domenica 24 maggio 2015

sul Diario di un viaggio in Perù (lezione introduttiva del 31-marzo-2015)

Intervento con gli studenti del corso di "Pedagogia generale" (prof.sa Anita Gramigna) presso il dipartimento di studi umanistici dell'università di Ferrara, tenuto il martedì 31 marzo 2015  [trascrizione del "testo" orale da una registrazione dal vivo in aula, poi riveduta, ritoccata e arricchita per questa occasione].


Ho scelto per questo mio intervento il titolo  «Il viaggio di conoscenza e il suo diario»

Buongiorno, entro subito nel merito, cominciando con il consigliarvi di leggere, oltre al diario di viaggio "Con lo sguardo del condor" e alla sua prefazione,

anche -se volete- la prefazione al mio precedente testo con un diario di viaggio, cioè "Il viandante e lo sciamano", adottato come lettura in questo stesso Corso l'anno passato (e che potete prendere in biblioteca, o comprare su Amazon o e-Bay). Benché lo scorso anno il Corso fosse incentrato sul tema della narratività, tuttavia vedrete che vi sono molti punti in comune, e penso che vi possa aiutare fare questo esercizio di doppia lettura,

infatti come sostengo proprio in questa introduzione, è dalla comparazione che scaturisce la riflessione. E d'altronde lo dice la parola stessa, "ri-flessione", cioè tornare a flettersi a chinarsi su un oggetto, ad osservarlo con nuova attenzione. Tale oggetto viene in qualche modo duplicato, replicato, e riproposto, sotto una forma leggermente differente in un secondo tempo, da un'altra parte, in un altro contesto (anche se eventualmente si faticasse a rilevare una differenza,  andrebbe presa coscienza del fatto che essa comunque è presente).
Ora introducendo subito il tema della "riflessione" (che etimologicamente è anche rinvio, ripercussione) e dunque il concetto di rispecchiamento, mi piace iniziare questo  mio commento al mio testo  con il rinvio proprio all'immagine dello specchio, con questa operazione di tipo comparatistico.

La comparatistica è una pratica di ricerca con sue precise metodologie d'approccio, ed è un settore che è nato nell'Ottocento e che si è sviluppato in particolare nell'ultimo terzo del XIX sec. in varie branche del sapere, dando luogo alle scienze comparative che affrontano varie problematiche comparatistiche in vari campi, per cui si analizzano due oggetti simili per rilevare se si tratti di oggetti che comunque rientrano nello stesso ambito, entro la stessa categoria definitoria, o meno, e per verificare se pur differendo le forme e le espressioni, il contenuto possa essere ritenuto assimilabile o comunque simile, oppure se si tratta di impiegare criteri differenti. Vi sono dunque studi di linguistica comparata, filologia comparata, letteratura comparata, come pure di diritto comparato, o di storia, o di mitologia, o religioni comparate, anatomia comparata, o geologia, o altra disciplina vista sotto un'ottica comparativa. E' una modalità di approccio che ebbe subito un grandissimo "successo" e si diffuse in tutte le discipline umanistiche e in tutte le scienze da quelle naturali, sino a quelle teoretiche. 
In effetti è un approccio, un metodo, che anche per l'attività di studio, per comprendere meglio ciò che si studia, lo possiamo vedere come un aiuto, un percorso ausiliario. E inoltre è anche in tema per quanto riguarda questo Corso sui processi gnoseologici, di conoscenza, nei percorsi di formazione, in cui oltre ai sussidi che ci possono venir forniti dalle scienze psicologiche, dalla antropologia culturale, o dalle neuroscienze, eccetera, si farà certamente ricorso anche a una disciplina quale l'Educazione Comparata.
Un viaggio come percorso di conoscenza di una realtà culturale differente dalla nostra, che - nel presente caso del Perù-  ha coerentemente strutturato processi formativi altrettanto differenti dai nostri (trattandosi di una società per molti versi più povera e più arretrata di quella in cui noi viviamo, e di un Paese, in particolare per le regioni andine, privo di una economia industriale, in cui si vive secondo i moduli di tipo tradizionale), è anche un percorso denso di input e di stimoli dato che il protagonista del viaggio è inizialmente spaesato, e anche se curioso è disorientato essendo a confronto con forti diversità, anzi alterità, calato come si trova ad essere in un altrove. Il viaggiatore deve perciò cercare di conoscere un mondo, una cultura, per capire come muoversi e rapportarsi a ciò che vede e incontra.

Se poi il "pretesto", l'esemplificazione, per analizzare il tema del Corso, è appunto un diario di un viaggio… beh esso non è altro che il racconto, la storia di un percorso intessuto di continue comparazioni. In un viaggio il soggetto va, si reca, in un contesto che non è quello in cui vive, e che ha magari scelto deliberatamente proprio in quanto pensa che sia differente, o radicalmente divergente, rispetto a quello di cui ha esperienza… è ovvio che in una primissima fase ci possa essere anche una reazione di sconcerto poiché non sa bene come orientarsi. Cioé si rende conto che non lo aiuta il riferirsi alle categorie interpretative usuali per decifrare ciò che sta vedendo o che sta succedendo. Il che accade appunto perché si istituiscono subito spontaneamente delle comparazioni (dèbite o indebite) con "il conosciuto".


E' una fase che verrà poi pian piano superata, nel senso che man mano che si acquisiscono nuovi strumenti  di interpretazione del reale, più appropriati alla nuova situazione esistenziale, ci si rende conto che sarebbe meglio trattenersi dal fare paragoni indebiti.
Ma la attività comparativa è comunque necessaria per incominciare a cercare di distinguere l'identico dal diverso, il medesimo dal differente, ciò dà una primissima occasione per accorgersi non solo di cosa ci sta di fronte e di quanto differisce da ciò che conosciamo, ma anche contestualmente di capire più a fondo "il conosciuto" (cioè il nostro mondo, la nostra realtà). In definitiva il processo comparativo di riflesso  aiuta a prendere maggiore e migliore consapevolezza anche di noi stessi, quindi ad individuare meglio le nostre stesse peculiarità e specificità (e a prendere coscienza dei loro limiti). 
Ciò è molto importante, e anche questa operazione (cioè il compiere una auto-analisi critica) può costituire un "esercizio" preliminare. Esercizio indispensabile in questo caso perché l'autore di un diario fa evidentemente entrare -come accade in ogni testo narrativo- la propria soggettività nella sua narrazione. Anzi in un testo diaristico la soggettività è necessariamente strabordante … 
Ponendosi a scrivere di sè è importante mantenere la consapevolezza dei propri limiti oltre che delle proprie potenzialità, e quindi delle proprie "distorsioni" nel riferire ciò che è stata la propria esperienza, il proprio vissuto di una certa realtà di eventi.
Per queste e altre considerazioni consiglierei di iniziare lo studio con questa operazione di tipo comparativistico.    

Per quanto riguarda il diario come esemplificazione di percorsi cognitivi, penso che una comunicazione di tipo narrativo -o anche solo discorsivo- di proprie esperienze sia più acessibile, e anche "naturale", e quindi sia un testo facilitante e facilitato, per introdurre certe problematiche e certe argomentazioni, rispetto ad un testo di carattere saggistico. Ne avevo parlato in questo Corso e in quest'aula l'anno passato. Penso che possa costituire una buona divulgazione proprio perché può far passare certi contenuti con più "facilità". Però nello stesso tempo però è anche presente il limite "opposto", cioè che forse può essere più difficile in quel modo andare in profondità… Inoltre si può generare un equivoco: e cioè che un testo narrativo e/o discorsivo sia "facile" anche per quanto riguarda i  contenuti. E invece (paradossalmente ciò sembra stridente con quanto ho appena affermato) è più difficile prenderlo "sul serio", cogliere certe sfumature, o certe allusioni, o complessità, proprio per la sua natura scorrevole. Proprio perché ha l'apparenza di una comunicazione più immediata e diretta, in quanto discorsiva, si rischia di non darvi l'attenzione e l'importanza dovuta. In particolare noi ricercatori, studiosi e studenti della nostra epoca siamo abituati, allenati, addestrati a districarci con facilità oramai (giunti al punto in cui siete voi stessi) in testi di carattere sintetico, composti con una logica, una razionalità, una capacità di condensazione concettuale, tipica della saggistica. Per cui paradossalmente penso che forse avreste avuto meno dubbi sui contenuti se vi avessi dato da studiare un testo espositivo, epidittico, un saggio in cui si espongano e poi riassumano le considerazioni, le conclusioni, le convinzioni dell'autore, relativamente alle tematiche affrontate ad es. durante un viaggio di conoscenza. In quella tipologia di testi si mettono in rilievo (magari visivamente stampate in grassetto) le parti più importanti da notare, in cui si approfondiscano gli aspetti ritenuti più significativi, mentre altre annotazioni sarebbero appunto finite in una nota a piè di pagina, eccetera. Noi (studiosi e studenti) conosciamo bene le metodologie espositive e tutti i "trucchetti" del linguaggio scritto,  non solo secondo le regole di una certa retorica, ma anche seguendo le modalità manualistiche, anzi in particolare se si tratta di un testo che vuole proporsi come "manuale", come "libro di testo". Se allora compariamo in questo modo le virtù comunicative di un manuale, in cui ci ritroviamo e ci orientiamo maggiormente a nostro agio, potremmo essere portati a dare una lettura troppo veloce ad un testo come un diario di viaggio, perché appunto siamo portati a pensare che in fondo non si tratta d'altro che di un "raccontino"… e lo sottovalutiamo.

