Già dal 5 al 25 novembre 2011 avevo postato sul blog nove puntate con foto del nostro viaggio in Kenya durato più di un mese nel 2002 (cliccato da 146 persone), e mi ero arrestato alla nona puntata tralasciando l'ultima parte del viaggio. Poi poco fa ho riproposto alcune foto relative ai Masai e al mercato di Malindi, nella serie di immagini di interesse etnografico, il 16 marzo scorso di quest'anno. Post che è stato cliccato da 228 utenti (il che è un buon successo per il mio piccolo Blog) :-)
Comunque ancora mancavano p.es. foto della costa nord, per cui ora -visto il relativo discreto interesse suscitato dal Kenya- vorrei colmare quella mancanza anche con alcune altre foto tralasciate (forse perché le ritenevo in quel momento un po' troppo turistiche e personali, ma ora riguardandole credo che alcune potrebbero invece interessare)...
Il Kenya è stata una colonia facente parte della British East Africa, e dal 1961 ha conquistato l'autonomia interna, e alla fine del '63 l'indipendenza, e un anno dopo ha proclamato la repubblica (Jamhuri ya Kenya). Dal 1992 ha un parlamento multipartitico. Fa parte del Commonwealth britannico. Aveva nel 1962 circa 8milioni e 6centomila ab, poi nel 1989 24 mil. di ab. [e oggi 45 milioni]. E' grande il doppio dell'Italia. La valuta è lo scellino (nel 2001 era pari a circa 37 lire it.).
La metà degli abitanti si dichiaravano aderenti a varie chiese cristiane, ma la gran parte di fatto è tutt'ora animista e pratica o culti africani tradizionali, o culti sincretici; e in questi ultimi anni i musulmani sono in aumento, e specie sulla costa, per cui sarebbero diventati ora circa l' 11%.
Inoltre i maggiori gruppi etnici sono i Kikuyu (17,7$), i Luhya (12,4%), i Luo (10,6%), i Kalenjin (10%), e i Kamba o waKamba (9,8%), ecc.
Ciascun gruppo etnico parla in una propria lingua, ma la lingua comune di comunicazione in tutta l'Africa Orientale ex-britannica, e oltre, è lo swahili, o ki-shwahili, che è una lingua del grande ceppo Bantu, e in particolare della "famiglia linguistica" niger-kordofiana, largamente diffusa e utilizzata.
Quindi appena arrivati prendiamo un vocabolarietto (peraltro inutile anche se di 102 pagine), ma in realtà tutti quelli che hanno a che fare col turismo o con il commercio e gli affari (e non solo loro), sanno l'inglese che è la seconda lingua ufficiale, e la lingua dei rapporti con l'estero, e che si studia a scuola fin dalle primarie, per cui non c'è quasi mai alcuna difficoltà di comunicazione.
(per la storia politico-sociale cfr. J. Sellier, Atlante dei popoli dell'Africa, éditions La Découverte, Paris, 2003, 2008, tr. it. Centro A.Cabral - il Ponte, Bologna, 2009)
E cfr. anche:
l'unica carta stradale che 16 anni fa avevo trovato prima di partire era stata questa della "Michelin-gomme", relativa alla metà sud del continente... (l'equatore passa proprio sulla cima del monte Kenya).
Abbiamo viaggiato con dei piccoli bussini, o con dei taxi locali (in lingua swahili: matatu), o con barche, a seconda della situazione. Eravamo io e Annalisa e i nostri due figli: Ghila già 22enne, e Michele quindicenne.
Ghila era rimasta affascinata dalle sottili e numerosissime treccine fini con nodi (african braids, o dreadlocks) che avevano le ragazze locali. Da noi non era ancora arrivata questa acconciatura come moda, ma sarebbe arrivata poco dopo. Quindi a Malindi si sottopose al lungo lavoro di intrecciatura fatta come si deve.
Michele invece era rimasto affascinato da alcuni danzatori che avevamo visto esibirsi giorni prima, e quindi per un po' aveva portato un lungo pareo e una collana composta di legnetti e pezzi di osso (wood 'n bones bow collar), comprata poco prima da Annalisa in un mercatino, tirandosi indietro i suoi folti capelli rasta. A motivo dei suoi rasta molti giovani lo fermavano in strada e lo chiamavano brother, "fratello". E dopo i dreads (che sono anch'essi di origine rasta) anche a Ghila dicevano sister...
Arriviamo infine a Kikambala. Il nostro albergo è lungo la riva e non è sulla strada principale (e questo farà una certa differenza per le gite in giro). E' veramente bello ed è proprio all-inclusive.
Andiamo a guardare un po' dappertutto, mangiamo una prima colazione self service, eccetera, e già ci pare impossibile che siamo arrivati in Kenya soltanto da ieri. Al pomeriggio andiamo nella spiaggia. Questa è frequentata da pochi camminatori, prevalentemente gente del luogo (dipendenti o lavoratori, oppure piccoli artigiani o turisti kenioti di Nairobi, o indiani), comunque si tratta di una manciata di individui, anche perché quasi nessun turista europeo esce da solo dai limiti dell'area degli alberghi.
Quando appunto è bassa marea si riesce a camminare sulla concrezione di materiale madreporico, e si trovano pesci, ricci, seppie, eccetera (andarci con gli infradito, o zoccoli, o scarpette di plastica !)
cfr. per altre foto viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/kenya-2002-n-8-un-parco-marino.html
Dopo cena c'è musica dal vivo, un complessino suona ritmi tipo quelli di Miriam Makeba. Questa è l'anima dell'Africa!
Per una conoscenza del Paese, dopo aver assaporato l'odore del mare e quello della terra, e aver ammirato la vegetazione che essa produce,
vengono i prodotti della sua cultura, e in Africa nera sono innanzi tutto i ritmi, la musica, le danze, gli strumenti musicali, ... in questo la grande madre Africa, da cui tutti noi proveniamo, è stata la prima maestra. Inoltre poi ci sono gli strumenti, gli attrezzi, e poi anche i decori del corpo, l'abbigliamento, con i loro tipici disegni e colori,
e poi c'è l'elaborazione delle tecniche di lavorazione del terreno, eccetera ecc.
Per cui in principio, agli albori della cultura umana c' erano: la voce e i ritmi, cioè musica e danza, in quanto parte intrinseca dei riti, dei cerimoniali, ecc. quindi dell'aspetto spirituale e della sua comunicazione.
Poi verso sera arrivano dei danzatori Masai (o Maasai). Avevamo già visto nel villaggio dopo Mtwapa, tre di loro. Apparentemente sembrano più giovani di quel che forse sono, ma a parte alcuni ventenni, gli altri sono trentenni. Si impegnano molto, e sono danze veramente interessanti e di notevole effetto sopratutto nella seconda parte perché è una danza corale ritmata con lunghi bastoni ed eseguita nel buio. Davvero suggestiva (cfr.: viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/in-un-villaggio-di-masai-2002-3-danze.html ). E in generale rivedi il post del 16 marzo scorso.
I Maasai (circa 2,2% degli ab. del Kenya) sono un popolo di origine cuscitica-nilotica, che un tempo erano nomadi, pastori o mandriani, e cacciatori, ma già da mezzo secolo si sono sedentarizzati e all'allevamento di bovini (o ancora di caprini e ovini) hanno affiancato l' orticoltura e un po' di agricoltura. Comunque alcune battute di caccia ogni tanto non mancano mai. In genere sono longilinei e alti. A caccia portano uno scudo ovale in pelle decorato e una lancia a lama lunga, o comunque un lungo bastone come quello visto sopra, e un bastone a forma di mazza per uccidere serpenti e piccoli animali selvatici. Ma utilizzano anche l'arco per selvaggina e uccellagione. E' importante per i maschi dare prove di coraggio, ad esempio tenendo lontani dal villaggio leoni o grossi felini. Oltre che di carne si cibano di latte di vacca, e di sangue bovino tramite salassi. Sia uomini che donne sono sempre agghindati con monili, bracciali, spille, fermagli, penne e piume, eccetera. Le donne in particolare portano grandi collari di metallo con infilate perline colorate. Nei villaggi qui verso la costa i maschi vestono una tunica dipinta di rosso (o a quadretti rosso-neri), e le donne in blu. Già da più di mezzo secolo sono in conflitto con i Kikuyu (17,2%) che hanno invaso i loro antichi territori al Nord del Kenya. Negli ultimi tempi molti masai fanno il lavoro di guardiani in alberghi o in imprese varie.
Mercoledì 17 - Una coppia di clienti australiani si sposa...qui?! E qualche ora dopo di loro anche un'altra coppia, che ha fatto venire per l'occasione un complesso di danzatori perché facciano una cerimonia di nozze tradizionale kenyana. Ci fermiamo ad assistere. Una gentile impiegata locale, che si occupa del centro giochi per intrattenere i bambini dei clienti, di nome Charity, dice che quella gente sono dei bantu Wa-Kamba, un popolo molto tradizionalista che rifiuta persino di inviare i figli alle scuole, per poter continuare a vivere al proprio modo, secondo vecchie consuetudini. Lei non li capisce e non è d'accordo con le loro scelte.
Prima cominciano con un ballo abbastanza "rilassato" e con movimenti aggraziati:
Poi danno il via a ritmi più intensi e danze concitate (e cambiano gonna):
Che ritmi! l'Africa (tramite i suoi deportati) è stata maestra della musica del sud degli Stati Uniti, delle Antille, dei Caraibi, e del Centro-Sud America, Brasile compreso! (Sull'argomento cfr. di Folco Quilici, Malimba, la nuova Africa al festival di Dakar, De Donato, Bari, 1964,
e su musica e danze africane vedi sull'Etiopia l'ultima parte del mio Post: http://viaggiareperculture.blogspot.com/ 2017/10/viaggio-in-etiopia-20-da-addis-bishoftu.html ; e su altri paesi africani v. la serie etnografica, nn.3 e 7, per Sudafrica e Swaziland).
Quando hanno finito mi vado a complimentare con loro per l'interessante esibizione, e dico che sono stati davvero molto bravi e che si vedeva che ci avevano messo tutto il loro animo (la quasi totalità degli ospiti non li c. neanche, stavano voltati da un'altra parte, o passavano tra i ballerini (!), o erano al tavolo chini sui cellulari... o chiacchieravano tra loro...!). Le loro danze hanno una tradizione di lunghissimo periodo, e risalgono ai tempi ancestrali della formazione della loro specificità culturale.
Le ragazze, che sono sedute a parte tra di loro, hanno dai 18 ai 21 anni, e mi consentono di fare una foto. Quando gliela mostro nel display, ridono come matte. Mi chiedono come mi chiamo e faticano a capire il nome Carlo, e non riescono a ripeterlo anche se faccio lo spelling, la compitazione delle sillabe e poi delle lettere pronunciandole lentamente.
L'etnologo Roberto Bosi diceva di loro che sono agricoltori patriarcali della valle del fiume Tana, che vivono in capanne ad alveare. Sono ripartiti in clan totemici esogamici, e conservano ancora alcuni tratti di matriarcato. Tradizionalmente il loro Essere Supremo era chiamato Mulungu, cui oggi si sovrappongono influenze islamiche. (cfr. Dizionario di Etnologia, Mondadori, 1958, p.187) (consistono nel 10% circa della popolazione complessiva del Kenya).
Al self-service si mangia molto bene. Ci sono piatti della gastronomia africana, e anche per vegetariani, e piatti della cucina "internazionale", e i clienti indiani hanno una loro sala a parte, ripartita in veg, non-veg, e vegan (o strictly veg). Assaggiare piatti di una culinaria diversa dalla abituale, introduce alla comprensione di una cultura. Sedici anni fa in Italia c'erano ben pochi libri di ricette africane:
Prima di cena quando c'è ancora il sole, due camerieri si arrampicano in un attimo su delle palme per prendere delle noci di cocco, che sul banco della frutta erano finite... Così abbiamo poi saputo che bastava chiedere un cocco e qualcuno sarebbe salito a prendertelo.
Poi in serata scambiamo due parole con un belga, ma fiammingo (parlando in inglese ... non in francese), che fa il busker (musicista itinerante) e va in giro con moglie e figlio, e dunque conosce già un po' il Paese e la gente.
Giovedì 18 - Andiamo a fare un giro con un certo Petrus che ha una sua minuscola agenzia in un micro-ufficietto, un cubetto di cemento, totalmente spoglio, dentro a cui parliamo e combiniamo, ma è abbastanza organizzato e sopratutto più a buon prezzo del front desk dell'albergo per le gite.
Saliamo sul suo matatu privato, noi e uno M'zee (cioè un anziano), e un'altra coppia di francesi. Andiamo a Mombasa, così lungo il percorso rivediamo (ma in un orario diverso) sia il paese di Kikambala, che poi Mtwapa.
