambiguo, o del burlone), oppure in situazioni, o oggetti, che gli
permettono, direttamente o indirettamente, di comprendere meglio le tappe del
percorso
Return:
5. L'eroe raggiunge il suo obiettivo, che durante il
percorso può essersi modificato.
6. L'eroe decide di ritornare indietro a condividere ciò
che ha acquisito.
Si tratta di metafore di un viaggio di maturazione e di crescita,
di un viaggio interiore, in definitiva del viaggio della vita, e dunque lo
schema va considerato sotto il profilo simbolico.
In
molti casi un viaggio materiale (e poi la scrittura di un racconto e la sua
condivisione) si intraprende per avviare in realtà un percorso di ricerca
personale (si pensi ad es. a Hermann Hesse, o a Jung, o Thomas Merton, o Ernest
Hemingway, J. Conrad, Bruce Chatwin, Lanza del Vasto, Piero Scanziani,
P.P.Pasolini con i suoi scritti e i suoi film, ad Alberto Moravia nei suoi
reportages sulla terza pagina del "Corriere della sera", Giorgio
Manganelli su "Il Mondo", Italo Calvino, Giuseppe Cederna, a Folco
Quilici, con la sua Polinesia, e a tantissimi altri autori di racconti, diari,
articoli). A questo proposito ad es. Pier Paolo Pasolini scrive nel 1961 come
titoli dei paragrafi del suo primo
reportage di un viaggio in India: "Penoso stato di eccitazione all'arrivo.
La Porta dell'India. Spaccato, naturalmente fantasmagorico, di
Bombay", in cui è evidente che sta parlando innanzitutto di sé, della
percezione dei suoi stati d'animo. Lanza del Vasto intitola il suo primo
capitolo del racconto di viaggio (cit. in biblio.): "Lo stupore del nuovo
venuto".
Oltre
a ciò, consideriamo anche che in una certa misura, almeno fino a pochi decenni
fa, ad es. un viaggio nei lontani tropici era davvero una eroica avventura,
come quella delle Grandi Madri dell'antropologia, Ruth Benedict, che visse tra
gli indios pueblos, e poi andò in Nuova Guinea, o Margaret Mead… entrambe
partirono verso l'ignoto con i mezzi assai precari disponibili allora. La
minuta ragazza Mead lasciò il porto di San Francisco a 23 anni da sola, per
andare su una nave-cargo nientemeno che fino alle lontane isole Samoa, per
conoscere di persona le adolescenti di laggiù… e compiere quella field
research di cui parlava il suo professore e maestro Franz Boas.
Si
trattava di imprese degne dell'Ulisse dantesco!, partivano davvero solo
"per seguir virtute e canoscenza", convinti di quell' appello:
"di nostri sensi ch'è del rimanente/ non vogliate negar
l'esperienza". . .
Anche
questo è dunque un aspetto che ha molto a che fare con i processi di formazione
e in particolare di autoformazione, e con le problematiche della pedagogia. Un
diario di viaggio dunque potrebbe venir letto anche sotto questa prospettiva,
e/o fornire spunti e occasioni per trattare queste tematiche. In certi casi è
davvero il racconto di un Eroe, di un bisnipotino di Erodoto, il greco che
intraprese lunghi e assai difficili percorsi nei lontani paesi barbari, di cui
poi tornò a riferire alla gente della sua polis per dar loro materia alla paideia,
cioè alla cura e coltivazione della loro Humanitas (come traducevano i
latini).
Certo
ogni viaggio comporta una partenza, quindi il coraggio del distacco, della
separazione se non proprio di una rottura, con il proprio mondo. Generalmente
si parte con un progetto in mente, quindi una direzione, e forse un obiettivo.
Molte volte si prova il bisogno, oltre che il desiderio, di interrompere una
quotidianità, pur considerando di ritornare prima o poi. Scriveva Chatwin in
uno scritto autobiografico sulla sua formazione come scrittore: sin da ragazzo
"ho sempre desiderato andare in Patagonia". E' un atto
fondamentalmente di libertà, e di liberazione, la libertà di decidere, e di
provare qualche cosa di altro, e la liberazione, anche se temporanea, da ciò
che ci trattiene, dai timori, forse da qualche tabù, dalla routine, dal
rinchiudersi in un bozzolo protettivo e rassicurante che però si percepisce
comò monotono o monocorde. Dunque è in gran parte un atto che apre alla
sperimentazione, e alla ricerca, è una rottura rispetto alla standardizzazione
imperante nella nostra società, una rottura con ruoli e maschere sociali che
nella dimensione del viaggio e nel contesto dell'alterità potremo smettere di
indossare, e anche un lasciarsi alle spalle certe convenzioni, usi, usanze,
costumi, gerarchie, linguaggi … Con questo primo atto iniziale di indipendenza
si liberano dentro di noi forze e dinamiche inaspettate, e sicuramente ci
potranno essere occasioni in cui metterci alla prova.
Siamo
disponibili al nuovo, che forse sarà contemporaneamente nuovo per noi ma
tradizionale per gli "altri" oggetto dei nostri sguardi curiosi e
meravigliati…
Ma
subito si apre una fase che si può vedere come di iniziazione alla nuova realtà
entrando nella quale ci portiamo sulle spalle tutte le nostre aspettative,
consapevoli o meno, motivazioni, obiettivi, mentalità, abitudini …. e la prima
prova sarà quella in cui potremo osservarci nelle nostre reazioni irriflesse.
Una grande aspettativa entrando in un contesto che è di altri, è
di ritrovarvi ancora valido e rispettato l'antico costume dell'ospitalità,
della buona accoglienza, perché diamo per scontato di meritarcelo. La gran
parte dei viaggiatori non vorrebbe essere percepita come un corpo estraneo, ma
vorrebbe poter compiere le sue curiose osservazioni non notato e forse
accettato, vorrebbe potersi muovere a proprio agio. Vorrebbe potersi
mimetizzare, e quindi socializzare, accorciando le distanze. Il buon
viaggiatore accetta la diversità, è determinato a mostrare rispetto e
discrezione, e si aspetta di riceverne in cambio altrettanto.
Porto un altro esempio un po' estremo ma piuttosto noto, di
interpretazione e utilizzo della virtù catartica di un viaggio verso la propria
e altrui trasformazione, sul filone della concezione di Campbell. La scrittrice
e analista Carol S. Pearson, è divenuta famosa con il suo libro "Awakening
the Heroes Within" (1991). Traendo spunti dalla letteratura,
dall'antropologia culturale, dalla psicologia dello sviluppo, e dalle
concezioni junghiane, l'autrice giunge ad individuare alcuni principali
archetipi di configurazioni interiori che accompagnano il viaggio della nostra
vita, e ci mostra come ciascuno di noi potrebbe fare ricorso alle potenzialità
di essi servendosene come guide per scoprire le nostre doti nascoste, avviare a
soluzione difficoltà e problemi, e trasformare le nostre vite con la ricchezza
della fonte delle nostre stesse forze interiori. Le principali configurazioni
simboliche sono la resilienza dell'archetipo dell'Orfano, l'indipendenza del
Cercatore, il coraggio del Combattente, la compassione dell'Altruista, la fede
dell'Innocente, e la capacità nascoste simboleggiate dalla figura del
Mago.
Il che richiama anche le ricerche di Castoriadis, di Baczko, o
di Taylor sulle configurazioni degli immaginari sociali. Baczko scrive
nell'Enciclopedia Einaudi (vol.VII): "gli immaginari sociali sono altrettanti
contrassegni nel vasto sistema simbolico prodotto da ogni collettività, e
attraverso il quale essa [...] percepisce se stessa, si suddivide ed elabora le
proprie finalità".