Scusate se di primo acchito vi potrebbe parere che in queste ultime parti del mio discorso mi sia contraddetto più volte, ma ho percorso consapevolmente questa via delle antinomie per darvi da riflettere sui limiti di ciò che facciamo e che sperimentiamo, e su ciò che troppo spesso diamo per ovvio e scontato.
Dunque ho compiuto la scelta di comunicare scrivendo in una modalità narrativa-discorsiva.
Nei miei intenti nel pormi a scrivere il diario di un viaggio che possa dare spunti per riflessioni e considerazioni su una determinata tematica e sulle sue problematiche (in questo caso: come si fa esperienza, come si svolgono i percorsi cognitivi, come avviene che certe conoscenze svolgano poi un effetto formativo, …) non intendevo scrivere un puro e semplice resoconto, né un vero e proprio racconto di viaggio, ma un testo che andasse al di là della cronistoria evenemenziale, degli eventi. Non essendo però un abile scrittore, se io sia poi riuscito o meno a realizzare i miei obiettivi questo lo potrete giudicare solo voi lettori … e mi scuso già sin d'ora per le mie mancanze e scarse capacità, dei cui limiti ho chiara coscienza.
Comunque la motivazione e l'intenzione che stava a monte della scrittura era quella appunto di introdurre un modo più scorrevole di affrontare certe questioni. Il che lo intendo come un modo che riferisca e racconti come le cose, gli avvenimenti, gli interventi di personaggi,  sono effettivamente accaduti nella realtà del mio esperire.
Anche in questi casi si può fare una lettura, come si dice, sintomale. Per cui se notate a volte sono esplicito nel dire che cosa ho effettivamente fatto, come anche che cosa avrei potuto fare ma non ho fatto, o detto. E ciò non riguarda soltanto visite, percorsi, azioni, discorsi, che ho fatto o che non ho fatto. Ma per esempio -tornando a quel che vi dicevo poco fa- non ho fatto appunto la scelta di scrivere un vero e proprio racconto (o addirittura un romanzo) di viaggio, di quel viaggio. . .  Pur avendo coscienza del fatto che in quel modo si è in grado maggiormente di affascinare, catturare, coinvolgere un lettore molto più intimamente e profondamente che con un diario di viaggio, dal punto di vista emozionale, sentimentale, stimolando l'immaginario e una serie di associazioni di idee, ecc..  mi sono arreso alla constatazione che ciò è oltre i limiti delle mie capacità, ed è meglio rinunciare ad obiettivi eccessivi piuttosto che dar luogo ad un prodotto troppo scadente, come purtroppo se ne trovano assai spesso (sia nel mondo della stampa che in quello di internet). Peccato perché resto convinto che un buon uso della narrativa aiuti molto nel comunicare la complessità della realtà delle esperienze. Perciò ho chiesto a Ghila di arricchire anche questo diario, come già quello dello scorso anno, con la scrittura di due o tre racconti ispirati dal contesto ambientale della cultura andina.
Quindi quel che ho fatto è stato di scrivere solo e nient'altro che quel che è avvenuto girando per quei luoghi (come recita il sottotitolo: "lungo le strade del Perù"), o che detto negli incontri e dialoghi avuti. Mentre in un racconto si può dar vita ad un "Mondo"… c'è la libertà di creazione e tutto è concesso. "Basta" saperlo creare dinnanzi agli occhi e alla mente di chi sta leggendo, e quindi anche se qualcosa non è successa … non ha importanza: è fiction, nella finzione ci si può mettere tutto ciò che conviene alla storia. Questo resta comunque possibile nell'ambito della nostra immaginazione ...
Nel caso del mio resoconto di viaggio invece purtroppo non è così, questa possibilità è demandata al lettore, che a seconda dell'interesse che il testo riesce a risvegliare, a sollecitare, potrà dire a sè stesso: mah, e se avesse proceduto diversamente? ma se…  ...e si aprono vari scenari sulla base di quei "se"…
Come dicevo prima, accenno ogni tanto nel testo a questo possibile tipo di analisi, di lettura. L'analisi che procede coi "se" e scandaglia varie potenzialità, o possibilità, che considera le eventualità implicite in una realtà, e quel che non c'è stato, non è accaduto. E' un po' come con l'analisi sintomale di un testo scritto, per la quale si prende in considerazione il fatto che non si sono dette certe cose, che una certa frase non è stata scritta in un certo altro modo ma in questo, che non si sono utilizzati determinati termini, sostantivi o aggettivi, che sarebbero stati accettabili … e  ciò viene ritenuto significativo, sintomatico di un certo atteggiamento, o di una tipologia di pensiero dell'autore, di una mentalità, di una cultura, eccetera. Si analizza anche ciò che manca, le scelte non fatte o scartate. E anche le correzioni e le varianti documentate da stesure precedenti o da cancellazioni. E' pure questo un possibile percorso comparativo.
Essendo sempre stato abbastanza curioso e interessato agli studi storici, mi riconosco nella frase detta mentalmente da un personaggio della scrittrice Françoise Sagan: "Pieno d'angoscia il lettore di libri di storia pensò: Chissà cosa mi riserva il passato?", e lo considero un ironico aforisma molto azzeccato.

Questa attività di ipotizzare come avrebbero anche potuto andare le cose, questa visione di scenari possibili, è un modo per rendersi conto dei limiti del reale, e del fatto che al di là dell' effettivo ci sono sempre altri "mondi" vastissimi e possibili, che in questo particolare modo (sia pure assai limitato) fanno in un certo senso anch'essi parte della Realtà (che in questi casi è la realtà mentale e psichica).

Un diario non è forse neanche a pieno titolo una forma di scrittura narrativa… non è certo una forma saggistica, ma non c'è solo la narrativa come alternativa alla saggistica … è forse una forma più vicina a quella discorsiva. Nella lettura provate dunque a vedere se riuscite a trovare tra le pieghe e le divagazioni del testo quelle problematiche che sono richiamate dalla introduzione in modo condensato, o a individuarne delle altre.

E' proprio lungo questi percorsi, o procedimenti (che ho sinora sommariamente descritto) che avvengono i processi di conoscenza.
Percorsi a volte forse un po' contorti, o bizzarri (tipo i salti logici delle associazioni di idee).

Se da un lato resto del parere, come dicevo, che la forma narrativa vera e propria (racconto, romanzo) sia quella che rende conto con tutte le sue sfumature, allusioni e incertezze, in modo più completo di come è la realtà, che è sempre complessa, complicata, contraddittoria, incompleta, in una misura che un testo saggistico non potrà mai avere l'ambizione di rendere (salvo rarissimi casi). Se dunque la scrittura narrativa sarebbe quella che può in modo più completo esser considerata specchio della realtà, è proprio anche perché sappiamo che è fiction. Per cui ci lascia liberi di sentirci coinvolti o meno, d'accordo o non d'accordo, immedesimarci o sentirci distaccati, perché è detto esplicitamente "lettori, questo è un romanzo!", un racconto, cioè questa non è realtà fattuale (proprio come -sia pure all'inverso- vien detto nel titolo di un racconto di Diderot del 1772 intitolato "Ceci n'est pas un conte", ovvero si vuol dire: "questa è la realtà"; oppure nella didascalia di un quadro del 1928, di René Magritte in cui invece dichiara: "questa non è una pipa", poiché, come l'Autore precisò: "è solo una sua rappresentazione"...).

Un resoconto, un reportage di viaggio non può ambire a competere con un romanzo di viaggio nel modo e nell'intensità di rendere il dato emotivo.
Ed è importante -è bene ricordarlo- ed è così anche se non viene dichiarato esplicitamente. E' per questo che p.es. quando siamo immersi nella visione di un film, siamo coinvolti e ci sentiamo compartecipi, però anche in quei momenti di piena immedesimazione, restiamo in fondo in fondo consapevoli che si tratta di una finzione, di un "come se". E' come quando i bambini giocano: la realtà del giocare è spesso basata sul fare "come se". Ad es. si recita la parte di un personaggio, o ci si immedesima in un ruolo.
Nel caso di un diario, si tratta di un tentativo dichiarato di riferire come sono effettivamente accadute le cose. E proprio per questo mi sembra adatto ad un Corso su come avvengano, si sviluppino, i percorsi di conoscenza ed i loro correlati effetti di tipo formativo. Perché ne riferisce le realtà di fatto a livello del vissuto quotidiano.

Com'è che io ho conosciuto, almeno superficialmente, qualcosa del Perù? L'ho conosciuto esattamente così, andando per le strade delle Ande, e compiendo certe esperienze giorno per giorno.
Certe situazioni o accadimenti, o ambienti, o persone, mi hanno stimolato e mentre ne facevo esperienza con tutti i miei cinque sensi ben attivi, ho fatto i miei pensieri, ho avuto le mie associazioni di idee, e ho interagito con tutta la mia emotività, i miei sentimenti, la mia psiche complicata da tutti i suoi complessi irrisolti, la mia capacità di ragionare e di riflettere, la mia immaginazione che era sempre pronta a creare un ventaglio di scenari, ecc. ecc. ed è successo che alcuni elementi di quella esperienza li ho vissuti a mio modo, e li ricordo associati a quelle mie sensibilità e stati d'animo, ed hanno in qualche maniera e misura influenzato il mio animo, e la mia maturazione.


La conoscenza di quel mondo è avvenuta nella dimensione del vissuto quotidiano. Cioè in un modo che diviene abituale e in parte a volte consideriamo abbastanza banale, come sempre. Tutto può diventar banale, venire banalizzato (pensiamo al famoso testo di riflessione su "la banalità del male" scritto da Hannah Arendt addirittura a proposito di certe tragedie apocalittiche della Storia, e del Male assoluto). Molto può venir banalizzato semplicemente dalla quotidianità ripetitiva e routinaria di certe azioni e di certi eventi. Inoltre sappiamo bene che nel nostro mondo, nella dimensione fisica concreta, accade solo ciò che accade ed è accaduto, e non quello che avrebbe potuto accadere, anche se era molto probabile che accadesse...

Quindi un diario dice solo che quel tal giorno sono successe quelle cose, quegli eventi, che mi hanno comunicato quei certi input, o mi hanno attraversato e per vari motivi sembra non abbiano lasciato traccia, oppure li ho introiettati ed ora essi stanno sedimentando dentro di me e forse si tratta di semi che magari genereranno dei boccioli che si schiuderanno chissà quando, oppure sono cose a cui non ho dato rilievo, e che invece avevano un rilievo importante di cui mi accorgerò solo in futuro, oppure che sono rimaste incomplete e insoddisfatte, o che mi hanno disturbato e provocato in me una reazione di rigetto per cui per il momento li ho conculcati, eccetera…ecc.

Un viaggio richiede che si sappia osservare e accogliere, che si sappia riflettere e discriminare, richiede che si resti molto concentrati su ciò che si sta facendo e ricevendo, e che non ci si lasci semplicemente trasportare dal tempo che passa, vedendo senza guardare un paesaggio che scorre e se ne va dietro le spalle, non lasciarsi cionvolgere da eventi che non portano da nessuna parte o che non ci comunicano nulla. La prima cosa che un viaggiatore consapevole dovrebbe fare è ricordarsi che un viaggio è una interruzione della routine, e che in esso  è bene esercitare la propria capacità di osservazione per far fruttare quella occasione di conoscenza di un altro contesto. In un viaggio non bisogna mai lasciarsi distrarre dalle mille cose della giornata, e questo a "casa" lo facciamo tranquillamente, quindi mentre si è lontani non è facile ricordarsene.
 Ci fu un famoso diario di viaggio uscito alla "mia epoca" negli anni Settanta, intitolato "Lo Zen e la manutenzione della motocicletta" di Robert Pirsig,

in cui questo simpatico svedese che vive negli USA e si mette a fare con una coppia di suoi amici un grande giro per le stradine secondarie degli Stati Uniti, portando con sè il figlio, un ragazzino di undici anni. E gli vorrebbe insegnare, facendo questo viaggio, a saper osservare, ad esercitare e affinare uno sguardo critico ed auto-critico, a non lasciarsi sfuggire i piccoli dettagli che potrebbero essere significativi, oppure a non lasciarsi sfuggire una occasione … per attivare le proprie capacità ermeneutiche -direbbe l'amica Anita- quindi a formulare le proprie valutazioni e la propria interpretazione delle cose, dunque ad esprimersi, e lo pungola e sollecita continuamente in questo senso, rendendo partecipe il figlio delle proprie stesse osservazioni, e il ragazzino forse si stufa di questa presenza invadente del padre … Pirsig aveva tra l'altro questa ambizione, di educarlo a ciò a cui la scuola secondo lui non educa, a esercitare appunto le proprie capacità di osservazione.

D'altronde anche qualunque attività di ricerca nel campo delle scienze dell'educazione inizia dando i primi insegnamenti su che cosa significa osservazione, come si fa a praticarla e quali siano le più comuni metodologie, ad es. "osservazione partecipante" o "non-partecipante", eccetera, con le implicite conseguenze, non è facile, non è possibile improvvisare e bisogna fare molta pratica. Osservazione critica, cioè l'essere sempre rigorosi ed esigenti anche con sè stessi, per poter fare come san Tommaso che voleva toccare con mano prima di credere qualcosa e che non si trattiene dall'esprimere tutti i suoi interrogativi. Ma che sia critica anche verso i propri limiti, perché se anche l'osservazione è stata ben addestrata dal punto di vista "tecnico" ma nel soggetto è debole la consapevolezza del contesto in cui sta muovendosi e sta operando, nonché l'autocoscienza, allora i risultati saranno debolmente fondati e dubitabili. Inoltre anche nell'insegnamento delle metodologie della ricerca non è consigliabile perseguire una didattica che addestri quasi esclusivamente competenze e abilità (skills-based) rinunciando a curare la parte contenutistica fondata su conoscenze e approfondimenti culturali (knowledge-based). Questo anche perché persino quelle situazioni che si crede siano rette da leggi deterministiche, spesso ci riservano delle sorprese e rivelano di poter innescare sviluppi di fatto imprevedibili.