A Nyiali visitiamo una manifattura di oggetti, soprammobili, souvenirs, e statuine ed intagli su legno. Ogni artigiano, seduto per terra, fa il suo oggetto, che sarà sempre quello stesso. E' una wood carving fabric, piuttosto grande. Comperiamo alcune cose che ci paiono veramente belle (ma che ci stiano poi nelle nostre borse al ritorno...).
C'erano fuori dall'ingresso, scritte col gesso su delle lavagne, tutte le regole da seguire da parte di chi ci lavora, compiti dei diversi capannoni, e i turni degli artigiani
Offriamo a un paio di loro di venderci il suo pezzo direttamente, senza poi dover pagare il prezzo per turisti all'uscita; e così facciamo molto contenti quei due operai.
Poi a Mombasa gironzoliamo per la città vecchia la Old Town, che è tutta su un'isola cui si accede con il New Nyali bridge. Visitiamo un tempio a Krishna, vediamo alcune moschee, e poi ci soffermiamo a Fort Jesus, il fortilizio portoghese di fine Cinquecento (dove c'è un gabinetto di high level), che dà sulla insenatura del vecchio porto (Mombasa Harbour), e in un bar, e prendiamo delle cartoline. Vediamo le famose grandi zanne di ingresso alla città sulla Moi Avenue.
Poi il vecchio hotel coloniale "Manor" del 1908, e lo Yacht Club. Dal suo porto si commerciavano avorio (facendo strage di zanne di elefanti), pellami, corna di rinoceronti, olio di cocco, spezie, ma anche rame e oro.
Da molte generazioni è presente qui una folta comunità di commercianti indiani:
Insomma a fine giornata abbiamo comperato un sacco di cose!... Un po' troppe per i nostri bagagli, e considerando anche che siamo solo all'inizio, ma sono davvero carine e attraenti.
A Ghila piace una statuina di un Masai, che si metterà sullo scaffale di camera sua,
poi noi compreremo uno schermo per lampada con disegnati degli animali africani,
e sopratutto una bellissima scultura in legno di un ghepardo coi suoi due cuccioli: che metteremo su uno scaffale della libreria in sala
e dei ferma-capelli, un piccolo ippopotamo in legno da regalare, delle posate da insalata, un porta noccioline o pistacchi su un treppiede pieghevole intagliato da un unico pezzo di legno
e infine da un indiano davanti a un tempio hinduista, prendiamo due collanine... e una statuetta di un cosiddetto "stregone" di villaggio del nord kenyota
Ormai abbiamo orecchiato alcune parole ed espressioni nella lingua locale, che è il ki-Shwahili, anche grazie al fatto che in diversi quando ci vedono ci canticchiano la musichetta della colonna sonora del film-cartone disneyano "The Lion King" (il re leone, 1994), cioè "hakuna matata", e anche altre, tipo per es. la canzoncina "Jambo Buana", con il testo del coro giovanile keniano che si chiama "Uyoga", cioè "funghi" (così imparo una parola per me importante ai pasti, perché sono allergico ai funghi):
Jambo! (ciao!), Jambo Bwana (hi! Sir, salve Signore), habari gani? (how are you? come sta?), Mzuri sana (very fine, molto bene) Wageni Mwa-Karibishwa (i visitatori son benvenuti), Kenya yeti (il nostro Kenya), hakuna matata (no worries, don't worry, nessun problema)...
Con le note si facilita l'assuefarsi a vocaboli dai suoni strani, e ad apprendere divertendosi almeno alcuni rudimenti basilari della lingua del posto. E in effetti il ritornello ti si ficca in testa e poi non riesci a togliertelo di mente (vedi: youtube.com/watch?v=fK0wPpLryc4 ). Presto aggiungeremo: kazi mzuri (=good bye), e Watu wote (all of us, tutti quanti).
Venerdì 19 - Ci alziamo prima dell'alba per andare con Petrus ad un safari fotografico (safari vuol dire semplicemente tour, giro, viaggio - una volta chiamavano così le battute di caccia grossa ora proibite per legge). Una sosta per prendere su due francesi, e torniamo a Mombasa, e poi con anche due neozelandesi, compiliamo delle richieste di ingresso, e altre scartoffie, all'Ufficio Parchi nazionali. Quindi finalmente partiamo verso Tsavo. Sosta a metà strada per "toilette" e "bar" ad un punto-ristoro, e infine riprendiamo l'auto e dopo un percorso da Mombasa di un centinaio di km arriviamo all'ingresso dello Tsavo-Est.
Sbrighiamo rapidamente le formalità all'entrata
e finalmente inizia la visita (non si può scendere dall'auto, e in prossimità di animali vanno mantenuti chiusi i finestrini, non si può dar loro nulla, non si butta spazzatura ma la si riporta con sè). Siamo appena entrati da pochi metri, e l'autista si ferma...? nel nulla qui tutt'attorno non mi pare ci sia niente da vedere... dice "scendete e guardate questi", scendiamo e davanti a mezzo metro dalle ruote vediamo una fila di formiconi che così grossi non ne avevo mai neanche immaginati...
Magnifico ed emozionante Parco Naturale. E' enorme, di 12 mila km quadrati di superficie.
(per il Parco vedi i tre post 5-6-7: viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/kenya-2002-n-5-il-parco-naturale-di.html )
Strepitoso e indimenticabile il panorama dal bar sopraelevato
Prendo nota degli animali visti e sono molti, per cui poi aggiornerò via via l'elenco man mano che andremo in altri parchi e posti. Per il momento sono stati:
grosse formiche, struzzi (mbuni), gazzelle orix del tipo Grant, antilopi (swala), termitai, uccelli azzurri tipo storno, grandi uccelli bianchi e neri, giraffe (twiga), elefanti (ndovu o tembo), coccodrilli (mamba), dei sauri (lucertoloni di tre specie), babbuini (nugu o nyani), una specie di grosso scoiattolone (rock squirrel), dei tacchini un po' più piccoli del nostro solito, scuri e a quadretti..., una leonessa (simba), dei cuccioli di ghepardo, in inglese cheetah (duma), e zebre (punda), gnù, e una sorta di aquila, vari uccellini, una antilope Topi, dei facoceri (ngiri), vari bufali (mbogo), delle antilopi-Kobo. Non avrei mai creduto di poterne vedere così tante specie diverse... Che emozione osservarli mentre sono liberi a casa loro, liberi !
Poi alla sera dopo aver sistemato le nostre cose nel Lodge dove passeremo la notte, tramite un tunnel coperto, si giunge in un bunker con feritoie vicinissimo ad uno stagno di abbeveramento, che sta controvento e se si resta in perfetto silenzio gli animali che vengono non si accorgono di noi (o sono abituati). Così si ha il brivido di osservarli proprio bene da vicino. Abbiamo assistito a delle scene indimenticabili
(vedi: https://viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/kenya-2002-n-6-il-parco-naturale-di.html ).
In piena notte dei rumori strani ci svegliano, andiamo alla finestra e vediamo che una mamma elefante ha portato qui il suo cucciolo elefantino, a mangiare quel che c'è in giardino, per cui stanno distruggendo fiori, cespugli e tutto quanto. Degli impiegati escono per scacciarli via, ma la mamma si infurio quando vede che vogliono scacciare il suo piccolo e comincia a attaccare. Tutti in un batter d'occhio o sono scattati e saliti velocissimi su degli alberi, o si sono buttati giù dalla scarpata, o son corsi via....
Su questa esperienza del Parco Naturale, Moravia scrive che aveva creduto di vedere il paradiso terrestre, mentre non è così. Anche se in un suo articolo su "Il Gazzettino" (20/05/1987) aveva scritto che l'Africa conserva «il fascino del mistero», e anche se apprezza il fatto che una riserva naturale «salva dallo sterminio che già fece scomparire i bisonti americani», però poi lo snobba dicendo che è viceversa un territorio «preservato apposta per il consumo turistico (...) qualche cosa cioè di assolutamente artificioso» dove gli animali stessi «sono una contraddizione eloquente: liberi ma controllati, debbono la loro esistenza ad un mito (...) che a sua volta è il prodotto di una civiltà utilitaria e consumistica che implicitamente minaccia questa loro esistenza». Scrive che «il mito è quello del Paradiso Terrestre nel quale l'uomo e gli animali vivevano in buon accordo prima della cacciata». Il paradiso terrestre «viene consumato, ossia diviene una merce come tutte le altre...». E conclude: « Così in fondo al mito ecologico troviamo il mito del ritorno all'Eden» (da Passeggiate africane, Bompiani, 1987, cap.2)
Non direi che le cose stiano solo così. Io non mi sento per nulla d'accordo (come già accennavo all'inizio), e poi così si guasta tutto il piacere e l'emozione di poter girare per un area immensa dove la natura è incontaminata e i suoi abitanti animali possono proseguire la loro vita come è sempre stata. È un privilegio poter fare l' esperienza di immergersi in questo grandioso contesto, esser parte di un mondo nella sua integrità primordiale, osservare da vicino la vita animale, esperienza toccante che a me invece ha dato molto sia in termini emotivi che di riflessione.
Venerdì 19 - Ritornando verso il nostro albergo, facciamo una lunga deviazione (in cui incrociamo dei waKamba che vivono in un villaggio che resta dentro all'area del Parco, che riportano al loro villaggio delle fascine per il focolare) e quindi una lunga sosta per entrare in un villaggio (manyatta) Maasai e visitarlo, ci siamo solo noi, ci viene incontro un gentile e alto masai che sa benissimo l'inglese, e ci accompagna dentro al recinto (boma) di grossi arbusti molto spinosi. Possiamo con discrezione stare ad osservare la vita quotidiana e fare foto
(vedi i tre post: viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/in-un-villaggio-di-masai-2002-1.html ).
le capanne hanno pareti fatte di fango e di escrementi di vacca mischiati, con una intelaiatura di rami secchi, e il tetto è poi ricoperto di paglia
Michele ha fatto un po' di amicizia col nostro accompagnatore, che gli propone di partecipare alla loro "danza" con salto in alto mantenendosi sulla propria posizione, (questa prova di chi salta più in alto da fermo, c'è anche tra i waKamba),
mentre uno di loro, di nome Isaac dice a Ghila che se potesse la sposerebbe!...
e propone uno scambio: vorrebbe il suo pettine e in cambio le dà il suo bel collare di stecchi di legno e osso (che Ghila terrà per almeno un paio d'anni). vedi anche più sotto il post del 16 marzo 2018
E' stato davvero gradevole e interessantissimo, una visita indimenticabile, nella quiete e nel silenzio, con solo alcune voci sommesse, le galline e i bimbi che giocavano. Non mi sentivo uno straniero bianco (muzungu) da tanto erano discreti, gentili e accoglienti. Qualcuno ci diceva in swahili karibuni, benvenuti
(si rivedano il post del 16 marzo scorso, o/e appunto quelli caricati dal 5 nov. 2011)
Ritorniamo soddisfatti al nostro albergo.
Sabato 20 e domenica 21 - Restiamo fermi nel parco dell'albergo, guardiamo un lucertolone (forse un iguana) che c'è nel giardinetto vicino, e dei ragni enormi che fanno le loro tele.
E poi passiamo il tempo passeggiando lungo la spiaggia. Un po' più in là c'è un artigiano (fundi) del legno, che ci fa una targa con su i nostri due cognomi,
e due elefanti che fanno da ferma-libri per uno scaffale
Poi più avanti c'è un albergo dove sono concentrati i turisti israeliani, che incontriamo più volte dato che non son pochi (albergo che a fine novembre, dopo il nostro rientro a casa, verrà dato alle fiamme da estremisti islamisti di al-Qaida provocando una strage in cui i morti sono stati quasi tutti kenioti che lavoravano lì e 16 israeliani). [da allora i rapporti tra i due Paesi si sono azzerati, e solo adesso 2017 stanno riprendendo, e anche in notevole misura]
Andiamo a vedere dei resti di vecchi insediamenti (probabilmente di arabi commercianti di schiavi africani, e di avorio e spezie, all'epoca in cui la città e la costa era sotto il sultano di Zanzibar), e curiosiamo in alcuni paesini e villaggi interni. Poi andiamo a vedere la scuola locale che è qui vicino, e avrebbero bisogno di tante cose ma mancano i fondi...comunque questa come tante altre è una scuola privata, quelle statali sono poche, per cui la gente deve pagare per iscrivere i propri figli, cosa che per molti non è possibile.
Poi il mio diario purtroppo si interrompe, ed è anche questo uno dei motivi per cui non lo avevo completato su questo blog.
Ma ricordo che siamo andati a fare un trip, una gita dal mattino presto alla sera, seguendo la costa a sud di Mombasa per una ottantina di km, con un paesaggio non affascinante almeno lungo la strada statale che attraversa dei poveri paesini, a mio parere paiono più squallidi del villaggio masai che abbiamo appena visitato, e privi di un senso di identità.