Nel testo citato più sopra, in cui la Pearson ha più
approfonditamente cercato di prendere spunti contemporaneamente dalla teoria
degli archetipi psicologici, e da quella del test psicometrico di Myers &
Briggs, l'autrice è partita dalla convinzione che molte persone che avrebbero
bisogno di assistenza e accompagnamento nel loro percorso interiore, potrebbero
rientrare in una delle seguenti tipologie: coloro che sembra abbiano perduto il
bandolo della matassa della propria esistenza e si sentano sempre come forzate
nei rapporti personali e nel lavoro che svolgono; coloro che sembra non
imparino mai ad aprirsi uno spazio in mezzo agli altri, e a dar retta ai
segnali interiori che li potrebbero instradare; coloro che ritengono di sapere
già bene chi sono, e contemporaneamente non hanno un senso profondo del valore
della vita; coloro che si sentono come vuote, e ritengono che tutto sia privo
di senso e nulla valga la pena di essere esplorato. Rifacendosi all'analisi dei
personaggi di testi letterari, miti, favole, leggende, delinea dodici tipologie
riguardo agli obiettivi, ai timori, ai problemi, alle risposte, e alle virtù
personali che sembrano prevalere in ciascuno di questi "tipi". Le
figure simboliche menzionate più sopra potrebbero aiutarci e sostenerci come
nostre guide interiori. Proviamo a rintracciarle nei racconti di viaggio.
Si potrebbero concepire queste figure come paradigmi, o
metafore, o schemi mentali che influenzano il modo in cui sperimentiamo il
mondo. . . Sono immagini che popolano la nostra "foresta di simboli"
(cfr. V.Turner), configurano e dotano di senso una cultura, ovvero sono parte
integrante di quell' homo symbolicus di cui parlava Ernst Cassirer .
§. 10 - necessarie relativizzazioni
Per cui come possiamo constatare il tema del viaggio come
metafora dell'avventuroso percorso verso la nostra stessa autorealizzazione,
può fornire molte diverse suggestioni...
Ma sempre badando a distinguere il tema-concetto del
"Viaggio", e un particolare viaggio concreto, e poi il diario o
racconto di tale viaggio. Perché chi viaggia, poi racconta… Ricordiamoci quindi
che si tratta del soggettivo diario di cui quel viaggiatore è autore, quindi
l'insieme è a tutti gli effetti un "meta-testo" complesso che inizia
filtrando la realtà con lo sguardo e le riflessioni del viaggiatore (il quale
già è partito da casa carico di aspettative e forse anche di opinioni), che poi
passa tramite la sua narrazione, la sua capacità di resa espositiva e di
scrittura narrativa.
Valga questa citazione da Italo Calvino, quando il gran Khan
stanco di sentire Polo raccontargli delle varie città che ha conosciuto, gli
chiede di parlargli della sua, "e Polo: 'ogni volta che descrivo una città
in realtà Vi dico qualcosa di Venezia (…perché…) per distinguere le qualità
delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita, e per
me è Venezia…" (vedi Le città invisibili).
Si consideri a questo proposito anche la disanima del rapporto
tra la "disciplina" (in quel caso l'Antropologia culturale), con
tutto l'articolato bagaglio dei suoi "saperi" codificati, e il ruolo
dell'Autore-antropologo, o dell'antropologo in quanto poi autore, che si può
trovare nel libro di Geertz, Works and Lives, the Anthropologist as
Author, "Opere e vite".
E si consideri anche che spesso un viaggio non è sufficiente
per comprendere una dimensione estranea, e inoltre che non sono sempre degli
studiosi di sociologia o antropologia, gli autori dei diari e dei racconti di
viaggio… Inoltre la realtà della vita quotidiana delle popolazioni di lontani
paesi è costituita dalla loro cultura specifica che conferisce il significato
alle cose e ai gesti e alle relazioni, e dunque ciò che si può osservare è in
realtà filtrato attraverso costumi, usanze, maniere codificate di
rapportarsi, cortesie, cerimoniali, sensi del pudore, rispetto delle
gerarchie…. i cenni, le posture, le posizioni delle mani, dei piedi, il
significato di certi ornamenti, e poi i modi di dire, le frasi gergali, il
linguaggio "ristretto" e codificato, i motteggi, i motti di spirito,
le battute, i doppi sensi, gli scherzi, gli indovinelli, i proverbi…. citazioni
da canzoni o dal patrimonio orale, allusioni a parabole, miti, leggende, fiabe,
eccetera…
Cioè appunto da ciò che è costitutivo di una cultura e che è
oggetto di analisi da parte degli antropologi. Ma tutto ciò -o molto di ciò-
inevitabilmente al comune autore di un racconto o relazione di viaggio sfugge,
persino se il viaggiatore conosce la lingua, o/e ha avuto la buona sorte di
poter entrare nelle case, nelle famiglie, di partecipare alla vita e al lavoro
della comunità… E forse dunque solo uno studioso esperto di quella particolare
cultura può cogliere questi segnali…
Sono dei limiti, e ogni valutazione deve essere relativa e
commisurata a tali confini… ma comunque una narrazione relativa ad un viaggio
(non meramente turistico) può dirci, comunicarci moltissime cose.
§. 11
- la stimolazione dell'immaginario in funzione educativa
Alessandra
Papi (vedi il suo § sul viaggio, in: Cambi & Piscitelli) nella sua attività
didattica, tratta il tema della narrativa di viaggio, e ricorda che essa è
occasione per scritture e contenuti assai diversi tra loro. Ad esempio nel "viaggio
in Italia" di Goethe, egli sviluppa i temi della nostalgia e delle
aspettative, riflette sulla relatività dei significati . La sua descrizione, ad
es. della città di Roma, non è realistica, ma collegata al suo immaginario e
alle sue associazioni di idee. Roma diviene l' "Altrove" per
eccellenza. Esalta la creatività tramite associazioni, evocazioni, che gli
permettono di sovrapporre l'oggetto pensato, e parte delle sue aspettative a
ciò che viene osservato. Mentre ad es., in "morte a Venezia" (der
Tod in Venedig) di Th. Mann (1912), la storia che ci racconta è
immersa in una atmosfera tutta decadente della città lagunare, così cara agli
scrittori simbolisti.
Nel
viaggio verso l'India di Hermann Hesse (cfr. il suo diario Aus Indien,
"dalle Indie", 1913), prevale il volto contemplativo e metafisico
dell'India, che è quello che l'autore ha più cercato; e tra l'altro il
personaggio di Siddharta nel famoso romanzo (1922), si ferma dopo tanto
peregrinare e dice a Govinda: "quando qualcuno cerca troppo, accade
facilmente che il suo occhio perda la capacità di vedere ogni altra cosa fuori
di quella che cerca, e che ... sia posseduto dal suo scopo. Mentre trovare
significa essere libero, mantenersi aperto".
Hesse
ci dà così una prima valorizzazione di ciò che verrà in seguito denominato serendipity,
e che è oggi considerato una delle possibili vie impreviste ma proficue in cui
ci si imbatte in un viaggio come percorso di ricerca. (cfr. §.3 nel mio http://viaggiareperculture.blogspot.it/2011/07/diario-di-viaggio-nellindia-del-sud.html )
Mentre
Jung nel riferire del suo viaggio in India nel 1938, scrive: "A
quell'epoca avevo molto letto dell'India. Ma dovevo viaggiare con lo scopo di
giungere a mie conclusioni personali (…). L'India mi colpì come un sogno
(…)".