§. 2
A volte, nella scrittura di questo testo diaristico ho anche provato a cercare di vedere le cose come potrebbero apparire viste e vissute da un punto di vista esterno, diverso dal mio. Cioè non solo considerando le cose dalla mia ottica, ma da come potrebbe vedere le cose qualcuno che stia anche solo un poco più in là… o che le veda con un'ora in ritardo. Quindi sempre incentrandomi sul "se": e se fosse un altro a valutare? e se le cose avessero anche un valore differente? e se fosse intervenuto anche quest'altro elemento? ecc. Spesso succede nei viaggi, quando si arriva ad una mèta e ci si ritrova stanchi alla sera a commentare quella parte di percorso appena fatta, che ci si racconti a vicenda. E' questa d'altronde una pratica comune e che intesse tutta la vita nella dimensione del quotidiano, ci si incontra e si commenta qualcosa di accaduto, per confrontarci, per ripensare alle cose, per eventualmente rivedere le nostre valutazioni. Mi è capitato molto spesso di incontrarmi a chiacchierare con altri viaggiatori che in quello stesso giorno avevano fatto proprio lo stesso percorso mio, avevano visitato gli stessi luoghi, avevano visto gli stessi paesi e paesaggi, ma che stavano raccontando di un viaggio completamente diverso da quello che io avevo vissuto … e riportando impressioni e valutazioni agli antipodi delle mie. Come era possibile?
Sono tanti i motivi, dall'effetto tipo "Sliding Doors" (=porte scorrevoli),

per cui in quello stesso luogo è invece capitata una cosa che era probabile, cioè ad es che uno sia scivolato su una buccia di banana che stava su un gradino, dopodiché è cambiato tutto, sia nel presente che nell'avvenire… Così è pure nel film omonimo in cui la protagonista aveva poi assunto un altro atteggiamento, aveva maturato altri obiettivi e aspettative… ecc.
Oppure il motivo è che ognuno di noi è talmente carico appunto delle motivazioni che lo avevano spinto a fare questa esperienza, e della sensibilità che lo accompagna durate il percorso, che tutto viene da lui visto attraverso occhiali differenti. Il che è interessantissimo, poiché lui sta raccontando degli stessi luoghi come se avesse fatto un altro viaggio. Ed è verissimo, è così. A lui ha dato fastidio quello stesso locale che a me era piaciuto tanto,  e non ha notato cose che a me sembravano evidenti e viceversa, e comunque ha interagito in un altro modo a ciò che gli veniva incontro. Essendo diverse non solo le motivazioni e le aspettative, ma anche i sentimenti e le emotività che entrano in campo, e le capacità di osservazione, e anche il grado di egocentratura del soggetto (il che, se è marcato, a volte crea difficoltà a vedere l'Alterità nella sua dimensione specifica).
Ma è sempre molto utile e istruttivo questo confronto: ci fa prendere contatto con altri punti di vista e con altre modalità del vissuto. E ci fa ricordare i possibili sviluppi di una causa.

E poi c'è ancora qualcos'altro che è molto simile nel viaggiare in contesti lontani, e nella pratica quotidiana di conoscenza del proprio ambiente. Quando si giunge in un mondo Altro, c'è una prima fase in cui riesce difficile orientarsi nella situazione in cui si è calati, che non è più quella usuale. Succede che se non si mantiene ben attiva questa continua attenzione e concentrazione, se non si resta sempre consapevoli del fatto che facendo un viaggio ci stiamo anche mettendo alla prova in un contesto non usuale, finisce che ci lasciamo troppo trasportare, dagli eventi, dalla casualità degli incontri, e diventa gradualmente più difficile cominciare ad orientarci. Perché per far questo ci vuole pur una minima base di conoscenze (knowledge-based approach) su quel che si sta svolgendo attorno a noi, e in situazione, in loco, si mettono alla prova queste nostre conoscenze. Come sapete questo è il problema su cui si è a lungo arrovellato e confrontato il saggio Socrate, da quando ha preso coscienza del fatto che le sue conoscenze erano molto limitate e che lui desiderava conoscere quel che non conosceva, e dunque si è posto questo problema: come è possibile che si desideri ciò di cui non si sa nulla, che non si conosce? è una contraddizione in termini: che cosa desideri se non sai che cos'è? se non ne conosci neppure l'esistenza? Sappiamo per averne fatto a volte esperienza che solo dopo che avremo ampliato i nostri orizzonti di sapere ci renderemo conto a posteriori che ci sono cose e problematiche di cui non potevamo neppure sospettare il contenuto prima di aver acquisito certi prerequisiti minimi. Eppure questo anelito esiste, dunque perché dovremmo desiderare l'ignoto? che cos'è questo amore per il sapere (filo-sophia)? questo desiderio che non sa dire quale sia l'oggetto che vuole raggiungere e possedere. Questo vago sentimento di mancanza, senza poter dire di cosa? E' un po' un sofisma, cioè un ragionamento che si avvoltola attorno a sè stesso e che ci mostra certi limiti dell'umano sentire. 
Una prima risposta può essere che questa è comunque una dichiarazione di intenti da parte di chi non solo non si accontenta (quell'inquietudine di cui parlava sant'Agostino) ma anche vuole mettersi alla prova, vuole sperimentare, è disposto ad affrontare un'avventura verso il nuovo, vuole poter vedere… 
La filosofia, cioè la ricerca intellettuale e spirituale, come risveglio, come ri-volgimento, cioè rivolgersi a guardare altrove, oltre, in profondità. 
Bisognerebbe parlare del rapporto tra la motivazione che da la spinta a partire per un viaggio, e l'attrazione, il richiamo che un certo Paese rappresenta in un momento della propria vita. Si tratta dell'intreccio tra una analisi dell'aspetto motivazionale con un discorso di tipo teleologico.
Poi bisogna considerare il rapporto tra viaggiare nella dimensione dello spazio esterno e il viaggio di maturazione che le esperienze che si compiono ci fanno fare nella nostra interiorità, riflettendo e riconsiderando gli stimoli che abbiamo raccolto. E in questo caso -della scelta del Perù- ha molto inciso il fascino della dimensione del favoloso, del fantastico, che in particolare in un viaggio nei territori del popolo Quechua e della sua cultura, può rappresentare una componente importante sia della motivazione che dell'attrattiva.
Infine va accennato il fatto che un diario di viaggio non è da considerarsi solo un fine per un viaggiatore ma è prevalentemente un mezzo per il proprio perfezionamento interiore, il che si svolge in almeno tre tappe fondamentali, il prendere appunti, lo scrivere un testo leggibile da parte di un lettore (considerando inoltre che in quell'atto l'autore si rilegge dopo aver scritto), e infine il presentarlo/raccontarlo, tornando alla dimensione dell'oralità. E' un modo per venire incontro alle necessità di curare la propria autoformazione.

Socrate ricordava sempre nei suoi dialoghi  l'importanza del partire dal dubbio, lo ripeteva come un monito importante, e lo vedeva come un dubitare delle proprie certezze, dubitare della sicurezza di aver già tutto conosciuto, capito, di avere concluso ogni ricerca, di aver imparato e compreso il mondo, la vita. Per cui ricordava l'epigrafe dell'antico tempio di Delphi. "conosci te stesso!". Quindi innanzitutto dubita persino di conoscere te stesso…
Se solo pensiamo ai nuovi strordinari campi di ricerca che si sono aperti dinnanzi alla scienza nel corso del Novecento, e ancora in questi primi anni del secolo appena iniziato… possiamo ben renderci conto di quanto grande fosse l'impensabile ancora solo cent'anni fa (dalla relatività di spazio-tempo, alla fisica quantistica, alla scoperta del DNA, alla sequenziazione del genoma, allo scoperta dei poteri delle staminali, ai dilemmi della bioetica, all'enorme ampliamento delle conoscenze del microcosmo e lo studio della natura delle particelle subatomiche, alle neuroscienze eccetera, ecc.)
Quindi ricordava l'esortazione che era stata di Eraclito: "aspettati l'inatteso", che era in realtà più antica ancora, patrimonio della cultura arcaica. Anche questo sembra un sofisma perché è una contraddizione in termini, ma contiene una profonda verità. E' da prendere anche come una dichiarazione di intenti, in quanto ti dice in sostanza: ricordati sempre di essere pronto, di prestare attenzione, quindi si può perseguire appunto attraverso l'osservazione accurata, il non lasciarsi sfuggire i mille dettagli che potrebbero essere come dei segnali… 
E ci dice anche di essere consapevoli che non potrà tutto succedere esattamente proprio come ci aspettiamo che gli eventi accadano, c'è sempre un margine di incertezze, sopratutto in un contesto differente dal nostro. Quindi bisogna imparare a non assolutizzare le proprie convinzioni, e ad accogliere l'inaspettato, l'imprevedibile, ciò che è diverso da quel che ci immaginavamo. Per cui gli antichi saggi ed Eraclito ci spronavano ad essere pronti a riconoscerlo, il nuovo, il diverso, ad ascoltare il suo messaggio, a mantenere la mente aperta e ricettiva.


Sono tutti moniti ed esortazioni che valgono senz'altro per il viaggio, per il viaggiare, per l'andare a conoscere il Diverso, l'Alterità. Comunque l'imprevisto è qualcosa che in parte come viaggiatore  mi potevo anche figurare, che contiene elementi di ciò che posso riconoscere, che quindi mi consentono di riconoscere quel che potrei apprendere dalla novità, dalla diversità, ma che a volte non corrispondono del tutto all'immagine forse impropria che mi potevo esser fatto prima del contatto diretto esperienziale, ed è questo che mi permette di vedere la complessità. 

§.3
Qual'era la motivazione che mi aveva spinto a voler mettermi in viaggio verso le Ande peruviane? volevo conoscere la cultura -in senso antropologico culturale- cioè le modalità di relazione, le modalità di pensiero, degli indios delle Ande, degli indigeni andini. Anche perché avevo l'aspettativa che questa fosse molto diversa dalla cultura occidentale. Quindi mi interessava confrontarmi con questa cultura, rispecchiarmi nella diversità, entrare in contatto con una cultura che sembrava avere un "tasso" di diversità, di alterità, molto intenso, molto alto… Il modo (la via) più "semplice" e in qualche modo più rapida poteva essere di andare a leggere e studiare i testi che ne trattavano, cosa che comunque ho fatto a livello preparatorio. Questo lavoro preliminare era inteso proprio a cercare di rispondere all'interrogativo socratico, come puoi esser sicuro che ti importi conoscere cose che ora non conosci, se non ne conosci almeno un minimo… ?
Così mi sono preparato, di modo che ero più pronto a capire meglio e più in profondità, e che ci fosse meno "inatteso" da aspettarsi, e quindi poi dovevo andare a verificare.