Poi passato il fiume Ramisi, giungiamo a Shimoni dove c'è una barriera corallina che andiamo a vedere prendendo una barcaccia:
e poi fino al Parco Nazionale Marino di Kisite che c'è sull'isola di Wasini nella costa sud anch'essa dentro ad una barriera corallina. Lì abbiamo fatto un lungo giro con un barcherozzo in un'area dove si fa scuba & snorkeling, ma noi facciamo solo le immersioni con le pinne e la maschera ed è sufficiente per vedere in quell'acqua veramente cristallina bellissimi fondali e una gran varietà di pesci tropicali. Vediamo dei delfini, dei granchi, stelle marine di varie forme, grandezze e colori (rosse, verdi, azzurre e marroni), lumache di mare, calamari e calamaroni, polipi, paguri, grossi ricci, eccetera, ma sopratutto tanti bellissimi pesci tropicali, che gironzolano tra i coralli. Un vero spettacolo, non si vorrebbe mai smettere e ritornare a riva per andare a mangiare...
Inoltre sull'isola si vedono aironi, e mangrovie, e abbiamo visto anche un millepiedi gigantesco.
Alla sera (ma ormai è già buio) ammiriamo un gruppo di danzatori Ghiryama (o Giriama), molto interessanti. Il loro popolo fa parte di una sorta di confederazione di etnie Bantu affini tra loro (che si chiama Mijikenda, cioè 9 comunità con un unico mito d'origine, e delle quali loro sono la parte maggiore),
governate da Consigli degli anziani (Kambi), mentre nel passato in ogni villaggio c'era una regina. Molti sono andati a vivere e lavorare a Mitwapa. La loro parlata è simile allo swahili. Sono animisti ma anche influenzati dall'Islam (cfr. S.Fresco cit., pp. 170-171). Ancora molto diffusa e sentita la stregoneria e la magia-nera. Danno molta importanza al culto degli antenati, per cui oggi c'è una associazione (Madca) per il recupero e la rivitalizzazione delle tradizioni autoctone. Sono tutt'ora prevalentemente dei contadini.
Bei ritmi, molto incalzanti e stimolanti, accompagnati più dalle percussioni (tamburo in swahili si dice ngoma come la danza) che non dalla voce (kuimba). Le giovani avevano delle gonne larghe colorate e sopra una maglietta, una normale T-shirt, il che rendeva evidente che non avevano reggiseno, e ciò nonostante tutti quei continui traballii, saltelli, scatti e movimenti bruschi.
Lunedì 29 Luglio - Il nostro soggiorno a Kikambala è terminato, domani andremo altrove. Stasera c'è stato un altro spettacolo di una compagnia di balli tradizionali del popolo dei Ngomongo. Si tratta di un gruppo che risiede nel cosiddetto "Ngomongo village", un quartiere dove vivono insieme membri di etnie e tribù diverse che -come lavoro- si dedicano ad eventi vari di carattere folklorico culturale.
Una serie di ritmi con le percussioni introduce le danze. Quattro giovani e quattro ragazze ballavano la danza (ngoma) propiziatoria (ya ukombozi) per un buon raccolto (kwa mavuno), poi quella per la circoncisione maschile (tohara), e infine la danza per la festa delle nozze. Picchiavano con i piedi nudi per terra talmente con forza che si sentiva vibrare la sedia su cui stavamo seduti. I giovani maschi (wavulana) vestivano dei gonnellini fatti di grandi foglie forse di palma, e durante la prima danza portavano anche dei copricapo con delle lunghe piume. Le ragazze (wasichana) giovanissime indossavano prima un perizoma (doti o sketi) sui fianchi, poi un pareo colorato. Di frequente si mettevano in fila andando in cerchio, o per file parallele fronteggiandosi.
Nella danza propiziatoria mimavano l'azione del raccogliere da terra, e di mangiare. Nella danza nuziale (ngoma ya harusi, o mbili) i movimenti erano evocazioni esplicite dell'accoppiamento, si avvicinavano gli uni alle altre saltellando e muovendo il bacino in avanti.
In definitiva questa arte in cui il gesto richiede gestualità, e i movimenti divengono movenze, è la profonda cultura dell'Africa nera. Questo è il loro patrimonio "intangibile" in quanto "immateriale" da proteggere e conservare, coltivare, perpetuare (vedi il Manifesto Unesco per il nuovo Millennio)
Certo le danze, che hanno sempre una valenza spirituale magica collegata a significati simbolici dei riti, andrebbero osservate e gustate in loco e in situazione (cfr. Jung, Ricordi... ecc., cit. sulla danza n'goma, alle pp.322-324).
Sull'importantissimo ed interessante rapporto tra danza e mito si veda la raccolta a cura di Nancy Allison e David Kudler, di testi di Joseph Campbell in: The Ecstasy of Being, JC Foundation, New World Library, 2018.
Qui ora invece i danzatori sono fuori contesto, eseguono un cliché, tuttavia essendo in corso di sparizione molte tradizioni e usi e costumi dell'epoca dei loro nonni, il continuare a praticarle anche solo come lavoro di saperle rendere degli spettacoli per gli stranieri, contribuisce comunque in qualche modo alla conservazione del loro patrimonio culturale immateriale. Qualcuno gliela insegna pure, e li controlla nell'esecuzione corretta. E' forse uno dei pochi "vantaggi" culturali del turismo.
In questa occasione di stasera, una del pubblico, molto presa dai ritmi, si era alzata in piedi e imitava i loro movimenti, e poi è andata da loro, di fronte ad un giovane, durante il ballo matrimoniale. Alla fine si è poi rapidamente dileguata, forse un po' si era vergognata...
Martedì 30 - Ci trasferiamo a nord, a Watamu, Petrus ieri aveva detto che ci avrebbe accompagnato lui al mattino presto con la sua auto (gari). Ma lo aspettiamo alla reception per tre quarti d'ora... Nell'attesa era venuta a parlarci Charity (che si era sciolta le treccine dreadlocks nei capelli). Avevamo notato che era stata assente, e ci dice che lei tempo fa aveva avuto la malaria, da cui però era guarita, mentre ora con sua gran sorpresa si è ridestata... E' venuta ora per dirci che da molto tempo è rimasta senza il marito e chiedendo se posso mandarle per posta qualche soldino ogni tanto in modo che sua figlia possa finire le scuole. Le prometto che lo farò. Vede che sia noi due che i ragazzi abbiamo un cellulare, allora chiede a Ghila se può regalarle il suo. Le spieghiamo che essendo all'estero è importante per noi che ciascuno abbia un cellulare per eventualmente chiamarci. Ma non sembra aver del tutto capito che la sua richiesta era assurda.
Ad un certo punto vado fuori dall'area dell'albergo a vedere in strada se lo vedo arrivare, e vedo che la macchina è già lì, ma dietro al muretto. Si fa avanti un ragazzo mai visto dicendo che lo ha mandato da noi Petrus. Così portiamo fuori i bagagli e partiamo. Kwaheri! (goodbye). L'auto è una vecchia macchina scassata che già avevo visto, ha uno scappamento puzzolente di nafta, e il parabrezza davanti tutto crepato... fortunatamente il giovane ci sembra simpatico.
Dopodiché tutto procede con grande calma, dice: kwenda (to go) slowly, e spesso lui canta una canzoncina che qui si sente dappertutto continuamente, e che fa: "pole pole, sasa", cioè piano piano, sassà, e poi: "kidogo kidogo, hakuna matata" = passo passo (ovvero con leggerezza), non c'è alcun problema... eccetera. (si può ascoltare su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=62WUCZghq9Q ). E' un atteggiamento diffuso di fronte ai problemi e le complicazioni della quotidianità, sia sul lavoro che in casa. Invece i muzungu, gli stranieri europei gli dicono sempre: hurry!, nina haraka, io ho fretta... e indicano l'orologio che hanno al polso.
Comunque si va lungo la costa verso nord, cioè verso Kilifi, e poi ancora più avanti, quasi a Gedi. La cosa positiva è che il ragazzo è simpatico e allegro. Si lamenta del fatto che Petrus è un po' un imbroglioncello, perché si è tenuto lui tutto quello che gli avevo dato di anticipo, e quel che resta della cifra pattuita va quasi consumato in benzina, per cui dice che a lui resterà ben poco...
La strada costiera è molto rovinata e sconnessa, piena di pericolose buche nell'asfalto, per cui bisogna andarci piano per poterle vedere in tempo e evitarle, e i camion e gli autobus fanno tortuosi giri di slalom, cui bisogna stare molto attenti. Quindi per fare poco più di una sessantina di km ci mettiamo più di un'ora e mezza... A volte la strada diventa di terra, ma poi si vede che è terra sopra ad un precedente vecchio manto rovinato di asfalto. Con le frequenti (e di solito brevi) pioggia tutto diviene fango e melma anche molto scivolosa. Ai lati dalla strada spesso non c'è nessun margine, e l'asfalto finisce in modo netto, c'è come un dislivello, per cui bisogna prestare molta e continua attenzione. Il Kenya è forse uno dei paesi africani con maggiore quantità di incidenti stradali anche gravi nonostante vi sia relativamente poco traffico (gli incidenti sono circa dieci volte + che sulle strade italiane nei nostri giorni di alto rischio tipo nel periodo di ferragosto).
Ad un certo punto uno della polizia (askari) stradale ci ferma, e si mette a parlare con il guidatore e intanto indica una foto che è esposta sul cruscotto. Dopo esser ripartiti il ragazzo ci dice che l'uomo della foto era l'autista autorizzato di questa macchina, che forse avremo visto poiché stava spesso ad aspettare davanti al nostro albergo. Poi una sera di pochi giorni fa tornando a casa dopo l'ultimo cliente, è rimasto ucciso, forse per errore.... Il poliziotto ha notato l'auto e la foto esposta e l'ha fermato per informarsi non solo di come mai l'auto la guidasse lui, ma di quell'autista, perché era un amico suo (rafiki).
Il paesaggio, guardando verso l'oceano indiano è molto bello, ma guardando alla sinistra, è costituito da squallidi paesini lungo la strada camionabile come ne abbiamo già visti lungo la costa sud (vedi: viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/kenya-2002-n-9-nei-dintorni-di-mombasa.html ). Questo è il Kenya attuale dei programmi di "sviluppo e di modernizzazione". La povertà che si vede è forse più misera intrinsecamente di quella dei villaggi tradizionali di agricoltori, o allevatori di bestiame e cacciatori, che sopravvivono a fatica ma che perpetuano il rapporto con la natura e i propri valori di culture africane.
c'è una fitta attività di botteghe e botteguccie lungo la strada camionabile
Che cosa ne può restare oggi della cultura autoctona? quasi nulla, tanto più che grandissima parte della popolazione è giovanissima dato il boom demografico ( il 40% han meno di 14 anni, e il 30% tra 15 e 29), comunque tra i valori positivi restano i saperi culinari della cucina, la conoscenza degli erbari e di tutti i suoi poteri curativi naturali,
l'amore per il ritmo e la musica africana, lo spirito rilassato di hakuna matata e di pole pole, che è un vero e proprio savoir vivre di antica saggezza; mentre restano retaggi negativi, tipo superstizioni (essendo quasi svanite le religioni tradizionali, ed avendo attecchito spesso solo superficialmente quelle dei vari missionari), interdizioni e problemi tipo tabù (taabu), e credenze negli spiriti, il far ricorso a guaritori ciarlatani, alla magia nera, alle fattucchiere, e a sedicenti stregoni e taumaturghi, al malocchio, agli incantesimi, a sedicenti veggenti, agli esorcisti ...eccetera. (si veda quel che ne scrivevano ad es. Folco Quilici, Gianni Roghi, o Roberto Bosi):
Lungo la strada ci sono tante belle palme, i bambini che corrono a piedi nudi, o i più grandicelli che ritornano da scuola con le uniformi del loro istituto, e salutano sorridendo.
Il nostro albergo, dove prendiamo due stanze, si chiama "Aquarius", ed è semplice e carino. Ci rilassiamo nei divani all'aperto
Usciamo a vedere il giardino e la spiaggia. Sulle foglie delle palme ci sono tantissimi nidi particolari, come delle sfere compatte. Sono i weaver birds, o uccelli tessitori, ovvero ploceidi (ndege ya ndege), sono come dei passerotti molto colorati, prevalentemente di un giallo squillante, molto carini. Ma ce ne sono anche di neri col petto bianco. Sono ritenuti tra i migliori architetti, in grado di costruire anche nidi molto grandi e complessi, difficili da distruggere.
La grande spiaggia è veramente stupenda, lunga e di sabbia bianca, che nella bassa marea (low tide), emerge e continua per centinaia di metri fino ad unirsi all'isoletta di fronte.