Varie
dunque possono essere le aree coinvolte da chi voglia commentare e trovare
agganci interdisciplinari: dalla religione, all'arte, dalla storia della
letteratura, alla storia dell'educazione … dalla economia alla psicologia, …
dalla geografia all'antropologia culturale, dalla sociologia alla linguistica,
o dalla filosofia alla pedagogia, eccetera
La
narrativa di viaggio è multiforme e ricchissima di spunti, occasioni, pretesti,
rimandi. Anche se forse apparentemente ci parla di vari luoghi geografici, in
generale si può dire che l'autore ci parla principalmente di sé e dell'incontro
con l' "Altro".
Questo
cosiddetto "Altro" è in sostanza un complesso, o conglomerato,
costituito da un contesto insieme naturale, materiale, e umano (storico,
sociale e culturale), magari in corso di trasformazione. In definitiva questo
termine "Altro" è essenzialmente un costrutto verbale, cioè una
espressione che convenzionalmente sintetizza in sé un insieme di elementi
concettuali, a volte vaghi e difficili da identificare, definire ed elencare,
per cui per convenzione ci facciamo capire a livello discorsivo ricorrendo a
quel lemma ("Altro").
A me
piacciono molto i diari di viaggio, il primo che lessi fu una sintesi di quello
di James Cook, il Captain's Log, scritto sul brigantino Endeavour, era
un libro di mio padre, che lo lesse quando era un ragazzino (N.Bianchi, "Alla
ricerca del passaggio di nord-ovest", Stamperìa Reale G.B. Paravia
&C., Torino, 1925, con tanto di cartina geografica ripiegata in tre). Poi
mi azzardai ad affrontare il giornale di bordo di Cristoforo Colombo, “Diario
de a bordo del almirante Cristobal Colòn”, reso in un italiano moderno a cura
di Rinaldo Caddeo (editore Valentino Bompiani, anch'esso con riproduzione di
una vecchia carta geografica con tracciata la rotta del suo primo viaggio;
anche questo libro era stato di mio padre) e vi si diceva che quello fu il
Grande Viaggio per antonomasia.
Ad
iniziarmi al viaggiare fu appunto mio padre che ci portò tutti e tre (lui, mia
madre e io nel mezzo) con la "Lambretta" in Costa Azzurra, poi un’altra
estate in nave alle isole Eolie (1956), e alle isole Tremiti ('57), e poi
con la nostra auto, la "Giardinetta", in Olanda… e poi con la
vecchia "1100" in Romania e Bulgaria ('64), finché andai a 14 anni
senza i genitori in Irlanda presso una famiglia ('62), quindi cominciai a
viaggiare con i miei amici in Yugoslavia ('65) e poi con Annalisa in Andalusia
('69), in Turchia, Anatolia e Cappadocia ('71), e in Pakistan, India e Nepal
(nel 1978) e in Messico, Guatemala, Honduras (nel 1979), eccetera, eccetera.
E
intanto mi entusiasmavo a guardare i documentari di Attemborough, o i film di
Rossellini, L'India vista da Rossellini e Appunti per una Orestiade
africana, e quelli di Quilici come i "mitici" Sesto continente
(del '54), o L'ultimo paradiso (del '56). Oppure mi attardavo a
sfogliare meravigliato i volumi di reportages fotografici su popoli esotici,
densi di telling images (come oggi per
gli studi di Antropologia visiva, o visuale).
Non
posso negare che inizialmente ero influenzato da un certo
"orientalismo" (cfr. E.Said), che era forse presente in mia nonna
materna e in mia madre, e che mi può aver ammaliato (e che però ho cercato poi
di scrollarmi di dosso).
Anche
da adulto, prima di partire, oltre a leggere libri di geografia, antropologia,
storia, ecc., tra le altre cose per prepararmi all'avventura, leggo, anche
attualmente, vari diari di viaggio di altri viaggiatori che mi hanno
preceduto.
Mi
piace leggermeli per conto mio, lentamente, in silenzio (ma qualche volta
mettendo della musica di sottofondo); poi mi vado a guardare tante immagini,
foto su internet, e anche video da You
Tube. Poi magari mi rileggo un diario da capo. Ma ho bisogno dei miei
tempi. A volte poi li leggo ad alta voce ai miei. E durante il viaggio a volte
prendo tanti appunti (il che non accade sempre, e questo è il motivo per il
quale purtroppo non ho un diario per tutti i viaggi fatti…) su un taccuino o un
quadernino, o una Moleskine (dal nome del cartolaio di Bruce Chatwin), e
poi al ritorno riscrivo per bene il mio diario, e lo metto sul mio blog, http://viaggiareperculture.blogspot.it
Ma non
per tuti è così. La figlia della ministra Cécile Kyenge, la giovane Giulia,
ribadiva giustamente l’altro giorno (cfr. http://www.yallaitalia.it/) di essere
convinta di quanto il viaggiare possa essere importante per modificare le
proprie opinioni su popoli e luoghi mai visti (assieme al vivere in pace e a
leggere molto), e un lettore volle però ricordare che “i vecchi veneti
sentenziavano, in modo ruspante e scostumato, ma sicuramente efficace che: «se
te parti mona, mona te torni…».” (La Repubblica, 18 luglio 2013). E anche
questo può essere vero, almeno per ricordarci di non assolutizzare mai nessuna
nostra sia pur sincera convinzione…
§. 12
-viaggiare verso che cosa?
Chissà
forse io e tutti quelli come me, siamo tra gli ultimi bisnipotini della specie
dell' Homo Viator… o nipoti dei giovani Wandervogel, i cosiddetti “uccelli migratori” dell’inizio del
Novecento…
Un po'
anch'io da giovane, viaggiando un po’ come la beat generation, forse andavo
alla ricerca di un mondo alternativo, o un Eden, un'utopia… Scriveva l’amico B.
Baczko a proposito dei racconti sui paesi d'utopia: "il viaggiatore scopre
un popolo e un paese le cui istituzioni differiscono, più o meno radicalmente,
da quelle delle società esistenti… e perciò (queste) gli offrono un modello di
Città Felice…" (cfr. sub voce nella Enciclopedia delle scienze sociali,
1998). E anche questa recherche ha certo esercitato un suo potente
fascino, almeno sin da quando dopo lungo vagabondare Ulisse scoprì il regno dei
Feaci… Similmente i "figli dei fiori" degli anni settanta, incominciarono
ad incamminarsi verso oriente, e tracciarono lo Hippy Trail, poi si
recarono alla ricerca di tutti gli angoli più belli e reconditi del mondo non
industrializzato, in tutti i lontani Puerto Escondido, e si stabilirono in vari
luoghi incontaminati e meravigliosi, rimasti come fuori dal tempo, divenendo
causa involontaria del loro successivo lancio come mete del turismo di massa….
avevano purtroppo fatto da battipista per le agenzie dell'industria
globale delle vacanze dei giorni nostri….