E in effetti al termine di quel viaggio sulle Ande (cui poi ne seguiranno altri due, e comunque altre modalità di esperienze dirette) ho constatato che quel che mi aveva arricchito interiormente erano state esperienze che non avrei potuto fare con un approccio solo libresco. Quindi quel minimo (essendo state solo cognizioni di tipo teoretico e intellettivo) era stato necessario ma non sufficiente. Non sufficiente perché non è del tutto vero che ci sia un margine minore di "inatteso", non è del tutto vero che acquisendo le cognizioni vagliate da esperti della materia, conosci intimamente quelle problematiche e quelle impostazioni culturali e spirituali. Ad esempio voi studiate Pedagogia ma se non avete esperienza dell'infanzia, cioè dello stare, del vivere in relazione stretta con concrete persone in età infantile con i loro modi di esprimere le loro specifiche problematiche, allora il vostro percorso di formazione è monco, insufficiente. E non si tratta solo di fare un tirocinio per mettere in atto delle metodologie. Mi pare di vedere che tra di voi ci sono forse anche delle madri, che avranno di certo già ben intuito la portata di questa problematica. Quindi si tratta di altro rispetto a nozioni e teorie, si tratta di esperienze di vita.
I più antichi che hanno impartito questa lezione sono stati i grandi saggi della prima civiltà Sindh della valle dell'Indo, poi sanscrita e vedica, infine scritte nelle Upanishad: cioè che c'è differenza tra sapere, conoscere, capire, e comprendere (cfr. il post del 26.4.14 sul mio blog).
Non è dunque un caso, né è irrilevante, che ci siano dei significanti differenti, perché il significato, il portato di significati che essi veicolano è diverso, è differente. Dunque andando indietro ai tempi più antichi e primordiali (c'è ancora tanto per noi da imparare dal passato anche remoto) quando l'unica forma di educazione che era da sempre esistita era quella della iniziazione, cioè un percorso che procede per tappe, per stadi, anche attraverso prove da superare, con riti e cerimonie che costellavano questo processo di sviluppo nel tempo attraverso esperienze formative, mostrava di avere sue specifiche sequenze. Esso va gradualmente sempre più approfondendosi e coniugando esperienze pratiche con insegnamenti e commenti e accompagnamenti, fino a che si diventa un "iniziato", cioè uno che è stato già iniziato, che ha completato un percorso iniziatico. L'iniziato è partito da un sapere teorico-pratico, per poi andare verso qualcosa di più pieno e completo del solo sapere, cioè una pratica consapevole,  per aver conosciuto quel che era da conoscere e poi capito il senso di ciò che gli è stato trasmesso, e averlo compreso (da cum-prehendo, prendo con me) cioè avendo fatto proprio, o interiorizzato, un complesso sistema culturale con la sua Weltanschauung, ovvero visione del mondo e della vita, o anche cosmovisione.
Si vedano su questo tema anche libri di autori andini come ad es. Ponce de Leòn Paiva, "Amaru - dalla conoscenza alla saggezza" (titolo originale "En busca del anciano" = "alla ricerca del vecchio saggio"), e "Nina Soncco- cuore di fuoco" (tit. or. "Y…el anciano hablò" = "e il vecchio parlò"). In quest'ultimo si legge: "L'iniziazione non è un rituale o una formula, bensì uno stato di coscienza, e ha la sua realizzazione attraverso il servizio (Ayni), che è uno degli atti fondamentali che unisce coloro che si preoccupano per il futuro dell'umanità".




L'entrata in un contesto socio-culturale radicalmente estraneo, è alla lontana un pochino comparabile all'ingresso di un bimbo nel mondo, in un mondo del tutto diverso da quello del grembo materno, e che è difficile da interpretare e capire. Ci vorrà del tempo per imparare a divenire un cucciolo d'uomo nel pieno senso del termine… la nostra dotazione istintuale non ci è sufficiente (questa è la fondamentale caratteristica della nostra specie). Tanto più è piccolo e neo-nato, tanto più il suo sforzo è immenso, perché infiniti sono gli imputs di colori, di forme indistinte e di miliardi di pixel, di rumori e suoni, ecc. che ancora deve apprendere a decifrare e da cui si distrae molto facilmente. Ci impiegherà tantissimo a identificare delle forme, a capire che tutto ciò è altro da sè, e poi arrivare a assimilare quell'approccio a cose, persone e eventi che è tipico della cultura in cui gli è capitato di nascere.

Si diviene pienamente membri di una comunità umana quando si è assimilata la cultura del gruppo, i modi di comportarsi, relazionarsi, di comunicare, ecc. La condivisione di una cultura la puoi raggiungere soltanto con la diretta compartecipazione carnale, fisica, verbale, comportamentale, che si può avere solo integrandosi in una realtà e non certo soltanto studiando un libro, sia esso un ottimo manuale, un approfondito testo di saggistica, persino un affascinante romanzo, che può dunque far provare emozioni e farti immedesimare nel personaggio principale, ma non sarà mai come essere il protagonista di vicende vissute.


Ecco per es. se guardate la foto di quella pastorella di montagna che è fuori con il suo gregge (v. p. 186) potete già cogliere cose che con un testo scritto (se non di un grande romanziere) non è possibile trasmettere, e nemmeno con la comunicazione orale possono essere còlte del tutto. Mentre invece fermare l'auto e poi scendere intrattenendo un breve ma emozionante contatto diretto, ed essere lì in situazione, sentire la puzza delle pecore, l'arietta tersa e pulita, e poi entrare nella sua capanna (v. foto p.190) con il suolo di terra nuda e sporca, l'aria un po' viziata e soffocante, al buio, e percepire "a pelle" quel che può significare quel suo sorrisetto imbarazzato e sbarazzino … (cfr. p. 50 del Diario; e v. foto anche in http://viaggiareperculture.blogspot.it/2015/01/con-lo-sguardo-del-condor.html ).

Questo diario dunque avrebbe (se io ne avessi le capacità) l'estrema ambizione di poter fare da specchio a quello che è un processo di conoscenza. Quel grande sforzo di interpretazione cui accennavo prima riguardo ad un piccolo appena venuto al mondo, è poi ciò che in misura certo molto meno drammatica compiamo tutti ogni giorno, e che compie chi si ritrova lontano dal proprio contesto a cercare di ambientarsi in un contesto altro. Anche in un viaggio nell'altrove avviene nella dimensione dilatata della quotidianità, avviene nell'ambito della casualità, mettendo alla prova tutti i suoi cinque sensi (dalla vista all'udito, dall'olfatto al gusto, e allo stesso tatto). Ma a volte non bastano, ci vuole anche il "sesto", cioè l'intuito, l'intuizione, la capacità di provare a cògliere il senso di certi atti, provare, osare compiere degli errori …

Avendo aperte tutte le Porte della Percezione (da the Doors of Perception in cui W.Blake diceva: "se le porte della percezione venissero purificate, tutto apparirebbe all'Uomo come è: infinito") bisognerà percorrere le vie della conoscenza (Roads of Knowledge, o Caminos del Conocimiento) e restare fattivamente, concretamente on the road abbastanza svegli e attenti da cogliere sia le tracce materiali e tangibili di una cultura, che i segnali immateriali e intangibili di essa, senza perdersi anche se il sentiero si addentra in una foresta di simboli...
Entro una certa misura dunque si fa la stessa cosa che fa un infante. Se non si sa tornare bambini e non ci si accorge di star mettendo in atto il processo di conoscenza, semplicemente ci si guarda attorno o si osserva dal finestrino dell'auto, facendo come se si guardasse da una finestra o si guardasse la televisione o lo schermo su cui si sta proiettando un film, o in un video in internet sul computer.
Ecco quindi che si cercano di riportare alla nostra attenzione e ricordare le cose e gli eventi proprio come sono accaduti. E così pian pianino con molta fatica, lentamente, con le varie attenzioni, metodologie, associazioni mentali, comparazioni, riflessioni eccetera, si arriva ad acquisire un certo grado di interpretazione e di comprensione del mondo nuovo in cui ci si trova. 



Cioè di quella cultura "lontana", "distante". La quale non è soltanto composta di cultura materiale, tangibile, fatta di oggetti, abiti, attrezzi, architetture, e elementi vari (la coscienza oggettivata), ma è appunto in gran parte quel mondo immateriale, intangibile, delle varie comunità umane che permette ai suoi membri di vivere in un certo modo le proprie esperienze e le proprie sensazioni ad esse correlate. Il che è un aspetto importante per la scienze dell'educazione e della formazione, dato che più che altro si impara dall'esperienza, anzi si dice che si impara veramente qualcosa solo dall'esperienza fatta di quella "cosa" o situazione, o evento, o personaggio…, ciò che abbiamo imparato per esperienza difficilmente lo dimenticheremo. E magari se si tratta di un evento che ti ha segnato fisicamente, allora si constaterà come il corpo, se è stato colpito,  abbia in molti casi una memoria indelebile poiché il segno divenuto tangibile -ad es una cicatrice profonda-, non si cancella. Egualmente si può dire per la psiche quando una esperienza ti ha segnato forse per sempre, per cui essa si chiama trauma, e da luogo a complessi problematici inestricabili.
Comunque esprime delle verità importanti il proverbio secondo cui "non è dalla scuola, quanto dalle lezioni dell' esperienza che si impara per la vita", altrimenti detto: "Non è a scuola che si impara per la vita, ma lungo la strada della scuola" (rovesciamento del detto di Seneca: non vitae sec scholae discimus). Ma data la centralità oggi della istituzione scolastica come luogo dell'apprendimento, come introduzione al mondo della conoscenza, il laboratorio-scuola dovrebbe essere più attento a curare lo sviluppo delle abilità metacognitive, facendo leva sull'elemento esperienziale e anche ludico dell'approccio alle conoscenze.

Ma -a parte il confronto con la scuola- a ben ponderare sulla affermazione diffusa per cui "si impara solo dall' esperienza",  direi anche in questo caso che è una affermazione apodittica che non è poi del tutto veritiera. Non è del tutto vero perché dipende molto da come vivi quell'esperienza, dal tuo specifico vissuto. Dicevo poc'anzi che in certi casi si constata che anche chi avesse fatto in quello stesso giorno lo stesso viaggio compiuto da me, ha fatto un altro viaggio, il suo. E ciò non solo perché si tratta di altra persona con altro carattere, psicologia, temperamento, eccetera, dato che se volessi verificare quelle osservazioni e quelle impressioni da lui avute in modo così diverso, e ripercorressi un domani quello stesso segmento di spazio, anche io stesso farei un altro viaggio. Tutto dipende da come vivi, o rivivi, quel contesto esperienziale.
Quindi si impara dall'esperienza nella misura e nell'àmbito dell'esperìto (the experienced). Cioè di quella qualità impalpabile, quel quid che è difficile da definire, che chiamiamo correntemente "il vissuto". Concetto introdotto da W. Dilthey (1894) con il termine tedesco di Erlebnis (v. sub vocem in U.Galimberti, Dizionario di psicologia, Utet, 1992). Il vocabolo è stato poi utilizzato nella Daseinanalyse in particolare da E. Minkowski nel volume "Il tempo vissuto" (le temps vécu) del 1933, e nell'espressione "lo spazio vissuto", e da L. Binswanger.  Come concetto lo si può rintracciare anche in Jaspers e Husserl. (per approfondire si vedano autori come P.Jedlowski, W.Benjamin, E.Spranger, A.Gehlen,  A.Valleriani, M.Dallari,  A.Erbetta, …).
Lo si può definire l'insieme degli eventi (e dei loro personaggi e agenti) che costituiscono la "storia interiore" di un individuo, così come egli li ha percepiti. E' quanto si è sperimentato, e che conserva una sua presenza attuale nella coscienza, ed è tutto ciò cui si è partecipato in modo personale e diretto (definizioni -da me leggermente ritoccate- tratte dal Vocabolario della Encicl. It. Treccani, vol, IV, Roma, 1994, sub vocem). Scriveva Minkowski: "(…) questa tendenza sintetica portava progressivamente alla convinzione che (…) bisognava tener conto, non tanto di questo o di quel sintomo, quanto di tutto il modo di essere [del soggetto] in rapporto alla realtà-ambiente" (Il tempo vissuto, tr.it., 2011, RCS, p.72). Cioè quel modo di quel soggetto, che è tutto suo, specifico, singolare, individuale, di essersi relazionato con l'ambiente, e con la propria capacità e qualità di intendere e elaborare le esperienze. Si dice che vi sarebbero dieci o più qualità o tipologie di intelligenza (vedi Introduzione), e dunque molteplici (o incommensurabili) varianti di "vissuto". Ma non solo con l'intelligere e il rielaborare (ora ci si esprimerebbe col neologismo "processare"), anche con il concorso dell'emotività, la reattività, i sentimenti, quel che si è provato con l'epidermide, coi sensi, con la consonanza della propria psiche, con tutto quanto vorremo considerare di mettere in "campo" (nell'accezione di Kurt Lewin). Anche perché in quel "momento" (il kairòs greco) il soggetto per una infinità di coincidenze era in quella tale "disposizione d'animo", o umore (in inglese mood) anziché in altra, quindi variamente predisposto o disposto.