Ghila si è presa una scottata per il cielo limpido e il sole fortissimo, per cui era diventata tutta rossa., e noi avevamo perso le nostre pomate. Allora abbiamo chiesto che cosa si poteva fare e uno molto gentile è andato a tagliare col machete una grossa foglia di un grande cactus lì vicino, e l'ha suddivisa in pezzetti, aprendoli a metà. Per cui spalmando quella crema di aloe fresca e rigenerante, ha fatto molto bene alla pelle, che si è subito calmata, e non è rimasta nessuna ustione. Poi ci ha chiesto una mancia un po' cara per gli standard kenioti, ma ne è valsa la pena.
Dietro c'è una stradina sterrata che va in paese. Lungo il sentiero sentiamo bwana, bwana! e veniamo contornati da ragazzi e ragazzini che ci accompagnano e ci propongono varie cose.
Ci portano a vedere una botteguccia (duka),
ma anche un grande magazzino, che noi diremmo mini-market,
dove potremmo comprare qualcosa per es. da bere (maji ya kuny-wa, drinking water) o da smangiucchiare (kukula). Ghila compra un paio di quaderni per scrivere il suo diario di viaggio. Sono piccoli, di poche pagine, 14 soltanto. La carta è di scadente qualità, ma costano molto poco. Sul retro ci sono le conversioni dalle unità di misura britanniche in quelle decimali, e le tabelline, rese con uno schema differente dal nostro. Sul fronte c'è un disegno di una "gru coronata" con la cresta bianca.
Quindi c'è una Cineteca... cioè una casetta dove si noleggiano video tapes, ma anche dove si possono andare a guardare film, e dunque funziona come fosse un cinema..., il cinema di Watamu!, ma si denomina "Video Show"!
Inoltre c'è una Primary School (shule ya msingi) governativa, tutta contornata da un recinto di filo spinato. E' piena di scritte sul muro, tipo "our motto: Education is Light". Oppure "School mission is to provide education that will make pupils exemplary in all fields of life" (=la missione della scuola è di fornire un'istruzione che renderà gli alunni esemplari in ogni campo della vita).
Fermiamo un insegnante che tra l'altro ci chiede di mandare soldi per aiutare la scuola a comperare il materiale necessario (banchi o anche solo biro, matite colorate, quaderni, libri, lavagnette ecc.) o per pagare uno stipendio per un altro maestro in più.
Sul bordo della spiaggia c'è un bar dell'albergo, e ci sono ben due masai che fanno i guardiani, ma hanno una struttura fisica e un abbigliamento differenti da quei masai che abbiamo conosciuto. Hanno i capelli tagliati corti, senza trecce né le vesti rosse o rossastre, e di una foggia diversa. Tengono in mano anziché un bastone, un frustino di coda di elefante.
Il giorno dopo, il 31 sono poi arrivati vari turisti proprio italiani, che non erano esattamente di nostro gradimento. Allora spuntano due animatori [oddìo!] locali, che dicono di sapere parlare in italiano... Così alla sera c'è stato anche qui uno spettacolino. Non ricordo purtroppo di che popolo o tribù fossero. Le giovani avevano un pareo, mentre i giovani erano a torso nudo. L'animatore per presentarli ha tenuto un discorsetto in inglese, in francese, e in simil-"italiano". La terza parte della prolusione (quella in "italiano") è risultata ridicola, ed è anche a causa di questo che non ho capito la etnia di riferimento della compagnia di ballo, ma non si capiva quasi niente di quel che diceva. Già prima dello show, era venuto da noi e si era presentato dicendo con la mano sul petto: "E come si chiama??" e dopo una pausa: " si chiama Antonio!", e se ne va. I nostri ragazzi si sono trattenuti, ma dopo sono scoppiati a ridere quando ha detto presentando lo spettacolo: "E queste danze, come si chiama??" e poi il difficile nome della loro provenienza... nulla di grave, sono piccoli errori scusabili, ma oramai eravamo prevenuti... Comunque tutti i suoi discorsi erano zeppi di simili errori che a volte generavano confusione, ma sopratutto certe parole non si capivano proprio a causa della sua pronuncia (ma che stesse contento di parlare in inglese e francese!...).
I balli avevano un'aria di fasullo, ed erano mediocri e molto del tipo show "turistico-commerciale". Infatti appena finito, i ballerini hanno fatto subito una sorta di mercatino per vendere dei souvenir. Ormai è così, il turismo ha portato qui il nostro mondo fondato solo sui soldi, money (pesa). Tra questi l'unica cosa interessante e anche curiosa era una trappola per topi che vendevano a caro prezzo. Un aggeggio che attira il topo e subito lo infilza con una punta. Figuriamoci i nostri ragazzi come hanno reagito disgustati... Ma subito degli altri clienti l'hanno voluta comprare.
Dopo di ché iniziano a metter su della musica disco e noi da intellettualoidi schizzinosi ce ne andiamo. Facciamo una passeggiata verso i campi e ci sono sotto un albero tante donne di mezza età sedute tra di loro sul prato che cantano dei cori... che bello che è stato! ci siamo accucciati a distanza in silenzio ad ascoltarle. Una atmosfera stupenda. Anche loro non sappiamo a quale etnia della Coastal Strip potessero appartenere: in tutto il Kenya ci sono circa una settantina di etnie diverse.
(Per gli usi e costumi tradizionali, si vedano i testi di Giorgio Gualco sulla enciclopedia geografica "Il Milione" dell'Istituto DeAgostini, vol. XIII, Novara, 1964, sia sotto Kenya che Tanganyka (poi Tanzania). Per la 2a edizione, cfr. vol. 8°, 2001)
Il 1° agosto sono state presentate delle proposte per dei tours in diverse destinazioni. Tutte carissime. Ma alla fine abbiamo combinato fuori dal residence, e per un programma diverso da quello che avrebbe fatto il gruppo degli italiani, e dunque è così che siamo andati a fare un altro safari fotografico all'interno, questa volta nel grande ecosistema del "Ngorongoro - Serengheti - Maasai Mara" (a cavallo del confine con la Tanzania), facendo dei giri dentro la Riserva Naturale del Maasai Mara. Il Mara è un fiume che si dirige verso il vicino grande lago Nyanza (da noi ancora noto come lago Victoria), e che in luglio viene attraversato dalla cosiddetta "Grande Migrazione" di milioni di animali selvatici che si trasferiscono da sud verso gli altipiani erbosi. Purtroppo per noi, oramai siamo in agosto, ma comunque ne vale la pena lo stesso. Quindi decidiamo per l'offerta più a buon prezzo. Sawa sawa, cioè ok, all right, va bene. Alcune tra i nuovi arrivati hanno detto che se anche il loro partner ci andava, loro preferivano restare in spiaggia (anche perché bisognava farsi trovare già pronti nella sala d'ingresso, per le 5:30 puntuali....).
La Riserva keniota è un triangolo proprio sul confine della Tanzania, a continuazione del grande parco che di là è chiamato Serengheti, quindi è a nord-ovest di Nairobi, e dunque parecchio più a nord di dove siamo noi qui sul mare...
Dunque è ancora buio quando si va all'aerostazione dei voli privati da diporto, a prendere un areoplanino turistico ad elica in cui ci stiamo solo noi e una coppia. L'areostazione consiste di due stanze, una in cui si entra e si fa passare da sè il bagaglio sotto al detector, nell'altra, che è sia per arrivi che partenze (kufika, kuondoka), si entra sotto il controllo di un impiegato, quando l'orario è vicino.
Alle sei c'è già luce. Aiutiamo a girarlo di direzione sulla pista.
Si parte, e per miracolo proprio quando stava per schiantarsi sugli alberi in fondo alla pista, si solleva e inizia il volo. Lo sportello non si chiude benissimo, e inoltre proprio tra il mio sedile e quello vicino c'è uno squarcio nel pavimento per cui si vede sotto. Essendo un aereo piccolo, i vuoti d'aria li prende tutti, e cade giù un poco come sull'ottovolante. Sotto i nostri piedi vediamo le colline delle Highlands, con i suoi villaggi kikuyu (e poi viene alla mente il noto libro di Hemingway "Le nevi del Kilimangiaro", del 1936, o il racconto di Michael Crichton sulla sua estenuante scalata a 5900 m., in "Viaggi" del 1988), ma anche il grande monte Kenya (5200 metri) da qui lo si scorge in lontananza,
e poi scorrono immense praterie sull'altopiano, chiamate highlands, e si vede qualche villaggio masai che si riconosce perché ha il recinto esterno (boma) tutto rotondo. Come scriveva Moravia: «è il paesaggio sublime degli alti pascoli dei Masai (...) forse solo nelle nostre Alpi ci sono pascoli così solitari, remoti e silenziosi; ma soltanto qui, nel cuore dell'Africa, la purezza e la solitudine degli altipiani si alleano stranamente con la luce intensa dei tropici» (cit. p. 11).
Inoltre scorgiamo tante mucche al pascolo, da loro i Masai e le altre etnie di abitanti traggono tutto il loro sostentamento.
Siamo seduti vicinissimi al pilota, e a un certo punto sentiamo che parla in inglese con l'aeroporto d'arrivo, e l'altro dice di fare grande attenzione che c'è contemporaneamente anche un altro aereo turistico. Ci allarmiamo e come lui guardiamo anche noi se si vede sopraggiungere qualcosa, allora si mettono a parlare in swahili per non allarmarci, e insomma poi l'incrocio tra i due viene evitato... (!).
Quindi si atterra su una pista di terra battuta e di erba che non è proprio liscissima... Ecco che il nostro aerotaxi dopo due ore di volo giunge così all' «Aeroporto Internazionale del Masai-Mara», che sarebbe un "aeroporto"... country, ovvero dove sul prato d'atterraggio c'è una capannuccia, che rappresenta la stazione degli Arrivals. Ognuno prima di scendere dall' areoplanino con la scaletta metallica, si prende su con sè la propria borsa
e poi ci si incammina per un sentierino di terra finché dopo un po' si arriva in vista di un Lodge.
Ma lo spettacolo è sorprendente! le camere danno tutte sulla riva del fiume Mara con molta corrente, e c'è come un' ansa che è densamente popolata da ippopotami (kiboko). Questi fanno incessantemente dei muggiti tipo mucca ma più rochi e grezzi, ad alto volume. All'inizio fanno pure un po' ridere, ma dopo un paio d'ore divengono un po' monotoni. C'è anche un piccolo con la madre. Stanno moltissimo tempo sott'acqua, poi dopo spuntano appena solo le orecchie e gli occhi e infine il nasone, e restano così a lungo.
Moravia scriveva che «immersi nell'acqua, ne emergono con le arcate sopracigliari, veri e propri periscopi (...), ogni tanto grugniscono e soffiano; ogni tanto anche defecano e spargono intorno a sè le feci muovendo la loro corta coda porcina» (op. cit., p. 15).
Sembra che oltre alle nostre due camere, in questo lato ci sia solo un'altra stanza occupata.
E' un luogo stupendo e sembra anche qui di essere in un angolo del mondo rimasto come madre natura l'ha fatto milioni d'anni fa.
Restiamo a lungo a guardare come ipnotizzati.
C'è anche un terrazzino di legno con delle panche e ci fermiamo lì. Michele forse più di tutti è ammaliato.
Siamo al "Voyager Lodge". Ci accolgono con dei succhi di frutta tropicale appena spremuti. Andiamo nelle strutture centrali della ricezione dove c'è pure un bar e un negozietto. Lì più avanti c'è uno "spazio all'aperto", un open-space strutturato dove si fanno le carni alla brace e il barbecue. E' proprio di fianco al capannone-ristorante, ma noi preferiamo continuare a restare all'aperto e lungo il fiume, dove si intravedono vari coccodrilli. Poco più in là c'è un anfratto in cui vivacchia un coccodrillone grande e solitario. Intanto si vede passare una lunga biscia d'acqua.
Quando la cena open-air è pronta è già buio. Poi restiamo là a chiacchierare attorno ai falò. Ci sono altri clienti e si ascoltano racconti di chi ha già fatto dei tour. Anche questa atmosfera ha molto fascino. Tranne i muggiti, tutt'intorno è silenzio.
All'improvviso delle urla che provengono dalla capanna-ristorante, impressionati cerchiamo di capire di cosa si tratti, tutti quelli che erano ai tavoli stanno uscendo di corsa agitatissimi, intanto un masai del Lodge corre controcorrente rispetto alla folla e entra nel capannone. Tafferugli, rumori di colpi, urla di chi era rimasto ancora dentro... In definitiva mentre stavano cenando, della gente di un tavolo vicino a una delle pareti di legno e bambù, vede entrare da sotto un grosso serpente, ecco che scattano in piedi urlando e cominciano a correre verso l'uscita e così anche altri, intanto arriva il masai addetto alla sicurezza con un grosso bastone un po' particolare e va dritto verso il serpentone e comincia a menar gran nerbate per colpirlo alla testa prima che quello faccia dei guizzi e salti, in pochissimi forti colpi lo ha beccato ed ora è steso morto... Tutti possono a questo punto rientrare.