Anch'io,
come dicevo prima, ho letto con gusto e passione non solo diari di viaggio e
reportages, ma anche narrativa che più in generale riguardava. o si riferiva a
un viaggio, o lo implicava. Ad es. i classici resoconti o/e romanzi di avventura e
di viaggio, come Il Milione di Polo, un po' "romanzato"
dall'amico Rustichello, e la narrativa di fantasia, come I viaggi di Guliver,
di Swift, Viaggio al centro della terra, o il Giro del mondo in
ottanta giorni, e Ventimila leghe sotto i mari, di Jules Verne, o i
romanzi di Joseph Conrad, come Linea
d’ombra del 1917, o in un certo senso persino Il vagabondo delle stelle, l’ultimo romanzo di Jack London, che
riporta i suoi “viaggi” mentali, libri che diedero materia anche a film e
telefilm (e a fumetti e cartoni Disney), oltre ai vari romanzi ambientati in
paesi “esotici” dei mari del Sud, come quelli di Kipling e di Salgari... ma poi
anche di Conrad, o di Hemingway, tipo Isole
nella corrente, che hanno costituito dei "modelli" per quanto è
venuto dopo di loro. E la letteratura di viaggio è sterminata, se pensiamo solo
al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, si va da Sotto il
vulcano di Lowry, e da On the Road di Jack Kerouac, a Bill Bryson, a
Le voci di Marrakech di Elias Canetti, a Pirsig con i suoi giri in moto
assieme al figlio, a certi romanzi di Paulo Coelho, o ai romanzi di Francisco
Coloane, sulla Patagonia, come Terra del fuoco, Capo Horn, Cacciatori
di indios, Galàpagos, I conquistatori dell'Antartide,
eccetera, e i suoi numerosi racconti (vedi
la raccolta "Il meglio di F. Coloane", tr.it. U.Guanda,
Parma, 2005) tutti derivati da ricordi ed esperienze personali. O l' acuta e
anche ironica narrativa di Pino Cacucci sul Messico e le sue popolazioni, di
cui è grande conoscitore. E i racconti cubani di Danilo Manera, di Alessandra
Riccio, e di Davide Barilli,... ecc. per non menzionare se non ciò che fa parte
del bagaglio delle mie letture personali..., a ciascuno poi verranno alla mente
numerosi altri libri che raccontano di viaggi o che derivano da conoscenze ed
esperienze dovute a viaggi ...
Scriveva
Colin McPhee, in quello che è stato definito uno dei migliori libri sul “Paradiso
Perduto”:
"La
nave per Bali era salpata da Surabaya nel tardo pomeriggio. Il facchino
barcollò giù per le scale, inghiottito dalla penombra delle cabine poste sui
due lati del salone, e portò i bagagli nella mia cabina che era proprio sopra
l'elica. Aprendo la porta trovai un corpulento mercante cinese che se ne stava
lì fumando la sua pipa di oppio(…) Così quando il facchino depose le mie
valige, chiusi la porta e tornai di sopra. Passai la notte in coperta,
appoggiato al parapetto (…). Anche se fossi stato solo non sarei riuscito a
dormire, perché ero in preda a un'eccitazione che mi teneva sveglio come non
mai. Avevo fatto un viaggio così lungo perché ero a caccia di musica: volevo
sentire i gamelan, ammalianti orchestre di gong (…)" (C.McPhee, p.
17).
Ma so
bene che non tutti condividono questa mia passione per i racconti sui viaggi
nei paesi esotici dei mari del Sud, e non subiscono come me il fascino
attraente di questo tipo di sogni ad occhi aperti. Ai primi dell'Ottocento
Madame de Staël disse a chiare lettere: "detesto i libri di viaggi",
riferendosi ad una moda, una vera e propria mania della sua epoca, quando erano
considerati come parte della letteratura di evasione, e lei commentava che
"viaggiare è uno dei piaceri più tristi". Da lì il grande antropologo
Claude Lévy-Strauss prese spunto per il titolo della sua famosa opera Tristes
Tropiques ("Tristi Tropici", 1955).
Per
cui capisco bene che non sempre e non tutti troverebbero a sé congeniale il
leggere, o dar da leggere, un diario di viaggio, e anche voler provare ad
utilizzarlo in modo attivo, come alcuni dei suggerimenti dati in precedenza
possono indurre. In caso dunque si preferiscano modalità meno dinamiche o di
altro tipo, si può eventualmente tentare anche un percorso che stimoli e
valorizzi le capacità immaginative individuali tramite sedute di
visualizzazione guidata. Cioè occasioni e situazioni in cui lasciare a ciascuno
tempo e modo di far lavorare la propria immaginazione, per immergersi in quella
narrazione.
Innanzi
tutto per una fruizione a livello educativo, si incomincia leggendo ad alta
voce (se questo è il caso) molto lentamente, e a volte rileggendo la stessa
frase, a volume mediamente sommesso, in un luogo tranquillo e silenzioso (o con
una dolce musica, magari congrua con la cultura in questione, di sottofondo) in
cui ciascuno si possa mettere comodo e a suo agio (cfr. il mio 2002 in biblio.
qui sotto). Ed ecco che molto spesso accade che allora la narrazione si impone
come “binario comunicativo”, e innanzi tutto fa compiere un importante
esercizio all’ascolto, addestrando alla capacità di ascolto. (Questo direi
soprattutto per i racconti, mentre per il testo della relazione di viaggio,
forse si possono utilizzare alcuni brani scelti, o meglio dopo che il testo è
stato già letto dal gruppo, riprenderne certe parti raccontando a proprio modo
alcune sequenze o vicende significative). La lettura ad alta voce di brani, o
il racconto personalizzato, debbono procedere sia come detto sopra, con tono
calmo, e con una certa intensità e compartecipazione, ma anche con frequenti pause,
e scandendo ogni singola parola pronunciata, ed articolando il fraseggio in
modo chiaro, non scordando alcune regole di buona retorica (vedi i saggi di
Fussi e quelli di Rispoli in biblio., e i primi § della parte seconda del mio
sulla paideia greca).
Si può
anche inframezzare la lettura e avviare una pacata conversazione, un po' come
facevano in certe serate del sabato nei paesi di montagna o di campagna quando
si riunivano al lume di candela e al tepore di una casa con la stufa accesa, o
in un magazzino o fienile, o in una stalla calda, e intanto le donne e le
ragazze tenevano le mani meccanicamente occupate a filare o fare la maglia. In
molte località queste "veglie" delle sere prima del giorno festivo si
chiamavano "fare filò", o
semplicemente "filò", tirando fino a ore tarde: "le veglie del sabato" (cfr. anche
con le conversazioni chautauqua dei
nativi del nordAmerica, nel mio saggio in Ermeneutica
dell’ educazione, in biblio.).
C'è un libro di una autrice americana, Maureen
Murdock, intitolato appunto "Spinning inward" cioè filare,
fare filò, ma interiore, intimo. Quindi chiacchierare pacatamene, o leggere
storie, o farsi raccontare storie e leggende da qualcuno, e poi commentarle. Il
titolo completo è "Spinning inward, using imagery for learning, creativity
and relaxation", 1987, tradotto in italiano L'immaginazione guidata con
bambini e adolescenti. Esercizi e tecniche per l'apprendimento, la creatività e
il rilassamento. Che può benissimo essere utilizzato (con adattamenti
opportuni) anche con tardo-adolescenti, e giovani (post-adolescenti) quali sono
ad es. gli studenti universitari, ma certi esercizi si possono senz'altro fare
anche con adulti. L'autrice lo ha perfezionato grazie a sedute presso un
"Centro per l'Apprendimento Integrativo" svoltesi lungo diversi anni,
e poi in molte altre occasioni in cui è stata chiamata, soprattutto dopo la sua
pubblicazione, in istituzioni educative di vario tipo e grado.
Il
professor H.Gardner della Harvard University, in seguito a ricerche con
pazienti affetti da lesioni con problematiche neurologiche, ha proposto di non
ritenere più valida la misurazione del Q.I. quoziente di intelligenza, ma di
considerare almeno nove tipologie differenziate di intelligenza. Sarebbe
consigliabile nelle attività educative dedicarsi a stimolare l'intelligenza
interpersonale e interpersonale, per elevare la capacità di comprendere meglio
come muoversi e relazionarsi in ambienti socio-culturali diversi, e anche di
aiutare a perfezionare la capacità di conoscere e capire sé stessi, il che
alzerebbe il grado di indipendenza e creatività individuale e le capacità
di analisi critica.
Sembrerebbe
che le pratiche di immaginazione guidata (o che io chiamerei di visualizzazione
tramite esercitazioni di meditazione), siano effettivamente uno strumento
valido per educare a sviluppare quelle forme di intelligenza (e anche altre a
seconda dell'individuo). Maureen Murdock le considera una modalità di
educazione spirituale.