Anche a partire solo da queste constatazioni e riflessioni, si può concludere che la conoscenza è eminentemente "interpretazione", hermeneusis (o hermeneia), il processo mediante il quale si conferisce un senso agli eventi e alle cose, e ci si "da una ragione" o spiegazione. Di "oggettivo" in senso assoluto, non è che ci sia gran ché più che una base, uno sbiadito forse evanescente fondamento su cui si costruisce una intera struttura. 
Sfogliavo proprio l'altro giorno un libro di Alain Berthoz su "La vicarianza - il nostro cervello creatore di mondi" (2013, tr.it. Codice ediz., Torino, 2015), in cui si dice in sostanza che la mente "gioca" a creare continuamente immagini, per cui ha la capacità sempre di prendere in considerazione altre possibili interpretazioni delle cose e del mondo, un'altra immagine, un altro vissuto (magari non effettuatosi), un altro punto di vista, non solo ipotetico ma anche fantastico … e confrontarlo col proprio vissuto. Forse il termine "mondi" si potrebbe intendere nell'accezione di "scenari".

Un viaggio in fondo che cos'è? si è sempre trovato che questo termine viaggio potesse fungere molto bene come metafora della vita stessa, il viaggio della vita, e la vita è un viaggio… 
Durante un viaggio vengono stimolati molti elementi che concorrono a far conoscere come stanno le cose in "mondi" diversi, qual'è la modalità di ordinarle, qual'è la ratio, il logos che è loro immanente o sottesa. 
Naturalmente si resta condizionati dalla cultura di cui si è parte. Difficilmente si riesce a rendersi conto di quanto siamo condizionati dalla società, in primo luogo dalla lingua stessa in cui pensiamo, e dai processi formativi che ci hanno plasmati, ecc., è praticamente impossibile fare tabula rasa di tutta questa eredità, come desiderava fare Cartesio. Alcuni anni fa il saggio indiano Jiddhu Krishnamurti diceva "liberati dal conosciuto!", ancor più: "conosci per liberarti dal conosciuto", nel suo libro del 1969 "Freedom from the Known". Scegliti una guida, un accompagnatore, un assistente (guide, cocher, healer), essendo tu il protagonista di questa eroica impresa e l'altro solo un aiutante, un "facilitatore". Scegliti quello che saprà ritirarsi quando avrà constatato che non hai più bisogno di lui. Queste esortazioni ci ricordano nella storia della nostra cultura altre simili, come "aiutami ad imparare" della Montessori, o il latino "sapere aude" ripreso da Comenio, o l'imperativo categorico kantiano: "abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza", o come si esprimeva Nietzsche: "diventa ciò che sei". 
Siamo certamente pesantemente condizionati, sopratutto da ciò che riteniamo ovvio, scontato, non degno di analisi … su cui dunque non ci fermiamo mai a riflettere, e che invece stabilisce le basi, il basamento di tutta quella costruzione che potremmo chiamare il nostro paradigma culturale. Un paradigma è un insieme di tutti quei pensieri, idee, convinzioni, credenze, ma anche dubbi, interrogativi, modalità di approccio alle cose, eccetera ecc. che ci derivano da un fondamento di cui siamo generalmente troppo poco consapevoli, e che ci fissa i parametri entro cui stare. (Educazione o condizionamento? ci si chiedeva negli aa.'70, si veda il testo a c.di E.Gelpi, 1969, 1973).

Questo viaggio dentro alla cultura andina aveva anche questo obiettivo forse utopico di provare a vedere se si trovava in quel mondo antico e ora in rinascita un altro paradigma, fose alternativo al "nostro". Cercare dunque di andare a incontrare un'altra cultura, che come accennavo poc'anzi significa non solo altri costumi, altre vesti, altre attrezzature per la quotidianità, altra cultura materiale, ma che è anche tutto ciò che sta nella mente di ciascuno, da quando è nato ed è stato instradato, e ha poi affrontato le età dell'uomo in un certo modo particolare.
Per cui anche tutto il patrimonio di narrazioni, da quelle simboleggiate nei riti, ai canti delle cerimonie, quindi durante i giorni festivi o sacri,  a quelle che impregnano in ogni momento la vita di ogni giorno feriale, innanzitutto espresse in quelle "Forme semplici" (Einfache Formen) che A. Jolles analizzò nel 1929 (trad.it. Mursia, 1980).  Che sono presenti in ogni cultura, società e civiltà umana, cioè i miti, che raccontano le credenze, correlate da tutte le leggende sacre, e anche le leggende profane, e le fiabe tradizionali, nonché i casi memorabili da ricordare come modelli di riferimento, i proverbi, le sentenze e i "detti", gli indovinelli e gli enigmi dei responsi e anche dei sogni, persino le "battute" e le "barzellette", eccetera. Tali "Forme" universali dai più vari contenuti,  raccontano il mondo e la vita umana, e sono estremamente significative per quanto possano essere -o apparire-  semplici (ma Jolles intendeva dire elementari, di base).


E' anche di queste "narrazioni" che andavo "a caccia" durante il viaggio, come avete potuto leggere in quella ventina di "finestre - intervalli" (e non solo) incastonate nel testo, in cui ho riportato appunto fiabe, leggende, canzoni, ricostruzioni di antichi riti e cerimonie, eccetera.






Un diario infine si riferisce anche a un itinerario, un percorso, che vorrebbe essere quello più significativo per accrescere le nostre conoscenze di quel mondo, ma non sempre tutto va come si pensava prima di partire… perciò c'è dell'avventura ...

§. 4
Ma forse ora farei un intervallo, ho parlato troppo, ed è bene dare spazio alle domande.

[studentessa: …e poi al ritorno…? ]
Già, uno pensa, "che bello: ritorno nel conosciuto…!" (per parafrasare la frase citata prima), dopo che ho così faticato per liberarmi dal conosciuto… e scrollarmelo di dosso… Però in effetti continuavo ad avercela addosso quella scimmietta sulla schiena [allusione a un romanzo di W.Borroughs del 1953, tr.it. 1962], … e però se ritorno al conosciuto mi rilasso… finalmente. In effetti è rilassante riprendere la via abituale, ritrovo la razionalità consueta del mio mondo, le cose tornano tutte al loro posto, … 
Invece non è solo così. E' anche così. Sono pienamente d'accordo con Platone quando insiste nel "Filebo" a sostenere che Socrate riteneva che tutto è misto ed è nel misto che confluisce la determinazione del reale. L'identità e la diversità «è mescolata nella fusione» (en té kràsei memeìchthai). Cioè riteneva che la natura della Natura (per esprimermi come Edgard Morin), l'essenza più profonda e primigenia del Tutto, dell'universo, è la mescolanza. Tutte le cose sono interconnesse e interdipendenti, ma ancor più: tutte le stesse Forme-matrici sono mescolate assieme. (Si pensi ad es. alle staminali totipotenti, o ai "quanti" subatomici che sono vibrazioni e particelle al contempo). Già circolava questo pensiero in Oriente sin dai tempi di Lao Tse e della visione di yin / yang, luce / ombra che hanno origine reciproca. Visione forse derivata dal Vedanta. Non c'è nulla di assoluto in questa nostra dimensione fisica. Le idee assolute sono una speculazione teoretica, Platone stesso diceva che stanno nella dimensione meta-fisica dell' iperuranio, non sono del nostro mondo. 


La Via Maestra, il Cammino Reale andino (in quechua: Qhapaq ñan, o Inti ñan), intesi non tanto come sentieri fisici, ma simbolici di un percorso di iniziazione, di un cammino solare, è quella della accettazione e comprensione dell'intreccio sostanziale e della complessità di tutte le cose.


Anche nel nostro caso, del viaggio verso, e del ritorno, in effetti è una realtà è molto mista; perché il Ritorno, oltre al ritrovarsi a casa, è anche una sorpresa ed è anche doloroso… Dopo un primo momento mi sorprendo ad essere divenuto diverso da quando ero partito, e quindi mi scopro a non vedermi più con quello stesso sguardo, a non vedere le cose che sto vedendo con lo stesso occhio. Consatato che ho impressioni differenti, che istituisco dei paragoni, delle comparazioni (ad es. sull'ordine, la pulizia, la regolamentazione, la logica dei discorsi …), assumo dei riferimenti che prima non potevo prendere perché non li conoscevo … Sto parlando ad es. delle priorità sul piano anche morale, spirituale, sentimentale, … E quindi il rientro è (in parte) faticoso anch'esso pur essendo confortante per certi aspetti. Ne accenno nel Diario dove, lo vedrete, ho seguito la traccia di J.Campbell per dare un senso a questi disparati elementi.

Cioè lo staccarci (Departure o Separation) dal contesto in cui abbiamo imparato a saperci muovere, per il quale bisogna avere una forte motivazione che ci dia la spinta e anche un obiettivo che ci attiri (Call to Adventure); e quindi decidere di metterci in movimento (e questa è forse la Prova più difficile cui si deve sottostare in questa iniziazione); poi dopo la partenza, lasciato il conosciuto, c'è l'arrivo a destinazione, siamo sulla soglia del mondo sconosciuto; quindi si apre la Porta, si attraversa la soglia e si entra sul palcoscenico e vedi che a teatro hanno cambiato la scena e i personaggi, e forse non sai nemmeno che commedia si stia per svolgere, e rimani sconcertato (cioè ti senti fuori dal coro, come dicevano i greci); per cui poi segue un percorso con una serie di Prove (Trials); e infine giunge il tempo del Ritorno. Ecco è così che mi sono riferito a Campbell come indicatore di una traccia, di un sentiero (che non vorremmo vedere interrotto nel bel mezzo di una selva oscura … cfr. il titolo dell'opera di Heidegger, Holzwege, 1950) da seguire come un "gentile pedagogo" nel percorso di riscrittura del Diario.

Campbell fu un grande studioso americano di mitologie comparate, morto nel 1987, che ha appunto individuato le varie tappe o stadi di iniziazione dell' archetipico "Viaggio dell'Eroe" (The Hero's Journey). E l'ultimo stadio, evidentemente, è il Ritorno. Si tratta di un atto di volontà (tipo quelli analizzati da R.Assagioli, il fondatore della psicosintesi) che viene preso in esame nel modello di Campbell (vedi nel volume l'intermezzo n.6, a p. 170, e su J.Campbell sto scrivendo un libro, "La Forza del Mito" che spero di terminare per l'anno prossimo ).

Ma l'ultimissimo atto potrebbe essere poi questo odierno, cioè dopo il ritorno al punto di partenza, ritornare ulteriormente col pensiero al luogo da cui si è venuti, e se ti sei annotato degli appunti, rileggerli e render di nuovo vicino il lontano, e così riviverli. Ma rivivere col ricordo (che è l'unico modo reale di "rivivere") è comunque diverso dal vivere le esperienze in quel momento, non è un duplicato, una copia, né è come si facesse scorrere all'indietro una pellicola di un filmato...
E a quel punto scrivere il Diario. E poi dopo magari parlarne con chi l'ha letto, oppure -come ora- parlare del proprio Diario scritto e riscritto per introdurvi qualche potenziale lettore.