Appena esce il masai gli andiamo incontro per ringraziarlo (ahsante, thanks) e per complimentarci del suo coraggio e della sua abilità. Commenta un poco (non sa gran che l'inglese), e gli chiedo se posso immortalare il ricordo di questo evento facendogli una foto. Accetta, e Ghila pur ancora impressionata vuole entrare nella foto accanto a lui. Molti masai essendo esperti cacciatori trovano lavoro nei lodge come guardiani.
Il mattino dopo, ancora prima dell'alba saliamo con pochi altri sul cassone di un camion tutto aperto (è un matatu anche questo) e partiamo con il buio. Arriviamo nel luogo dove iniziare il safari, proprio appena spunta il sole, è l'orario migliore.
Non poteva non venirmi in mente la storiella che era uno spot della Gatorade, e che viene raccontata da Aldo, Giovanni e Giacomo nel film "Così è la vita" (1998). Si tratta di un detto africano che fu riportato nel 1985 da Dan Montano nel suo articolo "Lions or gazzelles?": «Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, una gazzella si sveglia e sa che dovrà correre più del leone o verrà uccisa. Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, un leone si sveglia e sa che dovrà correre più della gazzella o morirà di fame. Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, non importa che tu sia leone o gazzella, l'importante è che cominci a correre.» (The Fable of the Lion and the Gazelle, QuoteInvestigator.com, 5 agosto 2011).
All'intervallo-pranzo in un rifugio in mezzo alla savana, compriamo varie cartoline di alcuni Big Fives e di altri bestioloni.
Comunque ancora mancavano p.es. foto della costa nord, per cui ora -visto il relativo discreto interesse suscitato dal Kenya- vorrei colmare quella mancanza anche con alcune altre foto tralasciate (forse perché le ritenevo in quel momento un po' troppo turistiche e personali, ma ora riguardandole credo che alcune potrebbero invece interessare)...
Il Kenya è stata una colonia facente parte della British East Africa, e dal 1961 ha conquistato l'autonomia interna, e alla fine del '63 l'indipendenza, e un anno dopo ha proclamato la repubblica (Jamhuri ya Kenya). Dal 1992 ha un parlamento multipartitico. Fa parte del Commonwealth britannico. Aveva nel 1962 circa 8milioni e 6centomila ab, poi nel 1989 24 mil. di ab. [e oggi 45 milioni]. E' grande il doppio dell'Italia. La valuta è lo scellino (nel 2001 era pari a circa 37 lire it.).
La metà degli abitanti si dichiaravano aderenti a varie chiese cristiane, ma la gran parte di fatto è tutt'ora animista e pratica o culti africani tradizionali, o culti sincretici; e in questi ultimi anni i musulmani sono in aumento, e specie sulla costa, per cui sarebbero diventati ora circa l' 11%.
Inoltre i maggiori gruppi etnici sono i Kikuyu (17,7$), i Luhya (12,4%), i Luo (10,6%), i Kalenjin (10%), e i Kamba o waKamba (9,8%), ecc.
Ciascun gruppo etnico parla in una propria lingua, ma la lingua comune di comunicazione in tutta l'Africa Orientale ex-britannica, e oltre, è lo swahili, o ki-shwahili, che è una lingua del grande ceppo Bantu, e in particolare della "famiglia linguistica" niger-kordofiana, largamente diffusa e utilizzata.
Quindi appena arrivati prendiamo un vocabolarietto (peraltro inutile anche se di 102 pagine), ma in realtà tutti quelli che hanno a che fare col turismo o con il commercio e gli affari (e non solo loro), sanno l'inglese che è la seconda lingua ufficiale, e la lingua dei rapporti con l'estero, e che si studia a scuola fin dalle primarie, per cui non c'è quasi mai alcuna difficoltà di comunicazione.
può anche essere divertente leggere qui e là questo libretto....
(per la storia politico-sociale cfr. J. Sellier, Atlante dei popoli dell'Africa, éditions La Découverte, Paris, 2003, 2008, tr. it. Centro A.Cabral - il Ponte, Bologna, 2009)
E cfr. anche:
Paesi e popoli dell'Africa orientale exBritannica:
bandiera kenyota
l'unica carta stradale che 16 anni fa avevo trovato prima di partire era stata questa della "Michelin-gomme", relativa alla metà sud del continente... (l'equatore passa proprio sulla cima del monte Kenya).
Abbiamo viaggiato con dei piccoli bussini, o con dei taxi locali (in lingua swahili: matatu), o con barche, a seconda della situazione. Eravamo io e Annalisa e i nostri due figli: Ghila già 22enne, e Michele quindicenne.
Ghila era rimasta affascinata dalle sottili e numerosissime treccine fini con nodi (african braids, o dreadlocks) che avevano le ragazze locali. Da noi non era ancora arrivata questa acconciatura come moda, ma sarebbe arrivata poco dopo. Quindi a Malindi si sottopose al lungo lavoro di intrecciatura fatta come si deve.
Michele invece era rimasto affascinato da alcuni danzatori che avevamo visto esibirsi giorni prima, e quindi per un po' aveva portato un lungo pareo e una collana composta di legnetti e pezzi di osso (wood 'n bones bow collar), comprata poco prima da Annalisa in un mercatino, tirandosi indietro i suoi folti capelli rasta. A motivo dei suoi rasta molti giovani lo fermavano in strada e lo chiamavano brother, "fratello". E dopo i dreads (che sono anch'essi di origine rasta) anche a Ghila dicevano sister...
Ecco questo contribuisce a dare il contesto del nostro viaggio, che era iniziato con una breve sosta a Nairobi, al "Fairwiew" hotel (scelto perché descritto come "familiare, e in stile coloniale"), per poi recarci vicino a Mombasa all'albergo "Sun 'n Sand" che avevamo prenotato (perché è un Beach hotel, ed è gestito da una unica famiglia keniota, i Visram), e si trova infatti sul grande spiaggione, con alle spalle vari piccoli villaggi e la estrema periferia nord di Mombasa.
La costa qui ha un certo aspetto con l'alta marea, ma poi con la bassa marea (low tide) emerge una grande piattaforma fatta da incrostazioni di materia corallina varia (barrier Reef), in cui si possono facilmente prendere (e poi rilasciare) stelle marine, pesci, crostacei, ricci, alghe, eccetera (vedi: http://viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/kenya-2002-n-8-un-parco-marino.html ).
Prima di partire mi ero riletto il libro di Kuki Gallman che avevo preso vari anni fa, e dunque ero pieno di aspettative. Anni fa avevamo visto il film di Sidney Pollak, e poi letto il libro di Karen Blixen di prima della guerra... E mi venivano in mente anche le affascinanti annotazioni di Jung in un suo viaggio del 1925 in Kenya e Uganda (cfr. Ricordi, sogni e riflessioni, trad.it. Rizzoli, 1978, cap. "Viaggi", §. 3, da p. 303 e segg).
Una nostra amica ci aveva un po' raccontato del paese vicino, la Tanzania, nella sua realtà di oggi, e di quanto l'Africa orientale era cambiata, quindi volevamo andare a vedere.
Inoltre ricordavo i viaggi di Moravia e di Pasolini in Africa (oltre a quelli di Quilici e di Roghi), che mi affascinarono in gioventù (anche se con Moravia non mi ero trovato in sintonia come con gli altri).
Poi ero rimasto ammaliato dai servizi giornalistici del "fotoreporter" (termine da lui stesso coniato) Federico Patellani sul Kenya per il settimanale "Tempo" (ma anche da quelli più in generale relativi ai paesi dell'Africa centrale, dal Congo all'Etiopia, intitolati "Viaggi nel Paradiso nero", Mondadori, 1959), con stupende fotografie.
Ma procedendo con ordine:
DIARIO DI VIAGGIO
Lunedì 15 luglio - all'arrivo ci aspettiamo che venga un certo Cyrus a prenderci, ma in vece sua c'è un taxista sostituto, con un grande cartello con scritto PANCERA decorato da tanti puntini colorati. Ci porta con la sua auto scassatona che fa uscire dallo scappamento un forte odore di nafta, e in Bishop Road proprio di fronte alla ambasciata israeliana c'è il Fairview, che è stato fondato nel 1950 da un polacco, ed ha un bel giardino. Arriviamo che sta facendo sera, poiché essendo in fascia equatoriale la luce dura 12 ore (dalle 6 alle 18).
Michele è subito contento di avere una gran zanzariera sul letto (ed essendo stanco vorrebbe infilarsi subito sotto le coperte). La capitale, che all'indipendenza nel 1962 aveva 270mila ab., poi nel 1989 se ne stimano: 1milione e 4centomila ab. [mentre oggi, stima 2017: 4 milioni il grande agglomerato].
Consumiamo una piccola cena davanti al caminetto acceso. Ci dicono che non ha senso andare fino a Mombasa via strada, è troppo lungo, è e nemmeno col treno, mentre è più pratico prendere un voletto interno che è anche a buon prezzo. Cyrus dice che ci porta lui all'aeroporto Domestic Flights se ci andiamo di prima mattina, e telefona al ns albergo per dire di venire a prenderci. Intanto ci insegna che il saluto in lingua locale si dice jambo.
L'aria è proprio freschina! Ci sono tante stelle, e si sentono aromi e suoni diversi. Se non fossimo stanchi e frastornati sarebbe stato bello fermarsi fuori con un maglione, a ad assaporare l'ambiente e fare due chiacchiere sotto le stelle...
Invece dopo dieci minuti già ci avviamo a dormire.
Martedì 16 - All'alba ci porta Cyrus con la sua macchina. Si vede tantissima gente che sta convergendo dalle campagne verso la città a piedi lungo dei sentieri in mezzo ai prati. Vanno ai luoghi di lavoro, oppure al mercato. E' uno spettacolo impressionante vedere questa fiumana che ancora nel semi-buio e ai primissimi chiarori, sfila silenziosa. In periferia della capitale ci sono grandi baraccopoli. Ci sono sentieri anche che tagliano come scorciatoie tra una via e l'altra dato che la città è costruita senza stretta continuità edilizia quindi ci sono ancora pezzi di campagna in mezzo alle nuove case. L'aeroporto per i voli interni è vicino, ed è molto "alla buona", spartano diciamo, c'è il detector per i bagagli che è come un self service, un fai-da-te, e chi per caso è vicino ti aiuta a metterli sul nastro.
A Mombasa ci aspetta uno dell'albergo anche lui arriva esibendo un cartello di cartone con scritto il cognome. Chiunque ci aiuta a portare e mettere le borse nel portabagagli. L'albergo è fuori, un po' più a nord, a Kikambala, sono solo 35 km di strada molto accidentata, che richiedono almeno tre quarti d'ora o più. Si attraversa una periferia sgangherata di Mombasa e poi aree di povere bidonvilles, e poi paesini nel fango lungo la strada statale. Ma ci sono anche dei negozietti tipo cyber-café che mi fanno ritornare alla mente "Nirvana" di Salvadores.
Dopo l'area del Parco nazionale marino, per proteggere le mangrovie e la vegetazione costiera (aperto nel 1986), superiamo Shimo Latewa dove ci sono alberghi sulla costa, si passa un ponte nuovo da cui si vede una bella insenatura, e si attraversano piantagioni di agave da sisal, e molti baobab sparsi. Si giunge al paese di Mtwapa, nei cui dintorni ci sono le rovine di un insediamento arabo del XIV sec. dove i "negrieri" arabi che facevano il mercato degli schiavi, li imbarcavano per varie destinazioni. E' stato reso visitabile dal 1972. C'è anche un Rettilario, e un Acquario che è il più grande del Kenya, più oltre c'è un orchideario, e poi un villaggio di Masai.
Arriviamo infine a Kikambala. Il nostro albergo è lungo la riva e non è sulla strada principale (e questo farà una certa differenza per le gite in giro). E' veramente bello ed è proprio all-inclusive.
Andiamo a guardare un po' dappertutto, mangiamo una prima colazione self service, eccetera, e già ci pare impossibile che siamo arrivati in Kenya soltanto da ieri. Al pomeriggio andiamo nella spiaggia. Questa è frequentata da pochi camminatori, prevalentemente gente del luogo (dipendenti o lavoratori, oppure piccoli artigiani o turisti kenioti di Nairobi, o indiani), comunque si tratta di una manciata di individui, anche perché quasi nessun turista europeo esce da solo dai limiti dell'area degli alberghi.
con alta marea (sopra) e con la bassa
(vedi: http://viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/kenya-2002-n-8-un-parco-marino.html ).Quando appunto è bassa marea si riesce a camminare sulla concrezione di materiale madreporico, e si trovano pesci, ricci, seppie, eccetera (andarci con gli infradito, o zoccoli, o scarpette di plastica !)
cfr. per altre foto viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/kenya-2002-n-8-un-parco-marino.html
Dopo cena c'è musica dal vivo, un complessino suona ritmi tipo quelli di Miriam Makeba. Questa è l'anima dell'Africa!