Da
quando le pratiche di meditazione sono state analizzate da laboratori di
ricerca scientifica di vario tipo, si sa che si può raggiungere uno stadio in
cui il cervello riesce a concentrarsi in modo esclusivo sull'obbiettivo
proposto si dispone sul livello delle onde Gamma (o addirittura nel caso
inverso di pieno rilassamento raggiunge le onde Theta), e che ciò ha effetti
benèfici sia per le capacità di apprendere, che per la capacità di
sincronizzare le attività dei neuroni (*). Anche le pratiche yoga con bambini e
giovani, sono risultate molto positive per favorire in generale una buona
disposizione all'apprendimento (**), tanto che anche in Italia vi è un progetto
in merito per la diffusione nelle scuole del suo insegnamento (come attività
opzionale). I maestri Tino Giacomin e Luigina DeBiasi furono in Italia i
precursori, già negli aa. '80, dell'utilizzo della meditazione e dello yoga
nelle scuole (cfr. http://www.aliceproject.org/news/tesi.pdf).
Partendo
ad esempio anche da suggestioni sorte durante l'analisi di un diario di
viaggio, o meglio ancora di un romanzo di viaggio, si potrebbe nel contesto di
una sessione di meditazione (sia individuale che di gruppo), indurre alcune
semplici visualizzazioni, e poi, in particolare nel caso di un gruppo, esporle
e dedicarsi ad esaminarle reciprocamente con chi è disponibile a farlo. Si
creano delle dinamiche molto proficue e fruttuose per la conoscenza di sé e
reciproca. L'esternare (o anche il prendere coscienza di sé individualmente) le
visioni che la propria immaginazione ha prodotto in una condizione di estremo
rilassamento, può rivelarsi molto interessante e a volte sorprendente. Si
possono riproporre brani alla cui lettura si era constatato che molti
partecipanti attivavano spontaneamente una serie di associazioni libere e poi
perdevano l'attenzione e la presenza nell'hic et nunc in modo da
immedesimarsi con l'ambientazione descritta per la visualizzazione, o la
situazione appunto suggerita, ed elaborando varie associazioni mentali, delle rêveries,
delle fantasticherie (mi rifaccio al titolo di un'operetta famosissima di
Rousseau). Questa "attività", se riportata in un ambiente isolato e
silenzioso, rilassato, tra persone amiche o conosciute, in un clima di apertura
e fiducia reciproca, porta a calarsi veramente e profondamente in un contesto
immaginario, vissuto come molto concreto e reale, immedesimandosi con il
protagonista (o con altri personaggi), sentendosi presente nella situazione
fittizia e finzionale. La comprensione del contesto proposto in molti casi non
è più solo una comprensione astratta, ma diviene molto più autentica e vissuta
che non durante una comune lettura, e consente anche di capire meglio le
proprie reazioni e capacità, e sentimenti, "mettendosi alla prova" in
situazioni nuove.
Tali
"attività" derivano alla lontana da concezioni e pratiche junghiane
(e anche della von Franz) per innescare "l'immaginazione attiva" in
funzione di un equilibrato processo di individuazione di sé e di centroversione,
e si rifanno anche a metodologie elaborate da psicologi come Abraham H. Maslow,
e K. Wilber, e da appartenenti alla corrente della psicologia transpersonale.
Vengono utilizzate variazioni di esse anche da parte di diversi psicoterapeuti
di altri indirizzi, come da un allievo di Roberto Assagioli e della sua
"psicosintesi", uno studioso e terapeuta di livello internazionale,
quale Piero Ferrucci (ovviamente con ben altro spessore e profondità rispetto
alla semplice e modesta proposta che qui suggerisco!).
Anche
le fiabe, e le favole, o le leggende, e i miti, di un popolo possono essere
testi di riferimento validi a questi fini introspettivi. Anche per questo
spesso nei miei diari di viaggio riporto testi del folklore, tipici e specifici
di quella cultura.
Una
psichiatra come la dottoressa Paola Mazzetti, utilizza poi un metodo che io
chiamerei di mitopoiesi, per stimolare la produzione spontanea di fiabe da
parte dei suoi pazienti in un ospedale psichiatrico, ai quali poi fa recitare
una drammatizzazione della fiaba appena creata, a scopo catartico. La tecnica è
estremamente interessante, e pur proposta in modo assai semplificato e
edulcorato, e senza la drammatizzazione finale, ho constatato che risulta molto
giocosa e insieme interessante, e può essere percorsa a latere della lettura di
un diario di viaggio e di riferimenti alla letteratura popolare. Si veda il suo
libro: "Raccontare per essere". Nella Presentazione scrive:
"La fiaba (…) nella sua semplicità possiede un potere enorme, poiché è
anche la forma più elementare di iniziazione spirituale". Paola Mazzetti
continua: Vladimir Propp "nella sua geniale analisi (in Morfologia della fiaba, 1928), ha
individuato quelli che sono i punti chiave di qualsiasi fiaba (…). Abbiamo un
Eroe che deve fare qualcosa (per passare ad uno stadio più avanzato )… Quando
noi inventiamo una storia, seguiamo lo stesso cammino. (…) lo spostarsi in
un'altra dimensione per poter poi meglio vivere quella usuale, è un tema di
base dello sciamanesimo. Ecco che (…) troviamo la stessa struttura di fondo:
l'immagine di una conquista. (…) In questo cammino di ricerca, partiamo
dall'ipotesi che esista sotto la personalità costituita una nostra natura
profonda che è libera e creativa."
Anche
questa potrebbe essere una proposta da studiare, ed esperimentare e poi da
attivare durante la lettura di certi spunti presenti in un diario di viaggio, e
che potrebbe essere interessante per giovani che stanno per attraversare il labile
confine tra l'adolescenza e l'adultità (adulthood) e affrontare un
difficile salto qualitativo nella loro maturazione. Il linguaggio dei simboli
che in una fiaba emerge necessariamente e con notevole peso, è poi interessante
da analizzare. Si potrebbe pertanto indurre un andamento della narrazione
fiabesca che si richiede ai partecipanti, in modo che anch’esso configuri un
viaggio, un percorso metaforico.
Sempre
raccontando in modo personale e spontaneo, attraverso alcune sequenze di
immagini suggestive (sorte dalla lettura di certi contenuti) del diario di
viaggio, il conduttore-educatore potrebbe poi avviare i partecipanti a una
prima prova di scrittura della sceneggiatura del proprio "film
mentale". (vedi J.-F. Vézina).
Sono
tutte modalità, che potrebbero anch’esse venire definite come attività,
“gesti”, segni che educano alla comprensione, implicando “articolazioni sia in
chiave esperienziale, sia in chiave progettuale, che in prospettiva
riflessiva”; il racconto così non è in senso stretto “né trascrizione, né
metafora del mondo, e diventa piuttosto strumento di conoscenza e di genesi
immaginativa” (E. Madrussan, cit.
pp.90, 91).
Ad es.
sognare un sé stesso più realizzato, o un mondo migliore da costruire, o una
realtà diversa e scevra da certe pecche della nostra società, sono scenari
immaginari che può anche essere positivo sollecitare durante una sessione di
raccoglimento meditativo, e che possono aiutare dei giovani a farsi più
autonomi e responsabili, con la costruzione di un mito personale (cfr. Larsen)
positivo, immaginandosi un orizzonte e una mèta (aim, goal), per
proporsi di perseguirle con coraggio.