Questo in effetti è il vero ultimo Atto, che da senso alla scrittura (perché se no per quale motivo dovrei mettermi a scrivere il diario?). Ma questo lo sapevo già prima. Ma anche questa affermazione sulla dotazione di senso non è del tutto vera, o meglio contiene una verità ma non è esaustiva: poiché un senso lo ha lo stesso, in quanto già mettendosi a ripensare per scrivere, riconsideri le cose e di fatto stai prendendoti cura della tua auto-formazione (ed è in realtà questa l'ultimissima tappa del percorso di Campbell).


 Ma a parte un diario di viaggio, quanto sto dicendo vale per qualsiasi evenienza, ad es. dopo una storia d'amore vuoi andare a rivedere il tuo diario intimo o comunque ti metti a ripassarla tutta la vicenda nel suo svolgimento, e alla fine forse soltanto a quel punto, ri-vedendola a distanza, la puoi rivedere, cioè modificarne il senso nell'atto di rimembranza. 
E quindi l'ultimo Atto è proprio questa fase qua, di questo hic et nunc, cioé il comunicare -se sei convinto che ci sia qualcosa che meriti di essere comunicata-, ed ecco allora vieni e sei qua a parlarne…
Il rientrare nella caverna, nell'aula, o nella sala conferenze, tornare tra i propri simili e raccontare di quell'altro mondo in cui sei stato, ma nel linguaggio e con le modalità appropriate per il nostro (e forse così ti illudi -come dice Campbell- di padroneggiare i due mondi, un Eroe dei due Mondi…!).

[domanda di un'altra studentessa, che però non riesco a decifrare dalla registrazione, su quanto tempo è trascorso tra il ritorno e il Diario]
In realtà, come puoi notare dalle date, sono ora passati più di undici anni da quando ho effettuato quel viaggio e ho poi scritto il diario ricavandolo dagli appunti. Sette anni dopo il ritorno, l'ho "postato" come si dice, sul mio Blog. Ora l'ho rivisitato in occasione della sua stampa. Quindi la rilettura e la parziale riscrittura è stata molto successiva. Non avrei mai nemmeno immaginato allora che qualcun altro -se non i famigliari e gli amici- lo avrebbe letto. E non credevo che sarebbe stato stampato, se non fosse stato per l'amica Anita che ha insistito dicendo che ne valeva la pena. E quindi per rispondere alla domanda, è stato un evento molto successivo. Proprio perché c'è stata una così grande distanza ho visto che per me è stato molto importante rileggere, e rileggere, e rileggere questo mio stesso diario in anni diversi. Ogni volta che lo rileggevo era una esperienza diversa. Prima di tutto scriverlo in modo leggibile circa un paio di mesi dopo il ritorno, perché avevo preso degli appunti mentre andavamo in auto per quelle piste di terra sconnesse, e ho faticato a decifrare che cosa mi ero voluto appuntare. Poi riscriverlo per il Blog, perché a quel punto erano passati anni e allora ho dovuto ri-immaginarmi in quella situazione ma con le distorsioni operate dal ricordo. Comunque ritornare indietro è stato un bell'esercizio di memoria, perché sarebbe stato un peccato se avessi lasciato scorrere via nella corrente del fiume Lete tutte quelle cose… ma dopo vari eventi che avevo passato nel frattempo, mi è stata utile quella fatica di ricollegamento. E quindi il primo lettore del testo caricato sul Blog sono stato io stesso che me lo sono riletto. E' stato l'esercizio culmine di una serie di esercizi "spirituali" (riferendomi alle mie individuali ricerche lungo un tortuoso sentiero personale, e non a una pratica di qualche istituzione religiosa) ed è stato importante per un mio processo di revisione, perché in fondo era proprio uno dei motivi del viaggio. Il primo era stato il desiderio di incontrare un'altra cultura e mettermi alla prova, come ho già accennato, ma il secondo, anzi scusate questo che ho detto era il secondo, mentre il primo era fare delle esperienze che mi avrebbero permesso di conoscere meglio me stesso. In effetti mi sono alcune volte sorpreso di come mi sono relazionato, di come ho reagito a certe situazioni, e ho potuto dedicarmi poi a riflettere su quei sommovimenti interiori che hanno causato e accompagnato certi atti… o in certe situazioni o in rapporto a persone, così differenti dal solito contesto sociale che mi è usuale, e ho potuto constatare che pur non essendone consapevole avevo in realtà certi preconcetti, e insomma così mi sono conosciuto meglio e ho potuto poi cercare di cambiarmi un poco. Penso di aver fatto un passo qualitativo valido nella mia crescita personale.
Ci sono almeno tre fasi che per me sono state importanti nella scrittura del Diario di viaggio. La prima è quella di prendere appunti in situazione, perché altrimenti la memoria poi dopo un certo tempo quando sei ritornato a casa, potrebbe facilmente giocare scherzi. E' molto importante prendere degli appunti sul momento, non più tardi della sera stessa, meglio se proprio iappena ti vengono in mente, per cogliere freschi certi pensieri e associazioni di idee, senzsazioni, emozioni… Io metto giù questi scarabocchi che poi a volte trovo illeggibili una volta tornato a casa, di quello che mi sembra che sia importante e di quello che mi pare dia il senso a ciò che sto facendo, quindi anche delle suggestioni. 
Poi c'è una seconda fase che invece si svolge dopo essere tornato, che è quella di fare da questi appunti e note un diario, scriverlo in modo sensato e rimanendo fedele alle annotazioni, che dunque sono utilissime per rinfrescare le immagini che hai ancora nella mente. Che cosa vuol dire scrivere un diario?, vuol dire comunicare, cioè vuol dire che deve essere leggibile. Non è come il diario intimo della ragazzina che scrive per sè, ma è scrivere per un lettore, quindi per uno che è un'altra persona, non lo si scrive solo per quel che può valere per me stesso. La seconda fase quindi è quella di ri-scrivere quel che c'è negli appunti, e farlo diventare un testo fruibile.
Poi c'è una terza fase che può venire in seguito dopo del tempo. Per quanto mi riguarda io ho innanzi tutto messo quel che ho scritto sul mio Blog, poi è stato letto e notato da qualcuno. Quindi questa fase può iniziare più tardi se poi viene stampato (come in questo caso) e diviene un prodotto-libro che circola. Per cui in una terza fase si ritorna all'oralità. Che è quel che sto facendo ad es. in questo momento. Quindi comunicare a voce, raccontare di questo Diario, senza scendere magari troppo nei particolari, ma per comunicare sensazioni, per stimolare. E l'ultimissima fase sia nelle fiabe analizzate da Propp, che nei miti studiati da Campbell, la fase finale che è essenziale, è proprio questa.
 In realtà alcune di queste cose già le sapevo dato che quello non era stato certo il mio primo viaggio nell'Altrove, nell'Alterità. 

[richiesta di uno studente: quali altri viaggi aveva fatto?]
Molti, in paesi di tutti e cinque i continenti (vedi http://viaggiareperculture.blogspot.it/2011/07/mi-e-piaciuto-viaggiare-di-qua-e-di-la.html ). Sì, già altre volte avevo fatto viaggi in paesi lontani e diversi dall'Europa, e avevo scritto diari (non sempre; purtroppo in molti casi non ho scritto). E appunto mi era piaciuto molto questo esercizio di messa alla prova, e poi di scrittura, e ho continuato a praticarlo. Questi diari sono sparsi un po' sul mio Blog: viaggiareperculture.blogspot.it  che ho iniziato nel luglio 2011.

[anche Anita Gramigna mi pone una domanda, ma a quel punto io tuttavia mi sento stanco anche per la scarsa areazione della grande aula affollata, e purtroppo non mi sento in grado di rispondere come avrebbe meritato, dato che si trattava di tematiche interessanti e impegnative.  Rinvio dunque all'Introduzione, in particolare al suo §.2 ]

Mi riprendo dopo un sorso d'acqua.

[una studentessa vorrebbe sapere di che cosa si parlava negli incontri con le persone del luogo ]
In molti casi ho avuto occasioni di passare del tempo insieme a delle persone, dei nativi andini … persone assai semplici, che in molti casi vivono isolati nel silenzio, in paesaggi amplissimi e disabitati.

Per es. stando assieme a dei ragazzini, dei bambini, come questi di cui sto mostrando una foto, abitanti di alta montagna (lì siamo sui 3.551 metri di altitudine), con cui ho trascorso alcune giornate, durante le quali certi erano molto laconici, o parchi di parole, o addirittura come muti …


o come ad es. l'uomo qui sotto ritratto nel sottoscala (che è proprio quello da cui Ghila ha preso spunto e ispirazione per il suo immaginario, nel bel racconto a pp. 178-180), o altri. Tra l'altro, come avete visto, essendomi sentito in mancanza per non aver saputo scrivere nemmeno un breve pezzo in forma letteraria, ho sollecitato mia figlia a ripetere quel che già aveva fatto per il diario di viaggio sulle Ande ecuadoreñe cui aveva partecipato. Quindi in uno di quei racconti compare anche questo personaggio, che come si intravede ha sotto la guancia sempre il suo bolo di foglie di coca, che mastica incessantemente, e che è giunto su al villaggio dove eravamo, a piedi dopo due o tre giorni di camminata si è fatto quella ripida salita, per cercare una soluzione al fatto che aveva un forte mal di denti, e sperava che lì qualcuno lo avrebbe assistito. Non ha detto assolutamente nessuna altra parola mai, se non appena arrivato quando ha chiesto di padre Lino: "¿Donde està el padre? ¡ me duelen los dientes!".
Ma era sorridente e cordiale pur senza aprir bocca.

Comunque con alcune di queste persone ho avuto, anche in alcuni casi di quasi totale silenzio (forse per il fatto che non sapevano lo spagnolo, o per loro timidezza, o per un senso di rispetto), uno scambio e una comunicazione intensa, fatta di emozioni, di intese, di sguardi, di sorrisi, di cenni, di epidermica sensibilità, in cose che abbiamo fatto passeggiando, o mangiando, o condividendo il freddo che sopraggiunge alla sera, ed entrando nelle loro casupole.
Si diceva nell'antichità che gli occhi siano i messaggeri della psyche, oppure anche che il volto sia specchio dell' animo  umano (così scriveva l'acuto fisionomista Gianbattista Della Porta, 1535-1615), mi son chiesto se la comunicazione delle espressioni facciali sia basata su convenzioni specifiche ovvero endogene ad ogni cultura, e quindi, per dirla con Basil Bernstein, un codice ristretto (restricted code) a livello etnico, oppure se sia -almeno per certe espressioni- universale, una forma di comunicazione ereditata, e anche forse elaborata in modo fondamentalmente condiviso da tutta l'umanità (elaborated code). Da un lato vi sono segnali, come p.es. spostare il capo da una parte all'altra, che in certe culture sta a significare assenso mentre da noi è sintomo di dissenso ... ma indubbiamente guardandosi in volto ci si scambiano molte informazioni essenziali, e autentiche, ovvero come dice Sepùlveda: "il viso non mente"...
Queste esperienze vissute sono state molto significative, e anche una grande lezione per me.