Per una conoscenza del Paese, dopo aver assaporato l'odore del mare e quello della terra, e aver ammirato la vegetazione che essa produce,
vengono i prodotti della sua cultura, e in Africa nera sono innanzi tutto i ritmi, la musica, le danze, gli strumenti musicali, ... in questo la grande madre Africa, da cui tutti noi proveniamo, è stata la prima maestra. Inoltre poi ci sono gli strumenti, gli attrezzi, e poi anche i decori del corpo, l'abbigliamento, con i loro tipici disegni e colori,
e poi c'è l'elaborazione delle tecniche di lavorazione del terreno, eccetera ecc.
Per cui in principio, agli albori della cultura umana c' erano: la voce e i ritmi, cioè musica e danza, in quanto parte intrinseca dei riti, dei cerimoniali, ecc. quindi dell'aspetto spirituale e della sua comunicazione.
Poi verso sera arrivano dei danzatori Masai (o Maasai). Avevamo già visto nel villaggio dopo Mtwapa, tre di loro. Apparentemente sembrano più giovani di quel che forse sono, ma a parte alcuni ventenni, gli altri sono trentenni. Si impegnano molto, e sono danze veramente interessanti e di notevole effetto sopratutto nella seconda parte perché è una danza corale ritmata con lunghi bastoni ed eseguita nel buio. Davvero suggestiva (cfr.: viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/in-un-villaggio-di-masai-2002-3-danze.html ). E in generale rivedi il post del 16 marzo scorso.
poi ci fermiamo a chiacchierare (curiosi noi / curiosi loro)
eccoli qui con Annalisa
I Maasai (circa 2,2% degli ab. del Kenya) sono un popolo di origine cuscitica-nilotica, che un tempo erano nomadi, pastori o mandriani, e cacciatori, ma già da mezzo secolo si sono sedentarizzati e all'allevamento di bovini (o ancora di caprini e ovini) hanno affiancato l' orticoltura e un po' di agricoltura. Comunque alcune battute di caccia ogni tanto non mancano mai. In genere sono longilinei e alti. A caccia portano uno scudo ovale in pelle decorato e una lancia a lama lunga, o comunque un lungo bastone come quello visto sopra, e un bastone a forma di mazza per uccidere serpenti e piccoli animali selvatici. Ma utilizzano anche l'arco per selvaggina e uccellagione. E' importante per i maschi dare prove di coraggio, ad esempio tenendo lontani dal villaggio leoni o grossi felini. Oltre che di carne si cibano di latte di vacca, e di sangue bovino tramite salassi. Sia uomini che donne sono sempre agghindati con monili, bracciali, spille, fermagli, penne e piume, eccetera. Le donne in particolare portano grandi collari di metallo con infilate perline colorate. Nei villaggi qui verso la costa i maschi vestono una tunica dipinta di rosso (o a quadretti rosso-neri), e le donne in blu. Già da più di mezzo secolo sono in conflitto con i Kikuyu (17,2%) che hanno invaso i loro antichi territori al Nord del Kenya. Negli ultimi tempi molti masai fanno il lavoro di guardiani in alberghi o in imprese varie.
Mercoledì 17 - Una coppia di clienti australiani si sposa...qui?! E qualche ora dopo di loro anche un'altra coppia, che ha fatto venire per l'occasione un complesso di danzatori perché facciano una cerimonia di nozze tradizionale kenyana. Ci fermiamo ad assistere. Una gentile impiegata locale, che si occupa del centro giochi per intrattenere i bambini dei clienti, di nome Charity, dice che quella gente sono dei bantu Wa-Kamba, un popolo molto tradizionalista che rifiuta persino di inviare i figli alle scuole, per poter continuare a vivere al proprio modo, secondo vecchie consuetudini. Lei non li capisce e non è d'accordo con le loro scelte.
Prima cominciano con un ballo abbastanza "rilassato" e con movimenti aggraziati:
Poi danno il via a ritmi più intensi e danze concitate (e cambiano gonna):
una specie di maracas home-made,
una lattina schiacciata e traforata con dentro piccoli sassolini o semi
una lattina schiacciata e traforata con dentro piccoli sassolini o semi
i tamburi con pelle di capra sono potenti strumenti a percussione
Che ritmi! l'Africa (tramite i suoi deportati) è stata maestra della musica del sud degli Stati Uniti, delle Antille, dei Caraibi, e del Centro-Sud America, Brasile compreso! (Sull'argomento cfr. di Folco Quilici, Malimba, la nuova Africa al festival di Dakar, De Donato, Bari, 1964,
e su musica e danze africane vedi sull'Etiopia l'ultima parte del mio Post: http://viaggiareperculture.blogspot.com/ 2017/10/viaggio-in-etiopia-20-da-addis-bishoftu.html ; e su altri paesi africani v. la serie etnografica, nn.3 e 7, per Sudafrica e Swaziland).
Quando hanno finito mi vado a complimentare con loro per l'interessante esibizione, e dico che sono stati davvero molto bravi e che si vedeva che ci avevano messo tutto il loro animo (la quasi totalità degli ospiti non li c. neanche, stavano voltati da un'altra parte, o passavano tra i ballerini (!), o erano al tavolo chini sui cellulari... o chiacchieravano tra loro...!). Le loro danze hanno una tradizione di lunghissimo periodo, e risalgono ai tempi ancestrali della formazione della loro specificità culturale.
il meritato riposo (tutti sudatissimi)
L'etnologo Roberto Bosi diceva di loro che sono agricoltori patriarcali della valle del fiume Tana, che vivono in capanne ad alveare. Sono ripartiti in clan totemici esogamici, e conservano ancora alcuni tratti di matriarcato. Tradizionalmente il loro Essere Supremo era chiamato Mulungu, cui oggi si sovrappongono influenze islamiche. (cfr. Dizionario di Etnologia, Mondadori, 1958, p.187) (consistono nel 10% circa della popolazione complessiva del Kenya).
danza della tribù Kamba a fine aa.'50 (foto Gatti)
il salto in alto dei danzatori (idem)
Al self-service si mangia molto bene. Ci sono piatti della gastronomia africana, e anche per vegetariani, e piatti della cucina "internazionale", e i clienti indiani hanno una loro sala a parte, ripartita in veg, non-veg, e vegan (o strictly veg). Assaggiare piatti di una culinaria diversa dalla abituale, introduce alla comprensione di una cultura. Sedici anni fa in Italia c'erano ben pochi libri di ricette africane:
new edition, 1970
Aisha Fall, 2005
Dahlia, 2014
Fatou Dieng, 2012
B. DeFilippis, 2016
Poi in serata scambiamo due parole con un belga, ma fiammingo (parlando in inglese ... non in francese), che fa il busker (musicista itinerante) e va in giro con moglie e figlio, e dunque conosce già un po' il Paese e la gente.
Giovedì 18 - Andiamo a fare un giro con un certo Petrus che ha una sua minuscola agenzia in un micro-ufficietto, un cubetto di cemento, totalmente spoglio, dentro a cui parliamo e combiniamo, ma è abbastanza organizzato e sopratutto più a buon prezzo del front desk dell'albergo per le gite.
Saliamo sul suo matatu privato, noi e uno M'zee (cioè un anziano), e un'altra coppia di francesi. Andiamo a Mombasa, così lungo il percorso rivediamo (ma in un orario diverso) sia il paese di Kikambala, che poi Mtwapa.
A Nyiali visitiamo una manifattura di oggetti, soprammobili, souvenirs, e statuine ed intagli su legno. Ogni artigiano, seduto per terra, fa il suo oggetto, che sarà sempre quello stesso. E' una wood carving fabric, piuttosto grande. Comperiamo alcune cose che ci paiono veramente belle (ma che ci stiano poi nelle nostre borse al ritorno...).
C'erano fuori dall'ingresso, scritte col gesso su delle lavagne, tutte le regole da seguire da parte di chi ci lavora, compiti dei diversi capannoni, e i turni degli artigiani
i vari capannoni, o reparti di lavorazione
Poi a Mombasa gironzoliamo per la città vecchia la Old Town, che è tutta su un'isola cui si accede con il New Nyali bridge. Visitiamo un tempio a Krishna, vediamo alcune moschee, e poi ci soffermiamo a Fort Jesus, il fortilizio portoghese di fine Cinquecento (dove c'è un gabinetto di high level), che dà sulla insenatura del vecchio porto (Mombasa Harbour), e in un bar, e prendiamo delle cartoline. Vediamo le famose grandi zanne di ingresso alla città sulla Moi Avenue.
Poi il vecchio hotel coloniale "Manor" del 1908, e lo Yacht Club. Dal suo porto si commerciavano avorio (facendo strage di zanne di elefanti), pellami, corna di rinoceronti, olio di cocco, spezie, ma anche rame e oro.
Da molte generazioni è presente qui una folta comunità di commercianti indiani:
(da idem)
Insomma a fine giornata abbiamo comperato un sacco di cose!... Un po' troppe per i nostri bagagli, e considerando anche che siamo solo all'inizio, ma sono davvero carine e attraenti.
A Ghila piace una statuina di un Masai, che si metterà sullo scaffale di camera sua,
poi noi compreremo uno schermo per lampada con disegnati degli animali africani,
e sopratutto una bellissima scultura in legno di un ghepardo coi suoi due cuccioli: che metteremo su uno scaffale della libreria in sala
e dei ferma-capelli, un piccolo ippopotamo in legno da regalare, delle posate da insalata, un porta noccioline o pistacchi su un treppiede pieghevole intagliato da un unico pezzo di legno
e infine da un indiano davanti a un tempio hinduista, prendiamo due collanine... e una statuetta di un cosiddetto "stregone" di villaggio del nord kenyota
questa statuina raffigura uno M'zee (plurale Wazee),
un vecchio saggio a capo delle cerimonie e riti
Ormai abbiamo orecchiato alcune parole ed espressioni nella lingua locale, che è il ki-Shwahili, anche grazie al fatto che in diversi quando ci vedono ci canticchiano la musichetta della colonna sonora del film-cartone disneyano "The Lion King" (il re leone, 1994), cioè "hakuna matata", e anche altre, tipo per es. la canzoncina "Jambo Buana", con il testo del coro giovanile keniano che si chiama "Uyoga", cioè "funghi" (così imparo una parola per me importante ai pasti, perché sono allergico ai funghi):
Jambo! (ciao!), Jambo Bwana (hi! Sir, salve Signore), habari gani? (how are you? come sta?), Mzuri sana (very fine, molto bene) Wageni Mwa-Karibishwa (i visitatori son benvenuti), Kenya yeti (il nostro Kenya), hakuna matata (no worries, don't worry, nessun problema)...
Con le note si facilita l'assuefarsi a vocaboli dai suoni strani, e ad apprendere divertendosi almeno alcuni rudimenti basilari della lingua del posto. E in effetti il ritornello ti si ficca in testa e poi non riesci a togliertelo di mente (vedi: youtube.com/watch?v=fK0wPpLryc4 ). Presto aggiungeremo: kazi mzuri (=good bye), e Watu wote (all of us, tutti quanti).
Venerdì 19 - Ci alziamo prima dell'alba per andare con Petrus ad un safari fotografico (safari vuol dire semplicemente tour, giro, viaggio - una volta chiamavano così le battute di caccia grossa ora proibite per legge). Una sosta per prendere su due francesi, e torniamo a Mombasa, e poi con anche due neozelandesi, compiliamo delle richieste di ingresso, e altre scartoffie, all'Ufficio Parchi nazionali. Quindi finalmente partiamo verso Tsavo. Sosta a metà strada per "toilette" e "bar" ad un punto-ristoro, e infine riprendiamo l'auto e dopo un percorso da Mombasa di un centinaio di km arriviamo all'ingresso dello Tsavo-Est.
Sbrighiamo rapidamente le formalità all'entrata
e finalmente inizia la visita (non si può scendere dall'auto, e in prossimità di animali vanno mantenuti chiusi i finestrini, non si può dar loro nulla, non si butta spazzatura ma la si riporta con sè). Siamo appena entrati da pochi metri, e l'autista si ferma...? nel nulla qui tutt'attorno non mi pare ci sia niente da vedere... dice "scendete e guardate questi", scendiamo e davanti a mezzo metro dalle ruote vediamo una fila di formiconi che così grossi non ne avevo mai neanche immaginati...
Magnifico ed emozionante Parco Naturale. E' enorme, di 12 mila km quadrati di superficie.