Margaret
Mead scrisse un testo su "Indicazioni evolutive dell'apprendimento per
empatia, imitazione e identificazione" (cfr. 1964, 1972), l'empatia, o Einfühlung
(come la chiamava Edith Stein), è un vettore di comunicazione ora assai
trascurato, mentre la rilettura di questo testo potrebbe suggerire spunti per
uno studio più aggiornato e approfondito, che potrebbe portare a interessanti
sviluppi nella riflessione sulle metodologie d’insegnamento. Il tema studiato
inizialmente da Eisenstadt (1954) del passaggio di generazione in generazione
della comunicazione di valori, di arti e di pratiche, accumulatesi durante la
storia, è un problema importante perché non vadano perduti retaggi di
conoscenze e patrimoni d’idee, negli ultimi decenni si è incentrata
l'attenzione più sui motivi di discontinuità e di rinnovamento, il che ha fatto
trascurare la questione della continuità nella comunicazione sociale
intergenerazionale. Ma, per inciso avendo fatto riferimento al termine
utilizzato dalla Stein, un conto è l'accumulo di esperienza in quanto Erfahrung
(cioè esperienza "di conoscenza") compiuta nel corso delle
vicissitudini dei fatti della vita, un altro è il sentimento del vissuto che ci
rende tutt'uno con gli altri compartecipanti e con la situazione in atto, cioè
quell'Esperire che si chiama Einfühlung.
Secondo
Ricoeur, “è proprio alle opere di finzione che noi dobbiamo in gran parte la
dilatazione del nostro orizzonte di esistenza. Esse non producono semplicemente
delle immagini attenuate della realtà, delle “ombre” (…), al contrario le
narrazioni letterarie rappresentano la realtà ma accrescendola di tutti i
significati” (P.Ricoeur, p.130).
Aggiungerei
ancora che si potrebbe prendere spunto da incontri fatti e descritti nel diario
o nei racconti, per sviluppare i temi connessi con l'immagine sociale
dell'infanzia, le condizioni materiali di vita dell'infanzia, le relazioni tra
le differenti generazioni, i modelli pedagogici che di fatto si riscontrano
nella educazione famigliare, e in quella informale, cenni al tipo di didattica
vigente nelle istituzioni scolastiche, e al rapporto tra docente e alunno o
studente, e così via. Come si vedrà leggendo nel diario dato qui come
riferimento, vi sono state varie occasioni in cui abbiamo visto, e ascoltato,
bambini (con alcuni dei quali ci siamo anche intrattenuti) impegnati a lavorare
nelle strade fino ad ore tarde facendo i lustrascarpe, o aiutando in attività
varie, specie di carattere artigianale, o vendendo oggetti come ambulanti.
Abbiamo visto e osservato bambini lavorare ai telai tessili, o nei campi, altri
(o gli stessi) giocare in strada o nelle case, e nelle famiglie che abbiamo
conosciuto, abbiamo osservato le relazioni tra genitori (e parenti) e figli,
eccetera, tutte situazioni accennate o descritte nei testi, Abbiamo ascoltato
racconti a questo proposito, e storie di vita intessute di ricordi a volte
penosi e a volte lieti, abbiamo sentito alcune leggende interessanti e anche
fosche di cui son messi a parte sia adulti che bambini. (Certo durante il
viaggio non eravamo là per studio e ricerca, non abbiamo praticato propriamente
una "osservazione partecipante" né un modello di ricerca-azione, o
fatto interviste "non-direttive" rogersiane, ma solo siamo stati
ospiti in casa di persone, con cui abbiamo avuto dei colloqui informali, e
abbiamo sempre cercato di avere uno sguardo attento e curioso).
Comunque
da qui si dipartono spunti interessanti per poter innestare discorsi sulla vita
dell'infanzia e dell'adolescenza, e per rendere vive dinnanzi agli occhi alcune
scene in proposito. Si può aprire una riflessione a proposito della discrepanza
che sovente si può notare tra immaginario sociale e la realtà delle condizioni
di vita e delle relazioni vigenti, per affrontare il tema dei costumi
educativi, e della differenza rispetto alle concezioni pedagogiche, non solo
dal punto di vista storico, ma anche della comparazione educativa.
Nel
viaggio sulle Ande dell'Ecuador, cui si riferiscono il diario e i racconti qui
proposti come spunti di riferimento, abbiamo anche osservato realtà pedagogicamente
avanzate, in cui si possono notare riferimenti a modelli educativi moderni e
innovativi, ci siamo potuti attardare in conversazioni con insegnanti e
direttori scolastici, sulle realtà delle scuole di comunità, e
dell'insegnamento bilingue e di carattere bi-culturale… ecc. ma
soprattutto abbiamo visto e incontrato, e osservato il comportamento di molti
non-adulti con cui o abbiamo intessuto un rapporto o ci siamo anche solo
soffermati a chiacchierare.
Anche
qui, leggendo ad alta voce molto lentamente, e a volte rileggendo la stessa
frase (soprattutto nel caso dei racconti), o anche raccontando in modo
personale e spontaneo, attraverso alcune sequenze di immagini suggestive (in
particolare per il testo della relazione di viaggio), e ricorrendo
eventualmente anche a qualcuna delle metodologie accennate prima, si possono
aprire all'immaginario varie scene suggestive per indurre ad identificarsi con
personaggi e con situazioni tipiche di certi stili di vita, e fantasticare
esercitandoci su come potremmo vivere in quelle condizioni e modalità, e cosa
potremmo pensare o cosa sarebbe invece impensabile, e calarci in una mentalità
e in usanze diverse dalla nostra (l’empatia intesa come atto di “mettersi nei
panni altrui”).
Scriveva
Aldous Huxley (in Filosofia perenne,
tr.it. Adelphi, Milano, 1995), “solo attraverso esperimenti fisici possiamo
scoprire la natura intima della materia e delle sue potenzialità. Ed è solo
grazie ad esperimenti psicologici e morali che possiamo scoprire l’intima
natura della mente e le sue potenzialità”.
Queste
suggestioni non vengono qui proposte avendo esclusivamente o principalmente in
mente come destinazione l'uso di queste pagine in un contesto universitario
dunque in una relazione tra un docente e degli studenti all'interno di un corso
accademico, cosa che ritengo comunque praticabile con i dovuti accorgimenti e
limiti, e che potrebbe rientrare in un programma di "esercitazioni di
laboratorio" oppure di "Apprendimento Integrativo", ma
soprattutto in ambito extra istituzionale con gruppi di giovani (o meno
giovani) attorno a una figura di conduttore/"educatore", in una
relazione amicale o cameratesca, ed in una modalità anche spontaneistica e
creativa di cooperazione. Potrebbero dunque essere praticate in un contesto
educativo di impostazione libertaria e informale, in gruppi spontanei per
l'autoformazione, o come attività con finalità formative in ambito di comunità,
o nell'ambito di gruppi per lo sviluppo dell' autocoscienza e della
consapevolezza di sé (self-awareness).
Il
testo qui proposto su un viaggio, se non è certo redatto in forma saggistica,
tuttavia non è del tutto neppure strettamente in modalità narrativa da
racconto, è piuttosto un diario di viaggio simile a un resoconto inframmezzato
da esposizioni basilari sulla cultura autoctona degli indios andini, e da
considerazioni e riflessioni. Come risulta evidente la scrittura del diario non
nacque con finalità di un suo uso in ambito pedagogico, ma come un misto tra un
testo di memorie, e un testo che potesse essere di stimolo -questo sì- e per
intrattenere in modo discorsivo i lettori su aspetti della cultura, della
spiritualità, della storia di un popolo.
Pertanto
è pur verissimo che vi sono in questo scritto una certa quantità di
informazioni su particolari specifici di una cultura differente, quantità probabilmente
eccessiva e forse pesante o limitante per la scorrevolezza di certe pagine.