§. 5
Per finire vi consiglio di leggere con attenzione la Parte prima, lasciando stare la seconda, e prestando una particolare attenzione alle pagg. 36, 39-40, 43-47, 55-61, 67, 71-75, 86-88, 92, 94-98, 105, 113-121, 127-130, 139-142. E anche le conclusioni, in particolare alle pagg.162-165, la citazione a p.168, e 170-173.
Già vi ho consigliato l'introduzione al testo "il viandante e lo sciamano", intitolata "fecondità della narrativa di viaggio", che ho riportato in febbraio 2015 su questo mio Blog: http://viaggiareperculture.blogspot.it/2015/02/ho-gia-postato-diverse-foto-del-viaggio.html
Per vostre riflessioni leggetevi anche i tre racconti di Ghila, e guardate le foto dei Post consigliati, come quello che vi mostravo oggi mentre parlavo, cioè sia http://viaggiareperculture.blogspot.it/2015/01/con-lo-sguardo-del-condor.html  che sopratutto nel luglio 2011 il post http://viaggiareperculture.blogspot.it/2011/07/diario-di-viaggio-in-peru-aprile-2004.html

Pensavo ora di leggervi le pp. 74-75 (§. guardare versus vedere) ma oramai non c'è forse più tempo a disposizione. Ma riguarda un episodio e una riflessione che è un po' cruciale secondo me, dato che riguarda il rapporto tra guardare e vedere, in quell'occasione infatti ho capito che fino a quel momento ancora non avevo capito quasi niente, e ho visto quel che avevo guardato senza vederlo. Lì penso di aver còlto la chiave di volta, lo spirito di quella cultura, e la mentalità di questa gente andina, che è una mentalità che potremmo definire "mitica", cioè immersa nei miti come dotazione di senso del mondo, infatti oggigiorno si dice piuttosto "una ragion mitica" cioè una ragione che si viene svolgendo, sviluppando, non per consequenzialità di tipo deduttivo, oppure induttivo, secondo una logica, ma per associazioni di idee, per tramite di emozioni, e appunto come la prof.sa Gramigna diceva poco fa, passando attraverso la meraviglia, lo stupore. E' straordinaria la capacità di stupirsi ogni volta sempre della stessa cosa, che pur tutti conoscono benissimo, e di essere partecipi cum cordis, con il cuore, col profondo. Il che per me sarebbe qualcosa difficile da imitare, da poter condividere, anche se molti in Europa lo fanno, ma forse sono soltanto formalismi, autoesibizioni a volte. Ho inserito un "intermezzo", una finestra, sulla moda occidentale di fare "pellegrinaggi spirituali" a Machu Picchu, che ora si riempie di gente di tutto il mondo che giunge lassù con il treno, e si commuove e piange, ecc.

Poi appunto ho scoperto man mano una grande cultura, che all'epoca del viaggio in Perù ancora non conoscevo bene, la credevo solo una caratteristica del passato incaico… e invece durante il viaggio ho iniziato a ricevere qualche informazione. Però è stato il primo stimolo, la prima spinta, a poi ritornare e ritornare nell'area delle Ande, e ad approfondire la cultura indigena andina che è una cultura che è stata praticamente distrutta e volutamente conculcata e fatta dimenticare per cinque secoli, e che adesso miracolosamente, grazie a una trafila di maestri e allievi che attraverso l'oralità hanno saputo mantenere attiva la trasmissione di certi valori e di certi concetti, sta riaffiorando e sta di nuovo fiorendo. E' veramente un miracolo. Ed è una validissima cultura che è erede delle grandiose civiltà amerindie prehispaniche, e che merita assolutamente conoscere e approfondire perchè al suo fondo è anche una forma di spiritualità, un modo di relazionarsi non soltanto con l'ambiente, con il contesto, con l'aspetto ecologico, con la Madre Natura, ma anche in profondità con la nostra stessa anima, e con lo spirito universale, con l'energia cosmica …

C'è stato anche qualche raro caso di studioso che ha cercato di "sistematizzare" e "ricostruire" quella che sarebbe la Filosofia Andina, cioè la filosofia che starebbe alla base di tutta questa materia di pensiero, o di questa modalità di pensare con lo strumento elaborativo ed espressivo della lingua Quechua, quindi oltre che con il suo particolare vocabolario, con la sua specifica grammatica e sintassi.

Tra gli elementi interessanti c'è sopratutto a mio parere il "principio di compensazione", il che è importante per noi dato che anche noi stiamo vivendo una fase di transizione da un vecchio paradigma razionalista, meccanicista, cartesiano-newtoniano ad un nuovo paradigma che si sta delineando a partire dagli studi di fisica e di matematica, e che poi adesso sta coinvolgendo un po' tutte le discipline anche quelle umanistiche. Paradigma che forse non è ancora del tutto ben precisato e definito, ma che comunque prende le mosse dalla critica, quindi dal distacco (come in una partenza vera e propria di cui si parlava prima…), dalla sensazione che vi sia urgenza di distaccarsi dal conosciuto per cui critica la logica cartesiana del "Discorso sul metodo", e della famosa impostazione che portò Cartesio a dire: io voglio raggiungere l'obiettivo di costruirmi "idee chiare e distinte". Dunque pare che si parta dalla critica a questo atteggiamento che è fondante dell'Età Moderna -e che quindi fino a tutto il secolo scorso non era stato abbastanza radicalmente contestato- atteggiamento, postura mentale, basato, intronato direi, sulla divisione tra materia e spirito (sul dualismo gnoseologico presupposto), quindi tra concretezza ed astrazione, tra prassi e teoresi. Chi ha sistematizzato il pensiero andino avrebbe trovato che non c'è un principio di tipo aristotelico-cartesiano a fondamento della loro visione del Mondo, principio per cui bisogna giungere ad una definizione esatta e precisa di ciascuna cosa, per cui il mondo è ritenuto costituito da tanti oggetti singoli e separati, ciascuno con la sua identità e quindi con la possibilità di poterne dare una identificazione precisa. Presupposto che già nel 1927 Heisenberg ha incrinato con il suo "principio di indeterminazione". Dunque nella "filosofia" andina c'è alla base una idea di circolarità, di osmosi, una dinamica di scambi continui, per cui si potrebbe utilizzare la metafora della tela in cui tutto è collegato e interdipendente con tutto il resto del tessuto, e qualsiasi sia la parte del tessuto incui ci si possa mettere a tirare modifica il tutto e non solo quella parte, … Dunque a quanto pare nella cultura andina antica c'era già questa visione olistica che non è certo basata sul "principio di non-contraddizione". Principio aristotelico che è rimasto valido almeno fino alla dialettica hegeliana nel rapporto tra tesi e antitesi.
La concezione andina si fonda su un altro principio-base che è la ricerca della complementarietà (sempre in tutte le cose, e anche nella vita attiva quotidiana, nella gestione dei sentimenti, delle relazioni interpersonali, e nei rapporti tra le idee nelle riflessioni del pensiero).Perché se si va in primo luogo alla ricerca della differenziazione, della distinzione, della singolarità, della unicità, allora si andrà incontro a dei pericoli molto grandi. Cioè al rischio dell' assolutismo, dell'intolleranza, della inaccettabilità delle divergenze, del diverso. Come impostazione fondamentale di base dunque vi è l'anelito, l'obiettivo di trovare motivi, spazi, elementi che consentano di costruire coppie di complementari (yanàntin), poiché nella realtà profonda della vita e della natura è da qui che poi si genera la creatività. Si veda a questo proposito nella Introduzione la parte tra la pagina 11 e la 15.
Di solito secondo la nostra mentalità ci si ritrova bene tra simili, e in effetti ci può essere anche sintonia tra simili, ma questa non a caso riceve in quechua un'altro nome, un'altra denominazione (masìntin), mentre la complementarietà principale è quella che va ricercata nel rapporto, nella coppia tra non-simili.  Quindi la ricerca principale nella cosmovisione andina deve essere innanzitutto che cosa ciascuno può dare all'altro di cui l'altro ha bisogno, di cui manca. In qual modo si può fare in maniera che i due componenti si completino vicendevolmente. E vedere in cosa non abbiano la possibilità di raggiungere la loro stessa interezza se non ricorrendo all'altro.
Da qui deriva l'altro fondamentale principio del buon vivere: cioè Ayni, la reciproca solidarietà (=il mutuo soccorso e lo spirito di servizio alla comunità).


Ciò ci riporta un po' al discorso che facevo all'inizio: un viaggio che valga la pena di essere percorso è un andare verso l'incontro con l'Altro perché io ho bisogno di rispecchiarmi in lui per capire meglio me stesso. Non è dunque uno sfizio erudito, del tipo: parto per conoscere nei dettagli le comunità -che so- degli Esquimesi (Inuit) del nord-est della Groenlandia, perché nei testi di Etnografia ancora manca uno studio approfondito sui loro modelli di comportamento…
Ma è piuttosto un percorso che, se compiuto in un certo modo, può essere molto fruttuoso per chi viaggia, e lo può molto arricchire (nel senso socratico della preghiera che sta a conclusione del "Fedro") perché ti permette di modificare e trasformare te stesso al fine di completare la conoscenza e la formazione di te stesso.

E' poi proprio così che avviene nei processi formativi, la formazione è un percorso che innesca un processo di trasformazione continua. La vita stessa è una continua trasformazione lungo le varie età. Conoscete la storiella di quel buon vecchietto che quando ha finalmente capito cos'è la vita, è il suo giorno prima di morire. Ma è una battuta per dire che non c'è un punto d'arrivo, è un processo interminabile, per usare le parole di Freud, non si arriva mai propriamente ad un termine della terapia analitica perché non si giunge mai a conoscere pienamente l'inconscio, dato che per definizione esso è ciò che non è conscio, di cui non siamo consci…
L'unico obiettivo valido è quello basato sull'amore-amicizia reciproco-a, cioè impostando una relazione che possa intessere una relazione costruttiva, positiva, produttiva per entrambi i coprotagonisti per il loro benessere, il loro viver bene. 

[una studentessa chiede qualcosa a proposito delle foto di paesaggi naturali, sull'influenza che hanno sugli abitanti, però non sento bene dalla registrazione...]
Sì ce ne sono così tante di foto che ora non riesco a soddisfare la tua richiesta, ma certamente l'ambiente fisico, il paesaggio, condiziona, ha una forte influenza sullo strutturarsi alle sue origini di una cultura. Nell'Ottocento A.Bastian antesignano dell'antropologia culturale (che Campbell ogni tanto cita), definì Elementargedanke i modelli basilari di pensiero, comuni, derivanti dalla comune natura psichica dell'Umanità, e nel contempo individuò l'esistenza di visioni specifiche sorte proprio in relazione alla diversità dei contesti naturali, che chiamò Voelkergedanken, cioè pensieri o idee popolari, diffuse, a livello di comunità etniche (che forse oggi chiameremmo: "mentalità" locale).