(per il Parco vedi i tre post 5-6-7: viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/kenya-2002-n-5-il-parco-naturale-di.html )
Strepitoso e indimenticabile il panorama dal bar sopraelevato
elefante =Ndovu
individui di età diverse ma di uno stesso gruppo familiare all'abbeveratoio
Prendo nota degli animali visti e sono molti, per cui poi aggiornerò via via l'elenco man mano che andremo in altri parchi e posti. Per il momento sono stati:
grosse formiche, struzzi (mbuni), gazzelle orix del tipo Grant, antilopi (swala), termitai, uccelli azzurri tipo storno, grandi uccelli bianchi e neri, giraffe (twiga), elefanti (ndovu o tembo), coccodrilli (mamba), dei sauri (lucertoloni di tre specie), babbuini (nugu o nyani), una specie di grosso scoiattolone (rock squirrel), dei tacchini un po' più piccoli del nostro solito, scuri e a quadretti..., una leonessa (simba), dei cuccioli di ghepardo, in inglese cheetah (duma), e zebre (punda), gnù, e una sorta di aquila, vari uccellini, una antilope Topi, dei facoceri (ngiri), vari bufali (mbogo), delle antilopi-Kobo. Non avrei mai creduto di poterne vedere così tante specie diverse... Che emozione osservarli mentre sono liberi a casa loro, liberi !
our Lady la signora leonessa
un incontro forse un po' troppo ravvicinato con un'altra Lady leonessa (già sazia): che bella miciona!
gheparda e ghepardini
attenzione: bufalo in vista! (ma non imbufalito)
Moravia dice: «con quelle corna pesanti calcate sugli occhi come un cappello»
Poi alla sera dopo aver sistemato le nostre cose nel Lodge dove passeremo la notte, tramite un tunnel coperto, si giunge in un bunker con feritoie vicinissimo ad uno stagno di abbeveramento, che sta controvento e se si resta in perfetto silenzio gli animali che vengono non si accorgono di noi (o sono abituati). Così si ha il brivido di osservarli proprio bene da vicino. Abbiamo assistito a delle scene indimenticabili
(vedi: https://viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/kenya-2002-n-6-il-parco-naturale-di.html ).
In piena notte dei rumori strani ci svegliano, andiamo alla finestra e vediamo che una mamma elefante ha portato qui il suo cucciolo elefantino, a mangiare quel che c'è in giardino, per cui stanno distruggendo fiori, cespugli e tutto quanto. Degli impiegati escono per scacciarli via, ma la mamma si infurio quando vede che vogliono scacciare il suo piccolo e comincia a attaccare. Tutti in un batter d'occhio o sono scattati e saliti velocissimi su degli alberi, o si sono buttati giù dalla scarpata, o son corsi via....
Su questa esperienza del Parco Naturale, Moravia scrive che aveva creduto di vedere il paradiso terrestre, mentre non è così. Anche se in un suo articolo su "Il Gazzettino" (20/05/1987) aveva scritto che l'Africa conserva «il fascino del mistero», e anche se apprezza il fatto che una riserva naturale «salva dallo sterminio che già fece scomparire i bisonti americani», però poi lo snobba dicendo che è viceversa un territorio «preservato apposta per il consumo turistico (...) qualche cosa cioè di assolutamente artificioso» dove gli animali stessi «sono una contraddizione eloquente: liberi ma controllati, debbono la loro esistenza ad un mito (...) che a sua volta è il prodotto di una civiltà utilitaria e consumistica che implicitamente minaccia questa loro esistenza». Scrive che «il mito è quello del Paradiso Terrestre nel quale l'uomo e gli animali vivevano in buon accordo prima della cacciata». Il paradiso terrestre «viene consumato, ossia diviene una merce come tutte le altre...». E conclude: « Così in fondo al mito ecologico troviamo il mito del ritorno all'Eden» (da Passeggiate africane, Bompiani, 1987, cap.2)
Non direi che le cose stiano solo così. Io non mi sento per nulla d'accordo (come già accennavo all'inizio), e poi così si guasta tutto il piacere e l'emozione di poter girare per un area immensa dove la natura è incontaminata e i suoi abitanti animali possono proseguire la loro vita come è sempre stata. È un privilegio poter fare l' esperienza di immergersi in questo grandioso contesto, esser parte di un mondo nella sua integrità primordiale, osservare da vicino la vita animale, esperienza toccante che a me invece ha dato molto sia in termini emotivi che di riflessione.
Venerdì 19 - Ritornando verso il nostro albergo, facciamo una lunga deviazione (in cui incrociamo dei waKamba che vivono in un villaggio che resta dentro all'area del Parco, che riportano al loro villaggio delle fascine per il focolare) e quindi una lunga sosta per entrare in un villaggio (manyatta) Maasai e visitarlo, ci siamo solo noi, ci viene incontro un gentile e alto masai che sa benissimo l'inglese, e ci accompagna dentro al recinto (boma) di grossi arbusti molto spinosi. Possiamo con discrezione stare ad osservare la vita quotidiana e fare foto
(vedi i tre post: viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/in-un-villaggio-di-masai-2002-1.html ).
le capanne hanno pareti fatte di fango e di escrementi di vacca mischiati, con una intelaiatura di rami secchi, e il tetto è poi ricoperto di paglia
donne e bambini
adolescente da poco divenuto già un giovane adulto
mentre uno di loro, di nome Isaac dice a Ghila che se potesse la sposerebbe!...
e propone uno scambio: vorrebbe il suo pettine e in cambio le dà il suo bel collare di stecchi di legno e osso (che Ghila terrà per almeno un paio d'anni). vedi anche più sotto il post del 16 marzo 2018
E' stato davvero gradevole e interessantissimo, una visita indimenticabile, nella quiete e nel silenzio, con solo alcune voci sommesse, le galline e i bimbi che giocavano. Non mi sentivo uno straniero bianco (muzungu) da tanto erano discreti, gentili e accoglienti. Qualcuno ci diceva in swahili karibuni, benvenuti
(si rivedano il post del 16 marzo scorso, o/e appunto quelli caricati dal 5 nov. 2011)
Ritorniamo soddisfatti al nostro albergo.
Sabato 20 e domenica 21 - Restiamo fermi nel parco dell'albergo, guardiamo un lucertolone (forse un iguana) che c'è nel giardinetto vicino, e dei ragni enormi che fanno le loro tele.
E poi passiamo il tempo passeggiando lungo la spiaggia. Un po' più in là c'è un artigiano (fundi) del legno, che ci fa una targa con su i nostri due cognomi,
e due elefanti che fanno da ferma-libri per uno scaffale
Poi più avanti c'è un albergo dove sono concentrati i turisti israeliani, che incontriamo più volte dato che non son pochi (albergo che a fine novembre, dopo il nostro rientro a casa, verrà dato alle fiamme da estremisti islamisti di al-Qaida provocando una strage in cui i morti sono stati quasi tutti kenioti che lavoravano lì e 16 israeliani). [da allora i rapporti tra i due Paesi si sono azzerati, e solo adesso 2017 stanno riprendendo, e anche in notevole misura]
Andiamo a vedere dei resti di vecchi insediamenti (probabilmente di arabi commercianti di schiavi africani, e di avorio e spezie, all'epoca in cui la città e la costa era sotto il sultano di Zanzibar), e curiosiamo in alcuni paesini e villaggi interni. Poi andiamo a vedere la scuola locale che è qui vicino, e avrebbero bisogno di tante cose ma mancano i fondi...comunque questa come tante altre è una scuola privata, quelle statali sono poche, per cui la gente deve pagare per iscrivere i propri figli, cosa che per molti non è possibile.
Poi il mio diario purtroppo si interrompe, ed è anche questo uno dei motivi per cui non lo avevo completato su questo blog.
Ma ricordo che siamo andati a fare un trip, una gita dal mattino presto alla sera, seguendo la costa a sud di Mombasa per una ottantina di km, con un paesaggio non affascinante almeno lungo la strada statale che attraversa dei poveri paesini, a mio parere paiono più squallidi del villaggio masai che abbiamo appena visitato, e privi di un senso di identità.
Poi passato il fiume Ramisi, giungiamo a Shimoni dove c'è una barriera corallina che andiamo a vedere prendendo una barcaccia:
e poi fino al Parco Nazionale Marino di Kisite che c'è sull'isola di Wasini nella costa sud anch'essa dentro ad una barriera corallina. Lì abbiamo fatto un lungo giro con un barcherozzo in un'area dove si fa scuba & snorkeling, ma noi facciamo solo le immersioni con le pinne e la maschera ed è sufficiente per vedere in quell'acqua veramente cristallina bellissimi fondali e una gran varietà di pesci tropicali. Vediamo dei delfini, dei granchi, stelle marine di varie forme, grandezze e colori (rosse, verdi, azzurre e marroni), lumache di mare, calamari e calamaroni, polipi, paguri, grossi ricci, eccetera, ma sopratutto tanti bellissimi pesci tropicali, che gironzolano tra i coralli. Un vero spettacolo, non si vorrebbe mai smettere e ritornare a riva per andare a mangiare...
Alla sera (ma ormai è già buio) ammiriamo un gruppo di danzatori Ghiryama (o Giriama), molto interessanti. Il loro popolo fa parte di una sorta di confederazione di etnie Bantu affini tra loro (che si chiama Mijikenda, cioè 9 comunità con un unico mito d'origine, e delle quali loro sono la parte maggiore),
governate da Consigli degli anziani (Kambi), mentre nel passato in ogni villaggio c'era una regina. Molti sono andati a vivere e lavorare a Mitwapa. La loro parlata è simile allo swahili. Sono animisti ma anche influenzati dall'Islam (cfr. S.Fresco cit., pp. 170-171). Ancora molto diffusa e sentita la stregoneria e la magia-nera. Danno molta importanza al culto degli antenati, per cui oggi c'è una associazione (Madca) per il recupero e la rivitalizzazione delle tradizioni autoctone. Sono tutt'ora prevalentemente dei contadini.
Bei ritmi, molto incalzanti e stimolanti, accompagnati più dalle percussioni (tamburo in swahili si dice ngoma come la danza) che non dalla voce (kuimba). Le giovani avevano delle gonne larghe colorate e sopra una maglietta, una normale T-shirt, il che rendeva evidente che non avevano reggiseno, e ciò nonostante tutti quei continui traballii, saltelli, scatti e movimenti bruschi.
Lunedì 29 Luglio - Il nostro soggiorno a Kikambala è terminato, domani andremo altrove. Stasera c'è stato un altro spettacolo di una compagnia di balli tradizionali del popolo dei Ngomongo. Si tratta di un gruppo che risiede nel cosiddetto "Ngomongo village", un quartiere dove vivono insieme membri di etnie e tribù diverse che -come lavoro- si dedicano ad eventi vari di carattere folklorico culturale.
Una serie di ritmi con le percussioni introduce le danze. Quattro giovani e quattro ragazze ballavano la danza (ngoma) propiziatoria (ya ukombozi) per un buon raccolto (kwa mavuno), poi quella per la circoncisione maschile (tohara), e infine la danza per la festa delle nozze. Picchiavano con i piedi nudi per terra talmente con forza che si sentiva vibrare la sedia su cui stavamo seduti. I giovani maschi (wavulana) vestivano dei gonnellini fatti di grandi foglie forse di palma, e durante la prima danza portavano anche dei copricapo con delle lunghe piume. Le ragazze (wasichana) giovanissime indossavano prima un perizoma (doti o sketi) sui fianchi, poi un pareo colorato. Di frequente si mettevano in fila andando in cerchio, o per file parallele fronteggiandosi.
Nella danza propiziatoria mimavano l'azione del raccogliere da terra, e di mangiare. Nella danza nuziale (ngoma ya harusi, o mbili) i movimenti erano evocazioni esplicite dell'accoppiamento, si avvicinavano gli uni alle altre saltellando e muovendo il bacino in avanti.
In definitiva questa arte in cui il gesto richiede gestualità, e i movimenti divengono movenze, è la profonda cultura dell'Africa nera. Questo è il loro patrimonio "intangibile" in quanto "immateriale" da proteggere e conservare, coltivare, perpetuare (vedi il Manifesto Unesco per il nuovo Millennio)
Certo le danze, che hanno sempre una valenza spirituale magica collegata a significati simbolici dei riti, andrebbero osservate e gustate in loco e in situazione (cfr. Jung, Ricordi... ecc., cit. sulla danza n'goma, alle pp.322-324).
foto storica di danza rituale Bantu (Gatti, fine aa '50)
danzatrici (da "Il Milione" vol.XIII, 1964, p. 537)
Sull'importantissimo ed interessante rapporto tra danza e mito si veda la raccolta a cura di Nancy Allison e David Kudler, di testi di Joseph Campbell in: The Ecstasy of Being, JC Foundation, New World Library, 2018.