D’altronde tutte le elaborazioni che un popolo compie sono significative per
conoscere e capire la loro comprensione del mondo e della vita; il loro
immaginario dunque è la traduzione della loro weltanschauung, o cosmovisione. Sarebbe “troppo facile”
diversamente ogni approccio alla alterità… e questa non sarebbe tale se fossimo
tutti più omologati e più simili tanto da poterci facilmente capire. Le azioni
e le opere compiute dall’essere umano si riferiscono –secondo l’antropologia
filosofica di Gehlen- alla “necessità di elaborare il mondo”, ovvero di
interpretarlo per poi trasformarlo, o di conoscerlo trasformandolo, “senza di
che l’essere umano non può durare nell’esistenza”. E ciò è dovuto forse al
fatto che l’essere umano alla nascita non è già “specializzato” nel suo
operare, dato che, come diceva Nietzsche, l’uomo è l’ “animale non del tutto
definito”, non “definitivamente costituito”, per cui, dice Gehlen, la cultura
diviene necessariamente una sua “seconda natura”.
Perciò
noi dovremmo sforzarci (non solo a causa del processo di mondializzazione) di
conoscere, o almeno avere una prima idea, della multiformità e complessità
delle varie culture ed elaborazioni interpretative prodotte dall’Uomo. Credo poi
anche che effettivamente proprio in questi anni in cui la specie umana si trova
di fronte a problematiche comuni a livello planetario, emerga come grave
carenza del nostro sistema di istruzione (anche superiore) il non far conoscere
altre culture di altri popoli, anche se lontani, e in generale lasciare che se
ne abbiano cognizioni vaghe e stereotipate, o al più banalmente nozionistiche,
sia della geografia umana e fisica, che della storia delle realtà extra-europee
(questo sia per quanto riguarda gli studenti che anche molti docenti). Perciò
dopo il rientro in Italia, non appena ne avemmo l'opportunità, invitammo
Pumaquero a tenere lezioni alla nostra università (e non solo), confidando che
il contatto diretto, e il porsi a confronto personalmente con un personaggio
"portatore" di una cultura “altra” potesse sortire ben maggiore
effetto rispetto al nostro riferirne di “seconda mano”.
Non
nascondo infine una sottesa speranza, parlando di un viaggio in un altro
continente, non solo di incuriosire (ai temi della antropologia, della
sociologia, della psicologia, e delle altre discipline umanistiche) ma magari
anche di far germinare vocazioni latenti o sopite… (ché questo poi dovrebbe
essere il fine principale di ogni intervento educativo).
Mentre
i brevi e scorrevoli racconti di Ghila sono squisitamente narrativi, e sono
ispirati da varie situazioni descritte o accennate anche nel mio diario. Quindi
due testi differenti nella forma, che andranno utilizzati in modalità
differenziate, ma che mi pare vadano bene intrecciati tra loro.
I
testi qui proposti su un paese lontano, potrebbero da un lato interessare chi
già aveva desiderio di fare un viaggio dentro una cultura altra, e magari
proprio sulle Ande…, e in questo caso il diario può essere letto anche come un
invito, una traccia di itinerario, e offrire nomi di persone, e luoghi e libri,
per una visita più “consapevole”, oppure incuriosire chi leggendo si dovesse essere
sentito attratto da questi luoghi e dalle sue genti. Ma può essere letto (oltre
che per gli spunti che si possono cogliere e sviluppare su molti vari argomenti
e tematiche), anche come diario di una situazione particolare, di una
contingenza storica, come si suol dire “di grande momento”, cioè quello della
rinascita di una cultura che era in via di estinzione, o comunque che si dava
oramai per tramontata e superata. Chissà forse questi anni (dal cinquecentenario
ad oggi) sono stati quelli in cui si è potuto cogliere quel momento fatale, che
gli antichi greci chiamavano kairòs, che
è anche una opportunità dell’ultimo istante, trascorso il quale il procedere
della storia diviene irreversibile, passato il quale, come si dice si è persa
l’ultima occasione, e non si potrà più ritornare indietro a recuperare (come è
accaduto a molte altre culture nei nostri giorni), per riavviare una
riscoperta, una rivitalizzazione, magari rileggendola con nuovi significati, e
con una nuova dotazione di senso, di una cultura autoctona originaria e
specifica.
Perché
dico che questa rinascenza è avvenuta forse all’ultimo momento? Perché poi con
l’attuale diffusione del vigente modello occidentale (cioè con la crescita dei
mezzi di comunicazione di massa, come la TV, la radio, le pubblicità, i
personal computers, internet, i cellulari, e con il progresso economico, con
l’invasione di un gran numero di merci, il commercio mondiale, l’istruzione di
base obbligatoria, la diffusione della motorizzazione, l’emigrazione in altri
continenti, e il grande aumento dei flussi turistici, l’idealizzazione di certi
stili di vita o ways of life, tipici delle società del consumismo), questa
recente accelerazione dei mutamenti socio-culturali, avrebbe travolto, come ha
fatto quasi ovunque in questi ultimi anni di globalizzazione, ogni “subcultura
d’altri tempi”, con un rullo compressore omologante. E ne sarebbe rimasta
schiacciata definitivamente la povera, fragile ed emarginata cultura degli
indios delle Ande, se non ci fosse stato quel forte movimento popolare di
risveglio, di coscientizzazione e di riscossa che c’è stato in tutti i paesi
andini. Grazie a cui la cultura autoctona andina sembrerebbe che possa
salvarsi, anche se comunque è tutt’oggi sottoposta alle formidabili pressioni
omologatrici a conformarsi al processo di massificazione planetaria di cui
sopra.
Si è dunque forse salvata (nel senso del libro
di Primo Levi, I sommersi e i salvati)
la cultura indigena andina, che d’ora in poi sarà non più soltanto oggetto di
studi archeologici e di curiosità etnografiche verso un qualche strano gruppo
“residuale” di nicchia, ma sarà oggetto di conoscenza (non solo accademico) e
di interesse da parte di persone aperte e di viaggiatori desiderosi di
arricchire il proprio patrimonio di esperienze culturali e spirituali, e/o il
proprio bagaglio di cognizioni sul mondo e su chi lo abita.
§. 13
- infine e per terminare
Il
grande filosofo bengalese Sri Aurobindo Ghose (1872-1950), amico di Tagore, di
Gandhi, di Krishnamurti, fu ministro dell'istruzione del regno indiano di
Baroda (oggi Vadhodara), in cui fu dichiarata obbligatoria la scuola primaria
per tutti, e fu anche rettore di quella Università. A causa della sua lotta
anti-britannica per l'indipendenza indiana, nel 1910 si dovette rifugiare nel
sud dell'India, nel piccolo territorio allora francese di Pondichéry, dove
fondò un centro spirituale, e poi nel 1940 anche una libera scuola. Subito dopo
la sua scomparsa sorse (nella vicina Auroville, città utopica dove ho compiuto
una breve visita di qualche giorno, durante uno dei miei viaggi in India, vedi:
http://viaggiareperculture.blogspot.it/2011/07/diario-di-viaggio-nellindia-del-sud.html §. Auroville)
un importante "International Educational Center" improntato alla sua
filosofia e spiritualità. Aurobindo considerava l’educazione
come "costituita dai cinque aspetti corrispondenti alle cinque attività
principali dell’uomo: fisica, vitale, mentale, psichica e spirituale"
(J-M.Prellezo) che debbono procedere in una equilibrata sintesi tra loro (cfr.
Chistolini, 1990). Scrisse tra l'altro le seguenti righe circa un secolo fa,
che condensano tre concetti tra quelli che riteneva più basilari in campo
pedagogico, e che mi piace qui porre a chiusura di questa prefazione:
"Il maestro non è un istruttore, un esperto; egli aiuta e guida
semplicemente l'allievo. Il suo compito è di suggerire, e non di imporre.