[la studentessa aggiunge una richiesta di precisazioni su cosa si possa intendere con mentalità locale, ad esempio si può identificare una cultura di montagna ? ]
Assolutamente sì, ma per questo basta recarsi sulle Alpi, sugli Appennini, nei parchi nazionali, nei paesini sulle nostre montagne, senza andare fino in Perù, e si ritrova anche qui una sensazione profonda dell'esser parte di quel tutto in cui si è inseriti, non c'è uno sguardo verso qualcosa di estraneo che sta là ma che non li riguarda. Ad es. la morfologia, la forma del terreno è fondamentale per regolare il modo di camminare, e la presenza di ruscelli, e di altri esseri viventi sia del regno vegetale che del regno animale, è di grande importanza per percepire che il pianeta pullula di energia vivente. La gente che vive in quei luoghi ha passato tutta l'infanzia e tutta la vita ad osservare i fenomeni della natura e a osservare il comportamento non solo dei vegetali, se non altro per nutrirsi, o per curarsi, ma non solo, e anche degli animali, per cui si constata che hanno reazioni uguali alle nostre oppure dissimili ma da cui potrei imparare qualcosa che può anche essere essenziale per la mia vita (ripeto non solo per nutrirsi). Vivendo in mezzo alla natura (non solo sulle montagne) ci si sente compartecipi del tutto, lo ritrovate anche in autori di libri come Mauro Corona ("Il volo della martora"), oppure Messner, o Walter Bonatti, eccetera. Se leggete i loro Diari di viaggio, che raccontano non solo di scalate ma contengono anche riflessioni sull'uomo e sui paesi attraversati, ritrovate molte similitudini con la cultura delle aree alpine o montane nostre. A differenza di quando io passeggio in un bosco, dove uno del luogo conosce e riconosce il "carattere" e la "personalità" direi di ciascun albero, oltre che di quel tipo, di quella specie. Perché la conoscenza dell'ambiente è avvenuta nelle avventure formative di quando scorrazzavano da bambini per il loro territorio. Poi hanno ricevuto gli insegnamenti dei fratelli o dei grandi, relativi ad es. a quale legno è più o meno adatto per certi fini, o al comportamento della volpe, o delle tarme, o delle api… Riconoscono dunque ciascun cespuglio, ciascuna foglia perché per loro è come per noi girare tra le stanze di casa. L'erborista che va a raccogliere le piante officinali, eccetera, sa qual'è la "virtù" di ciacun fiore e di ciascun stelo d'erba e ciascuna fogliolina… conosce il suo potere curativo. Sanno come vive e che cosa può dare, quindi sono consapevoli che la loro esistenza è dipendente dalla presenza di acque chiare, dalla legna per scaldarsi d'inverno, o per cucinare, per costruirsi la casa, eccetera. Sentono l'interazione, l'interdipendenza.

Così è pure sulle Ande, o per es. tra certe popolazioni indigene che si sentono di essere gli "uomini del mais", e così chiamano se stessi, perché nutrendosi di tanto mais sanno di essere "figli" di quello… e naturalmente hanno  creato leggende in cui si parla di come il primo uomo fosse stato fatto dal mais, eccetera.
Cioè non è qualcosa di asratto, non sono fantasie pure, non è come per me che vedo un oggetto che si chiama uva, o mela, e lo considero solo pensando se mi piace o no, e quanto costa, e penso che magari dopopranzo ci starebbe bene come dolce, e poi magari potrei anche voler scrivere una poesia sull'uva…
Ma per un indigeno c'è una grande compartecipazione nell'assumere nel proprio corpo una pannocchia di mais, o bere il succo di un frutto, sa che sta assorbendo le virtù di quel frutto di Madre Terra, che sente effettivamente come una sua madre, una Grande Madre nutrice. Egualmente prendendo una salutare boccata d'aria fresca... Quando venne da noi a trovarci un amico indigeno andino, Pumaquero (che fu invitato da me e da Anita a parlare qui all'università di Ferrara),


ogni volta si concentrava con intensità nel semplice atto di bere un bicchiere d'acqua, bisognava osservarlo mentre beveva, stava mandando dentro di sè la fonte della vita. La divinità dell'acqua è la purezza fatta sostanza, e che proprio non avendo forma può prendere tutte le forme….
Vi invito per es, a leggere quella citazione in fondo a pag.168, di Javier Lajo quando racconta degli insegnamenti che gli diede suo padre grazie all'acqua. L'acqua non è solo qualcosa che serve a calmare la sete. Era così anche qui nell'antichità e ancora fino a prima della industrializzazione.

[altra domanda sulle condizioni sociali di vita]
Ecco, io direi che, nonostante la grande povertà di questa gente, che sono indigenti, sono anche poverissimi, hanno però in generale una gran dignità, e vivono appunto in un contesto totalizzante, come dicevo poco fa, almeno quelli che vivono nei villaggi di campagna o in montagna, e dalla formazione che hanno ricevuto, e dal modo in cui sono cresciuti dentro al loro ambiente, e conoscendo sempre e nient'altro che solo il loro ambiente naturale e umano circostante, ricevono una educazione dei sensi, dello spirito, dell'intelligenza, che è una formazione organica, coerente e completa. 

[ studentessa: che cosa si deve sapere?]
Il cercare comunque di vivere bene, ovvero al meglio date le loro possibilità, contempla anche molte cose, come ad es. un atteggiamento verso il contesto naturale che noi in occidente chiamiamo ecologismo, rispetto ambientale, ecc. Questa non è una convinzione dovuta ad un ragionamento, o una riflessione personale, è cercare di vivere bene là dove si vive, per cui ciascuno deve prestare determinate attenzioni, deve contribuire al buon mantenimento delle cose di interesse comune, è un sapere vivere, altrimenti se inquini o distruggi il contesto in cui abiti, allora vuol dire che sei ignorante, ozioso, e asociale, se non hai rispetto almeno per la Pacha Mama, per Madre Terra, non hai capito niente. Magari sei stato a scuola e sai tante cose, e poi non hai capito che ci sono interessi collettivi della comunità del villaggio e del suo territorio…?! Certe cose le sanno tutti: tenere ben sgombri i canaletti di irrigazione, curare la manutenzione degli argini dei terrazzamenti coltivati, diserbare dalle erbacce certi luoghi, la potatura dei grandi alberi, le necessità della semina e quelle del raccolto, mantenere a monte pulite le acque dove si va a lavare i panni, badare che i pozzi dell'acqua per bere restino ben sgombri, dare il proprio aiuto nella manutenzione delle strade di terra d'accesso al villaggio, saper tessere (i diplomi di scuola non vengono considerati validi se i ragazzi non dimostrano alla comunità di sapersi fare i propri vestiti), sapere come dare una mano a costruire o riparare case, rifugi, stalle ecc., badare al bestiame, sapersi fare degli attrezzi,  ... Insomma la priorità va sempre data in tutto e per tutto alla comunità di appartenenza. Ma sono cose che sanno tutti, le possono ignorare solo quei disgraziati che hanno abbandonato il villaggio per andare all'avventura nelle fatiscenti e sporche periferie poverissime delle nuove città in espansione.

[una studentessa chiede se si possano vedere aspetti positivi nella loro medicina tradizionale]
 Quanto dicevo prima sulla complementarietà vale anche per la cura delle malattie, si tratta di  ripristinare un equilibrio, trovare la complementarietà tra le cose che fai, le cose che ingerisci, il sudore che sudi, i pensieri che hai,  le emozioni e i sentimenti che ti muovono, ecc. con il vivere in armonia sia con il contesto in cui vivi che con la tua interiorità. Vi sono esercizi e pratiche spirituali di concentrazione e meditazione che possono aiutare, ma bisogna essere guidati da esperti.

"Entra in campo anche una relazione disturbata con la spiritualità" [dice Anita Gramigna]. Certo, questo è proprio ciò cui mirano i paqos, gli iniziati. Si veda il diario di viaggio della ferrarese Annarita Boccafogli (nostra laureata) in bibliografia. Il loro è in sostanza un approccio più che altro di tipo "spirituale". Certamente anche per la malattia è questione di un'altra prospettiva mentale: la malattia si ritiene essere un disturbo causato da squilibrio, disarmonia. In pratica ad es. una curandera si prende cura della persona (con cui di solito ha un rapporto personalizzato) nella sua interezza e in relazione all'ambiente.

Dopo aver interpretato il responso delle foglie di coca cadute, comincia con una opera di pulizia e purificazione interiore e fisica, con il compiere una offerta simbolica, e intanto cerca di far cambiare l'atteggiamento del malato verso la sua malattia, per cui lo segue e accompagna e consiglia in modo che sia il maltasi renda protagonista del processo di guarigione che è un processo di trasformazione, e di riallineamento con il proprio centro spirituale, per riarmonizzare le sue stesse energie e il suo rapporto col proprio corpo, così come col corpo sociale e col corpo di madre natura e delle forze universali. Gli iniziati poi hanno una visione mistica di tutto ciò.


Poi un altro discorso riguarderebbe la farmacopea naturale e i rimedi degli erboristi (e i reali effetti e gli effetti placebo).
Inoltre un'altro discorso ancora, sarebbe relativo ai numerosi falsi curanderos o sciamani improvvisati per far soldi con imbrogli ai danni di poveri ignoranti; e poi tutto ciò si rapporta anche alle superstizioni e credenze del folklore locale (si veda il libro di Mario Polia, "Il sangue di condor - sciamani delle Ande", in bibliografia).
Un autentico cosiddetto "sciamano", o meglio un paqo, un iniziato di alto livello, è una persona che vive costantemente in connessione con il Tutto, con l'energia vitale universale, così come con le energie individuali di tutti i viventi, che possiede una grande consapevolezza, è -come si dice- uno che "cammina nel cosmo vivente", un "viandante dell'Arcobaleno", un "figlio della Luce" … ma anche questo sarebbe un altro lungo e complesso discorso da affrontare. 

Poi invece per lo studio anche delle basi culturali della medicina tradizionale, si tenga presente che molti recenti approfondimenti hanno aperto la strada da noi in Occidente ad un nuovo paradigma, penso a autori come Michel Foucault (si pensi solo a "Nascita della clinica", o "Sorvegliare e punire"), o Ivan Illich, a cosa hanno scritto, detto e fatto nel campo di una nuova concezione relativa a come affrontare la malattia, e al concetto di salute, alla concezione stessa delle discipline mediche, sia in ambito storiografico che sociologico hanno contribuito fortemente al cambiamento di paradigma in campo medico, dando un contributo straordinario a far prendere consapevolezza all'Occidente che si può guardare a questa materia anche da un'altra prospettiva. Ora ad es. la medicina tradizionale è stata accettata anche a livello legale in Perù, e al paziente è ora riconosciuta la facoltà di scelta. La critica di Ivan Illich, un gesuita di vastissima cultura, grande innovatore in diversi campi delle scienze umane (ricordo solo "Descolarizzare la società", "La convivialità", "Per una storia dei bisogni", …), deceduto una dozzina d'anni fa, è una critica radicale rivolta all'intero "sistema di pensiero" medico occidentale (in "Nemesi medica"), è stata straordinaria perché le sue non erano soltanto critiche politiche o sociali, ma critiche dettagliate che vanno alla radice stessa della concezione attualmente prevalente del mondo.
… (mi interrompo)

Comunque ora non vorrei deviare troppo. Oramai non c'è nemmeno più il tempo per abbozzare una visione della cultura indigena andina, e tantomeno accennare a quali possano essere in generale gli elementi simbolici basilari di una cultura (al proposito si veda ad es. il cap.4 della Seconda Parte del mio volume del 2011: "Le maschere e gli specchi", alle pp.262-269, libro ora acquistabile anche come e-book in formato Kindle a prezzo ridotto).


Per le foto guardate in  http://viaggiareperculture.blogspot.it/2011/07/diario-di-viaggio-in-peru-aprile-2004.html

Sono appunto venuto qui non tanto per parlarvi della cultura andina, o del Perù, quanto dei temi dell'introduzione, e della impostazione di fondo del Diario. Dopo la lettura farete le vostre riflessioni e considerazioni, spero solo di avervi dato alcuni stimoli e spunti, in particolare in riferimento a problematiche che riguardano questioni di pedagogia.

Un ultima indicazione: esaminate, riflettete sul significato che per voi potrebbe avere la figura di copertina, la vecchia curandera. L'ho scelta perché mi sembra che condensi parecchi aspetti delle cose che qui abbiamo detto, ma non mi riferisco tanto a queste ultime battute, ma al fatto che questa immagine mi sembra sintetizzi tutto un mondo, una cultura, e forse anche qualcosa di più, ...pensate solo ad es. in generale al tema dello "sguardo"… ...