Inoltre egli non è l'allenatore della mente dell'allievo; gli mostra soltanto
come perfezionare i propri strumenti di conoscenza e lo aiuta ed incoraggia in
questo processo.
Egli
non è colui che impartisce conoscenze all'allievo, ma piuttosto colui che
mostra come acquisirle per conto proprio. Non è uno che evoca conoscenze
interiori dell'allievo, ma colui che indica dove giace quel patrimonio e come
può essere condotto ad insorgere. In un autentico insegnamento il principio
sano è unico, sia per un adulto come per un ragazzo, per un maschio come per
una femmina: va solo considerata la differenza, per diminuire o accrescere
l'aiuto e la guida necessaria (o per adattarla), ma non cambia la natura
dell'insegnamento del maestro.
Un
secondo concetto consiste nel fatto che la mente deve essere consultata nella
crescita a lei propria. L'idea diffusa di modellare l'allievo secondo i
desideri dell'insegnante è segno di ignoranza e superstizione barbara, occorre
indurre l'allievo ad espandere sé stesso in armonia con la propria natura.
Ognuno ha qualcosa di divino, di particolare, un'occasione di perfezione e di
forza, anche se di dimensioni limitate, è una offerta divina che si può
accettare o lasciare. Il compito di ognuno è di trovarla, svilupparla,
adoperarla. La mèta principale dovrebbe consistere nell'aiutare l'allievo, la
sua anima in crescita, a far emergere il meglio di sé, e renderlo perfetto per
un nobile scopo.
Operare
dal presente verso il futuro, da ciò che è verso ciò che sarà, questo è un
terzo concetto. La base della natura dell'uomo è composta quasi sempre, dal
passato dell'animo suo, dalle sue radici, dal suo ambiente, dalla sua origine
culturale, ma anche dal suolo che gli da il sostentamento, dall'aria che
respira, dai vari aspetti, suoni, abitudini ai quali è assuefatto. Essi lo
formano in modo potente, ed è da qui che dobbiamo incominciare". ( … )
"quelli che riescono ad essere buoni maestri, sono coloro che son capaci
di far compiere un progresso interiore, abbattendo le barriere dell'egotismo,
facendo conquistare la padronanza di sé, una chiara visione (del mondo e dell'essere
umano), la comprensione degli altri, ...e una pazienza a prova di
tutto".
(citato
in B.Beretta e L.Galliero, Il bambino realtà globale, Macro ediz., 1995,
v. in Biblio., e nel mio capitolo in: D.Costantino, 2007, cit., e
riportato anche nella mia homepage http://utenti.unife.it/carlo.pancera/testi/guru.pdf , poi il brano è
stato da me riproposto anche in: "Bene o male…", capitolo
1 di Gramigna e altri, Etica, formazione…, 2012, p.37).
Margaret
Mead scriveva nel 1977, un anno prima di morire: "l'antropologia
[culturale] cambia col cambiare del mondo", e lo avevano constatato sia lei
che altri studiosi nei loro vari "ritorni" (come ad es. F.Quilici, ma
anche De Martino, Lanternari, Cirese, Lombardi-Satriani, Callari-Galli, ecc.).
Possiamo
aggiungere che per certo pure il viaggiare cambia; e così anche la narrativa di
viaggio cambia; e abbiamo buoni motivi per sperare che anche le istituzioni
educative, e i percorsi di formazione e la pedagogia cambino col cambiare del
mondo… innnovandosi in modo positivo e arricchente. Certamente in questi ultimi
venti-trent’anni le scienze dell’educazione e della formazione sono cresciute
dando luogo a ramificazioni importanti che hanno approfondito ricerche, studi,
conoscenze, ipotesi e interpretazioni; dunque hanno generato e germinato molti
diversi boccioli che ora sono fioriti, e la pluralità, e la varietà è la grande
ricchezza e bellezza che ora mostra e offre obiettivi da perseguire ai nuovi
ricercatori. Dalla meraviglia, dallo stupore, nasce l’ardore e l’attrazione
(Platone), e quindi la curiosità di conoscere bene quel che manca al nostro
sapere (Socrate).
Forse
pian piano si potrà sviluppare e diffondere una pedagogia integrale
non-autoritaria e non-direttiva, nel cui ambito chi fa da accompagnatore possa dare
spazio a un desiderio di sapere e di capire da parte di chi si incammina sulla
strada dell’apprendere e dell’esperire, rinforzato dall'educazione all'analisi
critica, e alla autonomia di giudizio.
E
soprattutto che scocchi una scintilla, che si attivi una volontà di sapere (Aristotele)
coniugata anche con il desiderio di libertà, e quindi avvertendo il richiamo ad
un viaggio (reale o mentale), col piacere poi dell’osservare, dell’ascoltare, e
del narrare, coniugato col mondo delle immagini (ut pictura poesis), e anche con le fantasticherie. Quindi
intendendo quello formativo come un rapporto di relazionalità, per collegare le
funzioni cognitive, affettive ed espressive, per sviluppare la creatività e per
coltivare anche l'intelligenza emotiva, rendendoli degli strumenti per navigare
nella vita e nelle culture, come una articolata seconda bussola che possa
aiutare ad orientarsi sulle scelte da compiere, e farne il leitmotiv di
una nuova Bildung.
E,
così attrezzati, appunto di capacità analitiche, di spirito critico e
congiuntamente anche con un po' dell'istinto dei sognatori, dei creativi,
partire con coraggio e "accogliendo quello dei ragionamenti umani che sia
se non altro il migliore e il meno confutabile, lasciarsi trarre su codesto
come sopra una zattera, e attraversare così a proprio rischio il mare della
vita" (come scriveva Platone nel "Fedone", 85c-d).
Le
varie strade bisogna percorrerle, “hay
que andarlas” (J.-L. Borges).
-----------------------------------------
NOTE:
(*)
tra gli altri si veda ad es.: "Long-term meditators self-induce
high-amplitude gamma synchrony during mental practice", ricerca della
University of Wisconsin (Dept. Psychology) riferita in una comunicazione di
Burton H. Singer (Princeton Univ.) in PNAS , nov. 2004, vol. 101, n.46. di
cui do una breve sintesi: "nel corso di una meditazione in laboratorio
sono state registrate le onde cerebrali di due diverse tipologie di praticanti
usando un elettroencefalogramma. Le onde gamma sono risultate, nel gruppo dei
meditatori esperti, di ampiezza significativamente superiore rispetto al gruppo
dei principianti e fortemente sincronizzate. Precedenti studi hanno evidenziato
che la sincronizzazione neurale, in particolare delle onde gamma, è fortemente
implicata in processi mentali superiori come l’attenzione, la memoria di
lavoro, l’apprendimento o la percezione cosciente. Un risultato del genere
suggerisce che, poiché l’esercizio meditativo potenzia tale sincronizzazione, i
processi cognitivi superiori sono competenze flessibili che possono essere
apprese e allenate con l’esercizio. E’ inoltre provato che queste
sincronizzazioni svolgono un ruolo cruciale nella costituzione di reti neurali
transitorie e possono indurre cambiamenti sinaptici. Tutto ciò significa che la
pratica meditativa può migliorare concretamente i circuiti neurali del nostro
cervello". Cfr.: http://psyphz.psych.wisc.edu/web/pubs/2004/meditators_synchrony.pdf
e:
Jean-Pierre Changeux, et Paul Ricoeur, La natura e la regola, 1998, tr.
it. R.Cortina, Milano, 1999.
(**)
cfr. tra gli altri: Satyananda Saraswati, Yoga Education for Children,
Yoga Publ. Trust, Munger, Bihar, India, 1985, 1999; e National Assembly of the
Bahais of India, Peace Education, Activities for Children. A Teacher's Guide,
Panchgani, Maharashtra, India, 2002.