Qui ora invece i danzatori sono fuori contesto, eseguono un cliché, tuttavia essendo in corso di sparizione molte tradizioni e usi e costumi dell'epoca dei loro nonni, il continuare a praticarle anche solo come lavoro di saperle rendere degli spettacoli per gli stranieri, contribuisce comunque in qualche modo alla conservazione del loro patrimonio culturale immateriale. Qualcuno gliela insegna pure, e li controlla nell'esecuzione corretta. E' forse uno dei pochi "vantaggi" culturali del turismo.
In questa occasione di stasera, una del pubblico, molto presa dai ritmi, si era alzata in piedi e imitava i loro movimenti, e poi è andata da loro, di fronte ad un giovane, durante il ballo matrimoniale. Alla fine si è poi rapidamente dileguata, forse un po' si era vergognata...
Martedì 30 - Ci trasferiamo a nord, a Watamu, Petrus ieri aveva detto che ci avrebbe accompagnato lui al mattino presto con la sua auto (gari). Ma lo aspettiamo alla reception per tre quarti d'ora... Nell'attesa era venuta a parlarci Charity (che si era sciolta le treccine dreadlocks nei capelli). Avevamo notato che era stata assente, e ci dice che lei tempo fa aveva avuto la malaria, da cui però era guarita, mentre ora con sua gran sorpresa si è ridestata... E' venuta ora per dirci che da molto tempo è rimasta senza il marito e chiedendo se posso mandarle per posta qualche soldino ogni tanto in modo che sua figlia possa finire le scuole. Le prometto che lo farò. Vede che sia noi due che i ragazzi abbiamo un cellulare, allora chiede a Ghila se può regalarle il suo. Le spieghiamo che essendo all'estero è importante per noi che ciascuno abbia un cellulare per eventualmente chiamarci. Ma non sembra aver del tutto capito che la sua richiesta era assurda.
Ad un certo punto vado fuori dall'area dell'albergo a vedere in strada se lo vedo arrivare, e vedo che la macchina è già lì, ma dietro al muretto. Si fa avanti un ragazzo mai visto dicendo che lo ha mandato da noi Petrus. Così portiamo fuori i bagagli e partiamo. Kwaheri! (goodbye). L'auto è una vecchia macchina scassata che già avevo visto, ha uno scappamento puzzolente di nafta, e il parabrezza davanti tutto crepato... fortunatamente il giovane ci sembra simpatico.
Dopodiché tutto procede con grande calma, dice: kwenda (to go) slowly, e spesso lui canta una canzoncina che qui si sente dappertutto continuamente, e che fa: "pole pole, sasa", cioè piano piano, sassà, e poi: "kidogo kidogo, hakuna matata" = passo passo (ovvero con leggerezza), non c'è alcun problema... eccetera. (si può ascoltare su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=62WUCZghq9Q ). E' un atteggiamento diffuso di fronte ai problemi e le complicazioni della quotidianità, sia sul lavoro che in casa. Invece i muzungu, gli stranieri europei gli dicono sempre: hurry!, nina haraka, io ho fretta... e indicano l'orologio che hanno al polso.
Comunque si va lungo la costa verso nord, cioè verso Kilifi, e poi ancora più avanti, quasi a Gedi. La cosa positiva è che il ragazzo è simpatico e allegro. Si lamenta del fatto che Petrus è un po' un imbroglioncello, perché si è tenuto lui tutto quello che gli avevo dato di anticipo, e quel che resta della cifra pattuita va quasi consumato in benzina, per cui dice che a lui resterà ben poco...
La strada costiera è molto rovinata e sconnessa, piena di pericolose buche nell'asfalto, per cui bisogna andarci piano per poterle vedere in tempo e evitarle, e i camion e gli autobus fanno tortuosi giri di slalom, cui bisogna stare molto attenti. Quindi per fare poco più di una sessantina di km ci mettiamo più di un'ora e mezza... A volte la strada diventa di terra, ma poi si vede che è terra sopra ad un precedente vecchio manto rovinato di asfalto. Con le frequenti (e di solito brevi) pioggia tutto diviene fango e melma anche molto scivolosa. Ai lati dalla strada spesso non c'è nessun margine, e l'asfalto finisce in modo netto, c'è come un dislivello, per cui bisogna prestare molta e continua attenzione. Il Kenya è forse uno dei paesi africani con maggiore quantità di incidenti stradali anche gravi nonostante vi sia relativamente poco traffico (gli incidenti sono circa dieci volte + che sulle strade italiane nei nostri giorni di alto rischio tipo nel periodo di ferragosto).
Ad un certo punto uno della polizia (askari) stradale ci ferma, e si mette a parlare con il guidatore e intanto indica una foto che è esposta sul cruscotto. Dopo esser ripartiti il ragazzo ci dice che l'uomo della foto era l'autista autorizzato di questa macchina, che forse avremo visto poiché stava spesso ad aspettare davanti al nostro albergo. Poi una sera di pochi giorni fa tornando a casa dopo l'ultimo cliente, è rimasto ucciso, forse per errore.... Il poliziotto ha notato l'auto e la foto esposta e l'ha fermato per informarsi non solo di come mai l'auto la guidasse lui, ma di quell'autista, perché era un amico suo (rafiki).
Il paesaggio, guardando verso l'oceano indiano è molto bello, ma guardando alla sinistra, è costituito da squallidi paesini lungo la strada camionabile come ne abbiamo già visti lungo la costa sud (vedi: viaggiareperculture.blogspot.com/2011/11/kenya-2002-n-9-nei-dintorni-di-mombasa.html ). Questo è il Kenya attuale dei programmi di "sviluppo e di modernizzazione". La povertà che si vede è forse più misera intrinsecamente di quella dei villaggi tradizionali di agricoltori, o allevatori di bestiame e cacciatori, che sopravvivono a fatica ma che perpetuano il rapporto con la natura e i propri valori di culture africane.
c'è una fitta attività di botteghe e botteguccie lungo la strada camionabile
Lungo la strada ci sono tante belle palme, i bambini che corrono a piedi nudi, o i più grandicelli che ritornano da scuola con le uniformi del loro istituto, e salutano sorridendo.
Il nostro albergo, dove prendiamo due stanze, si chiama "Aquarius", ed è semplice e carino. Ci rilassiamo nei divani all'aperto
Usciamo a vedere il giardino e la spiaggia. Sulle foglie delle palme ci sono tantissimi nidi particolari, come delle sfere compatte. Sono i weaver birds, o uccelli tessitori, ovvero ploceidi (ndege ya ndege), sono come dei passerotti molto colorati, prevalentemente di un giallo squillante, molto carini. Ma ce ne sono anche di neri col petto bianco. Sono ritenuti tra i migliori architetti, in grado di costruire anche nidi molto grandi e complessi, difficili da distruggere.
La grande spiaggia è veramente stupenda, lunga e di sabbia bianca, che nella bassa marea (low tide), emerge e continua per centinaia di metri fino ad unirsi all'isoletta di fronte.
Ghila si è presa una scottata per il cielo limpido e il sole fortissimo, per cui era diventata tutta rossa., e noi avevamo perso le nostre pomate. Allora abbiamo chiesto che cosa si poteva fare e uno molto gentile è andato a tagliare col machete una grossa foglia di un grande cactus lì vicino, e l'ha suddivisa in pezzetti, aprendoli a metà. Per cui spalmando quella crema di aloe fresca e rigenerante, ha fatto molto bene alla pelle, che si è subito calmata, e non è rimasta nessuna ustione. Poi ci ha chiesto una mancia un po' cara per gli standard kenioti, ma ne è valsa la pena.
Dietro c'è una stradina sterrata che va in paese. Lungo il sentiero sentiamo bwana, bwana! e veniamo contornati da ragazzi e ragazzini che ci accompagnano e ci propongono varie cose.
Ci portano a vedere una botteguccia (duka),
ma anche un grande magazzino, che noi diremmo mini-market,
dove potremmo comprare qualcosa per es. da bere (maji ya kuny-wa, drinking water) o da smangiucchiare (kukula). Ghila compra un paio di quaderni per scrivere il suo diario di viaggio. Sono piccoli, di poche pagine, 14 soltanto. La carta è di scadente qualità, ma costano molto poco. Sul retro ci sono le conversioni dalle unità di misura britanniche in quelle decimali, e le tabelline, rese con uno schema differente dal nostro. Sul fronte c'è un disegno di una "gru coronata" con la cresta bianca.
Quindi c'è una Cineteca... cioè una casetta dove si noleggiano video tapes, ma anche dove si possono andare a guardare film, e dunque funziona come fosse un cinema..., il cinema di Watamu!, ma si denomina "Video Show"!
Inoltre c'è una Primary School (shule ya msingi) governativa, tutta contornata da un recinto di filo spinato. E' piena di scritte sul muro, tipo "our motto: Education is Light". Oppure "School mission is to provide education that will make pupils exemplary in all fields of life" (=la missione della scuola è di fornire un'istruzione che renderà gli alunni esemplari in ogni campo della vita).
Fermiamo un insegnante che tra l'altro ci chiede di mandare soldi per aiutare la scuola a comperare il materiale necessario (banchi o anche solo biro, matite colorate, quaderni, libri, lavagnette ecc.) o per pagare uno stipendio per un altro maestro in più.
Sul bordo della spiaggia c'è un bar dell'albergo, e ci sono ben due masai che fanno i guardiani, ma hanno una struttura fisica e un abbigliamento differenti da quei masai che abbiamo conosciuto. Hanno i capelli tagliati corti, senza trecce né le vesti rosse o rossastre, e di una foggia diversa. Tengono in mano anziché un bastone, un frustino di coda di elefante.
Il giorno dopo, il 31 sono poi arrivati vari turisti proprio italiani, che non erano esattamente di nostro gradimento. Allora spuntano due animatori [oddìo!] locali, che dicono di sapere parlare in italiano... Così alla sera c'è stato anche qui uno spettacolino. Non ricordo purtroppo di che popolo o tribù fossero. Le giovani avevano un pareo, mentre i giovani erano a torso nudo. L'animatore per presentarli ha tenuto un discorsetto in inglese, in francese, e in simil-"italiano". La terza parte della prolusione (quella in "italiano") è risultata ridicola, ed è anche a causa di questo che non ho capito la etnia di riferimento della compagnia di ballo, ma non si capiva quasi niente di quel che diceva. Già prima dello show, era venuto da noi e si era presentato dicendo con la mano sul petto: "E come si chiama??" e dopo una pausa: " si chiama Antonio!", e se ne va. I nostri ragazzi si sono trattenuti, ma dopo sono scoppiati a ridere quando ha detto presentando lo spettacolo: "E queste danze, come si chiama??" e poi il difficile nome della loro provenienza... nulla di grave, sono piccoli errori scusabili, ma oramai eravamo prevenuti... Comunque tutti i suoi discorsi erano zeppi di simili errori che a volte generavano confusione, ma sopratutto certe parole non si capivano proprio a causa della sua pronuncia (ma che stesse contento di parlare in inglese e francese!...).
I balli avevano un'aria di fasullo, ed erano mediocri e molto del tipo show "turistico-commerciale". Infatti appena finito, i ballerini hanno fatto subito una sorta di mercatino per vendere dei souvenir. Ormai è così, il turismo ha portato qui il nostro mondo fondato solo sui soldi, money (pesa). Tra questi l'unica cosa interessante e anche curiosa era una trappola per topi che vendevano a caro prezzo. Un aggeggio che attira il topo e subito lo infilza con una punta. Figuriamoci i nostri ragazzi come hanno reagito disgustati... Ma subito degli altri clienti l'hanno voluta comprare.
Dopo di ché iniziano a metter su della musica disco e noi da intellettualoidi schizzinosi ce ne andiamo. Facciamo una passeggiata verso i campi e ci sono sotto un albero tante donne di mezza età sedute tra di loro sul prato che cantano dei cori... che bello che è stato! ci siamo accucciati a distanza in silenzio ad ascoltarle. Una atmosfera stupenda. Anche loro non sappiamo a quale etnia della Coastal Strip potessero appartenere: in tutto il Kenya ci sono circa una settantina di etnie diverse.
(foto "Gatti", di giovani danzatrici della Costa nella fine aa '50)
(Per gli usi e costumi tradizionali, si vedano i testi di Giorgio Gualco sulla enciclopedia geografica "Il Milione" dell'Istituto DeAgostini, vol. XIII, Novara, 1964, sia sotto Kenya che Tanganyka (poi Tanzania). Per la 2a edizione, cfr. vol. 8°, 2001)
Il 1° agosto sono state presentate delle proposte per dei tours in diverse destinazioni. Tutte carissime. Ma alla fine abbiamo combinato fuori dal residence, e per un programma diverso da quello che avrebbe fatto il gruppo degli italiani, e dunque è così che siamo andati a fare un altro safari fotografico all'interno, questa volta nel grande ecosistema del "Ngorongoro - Serengheti - Maasai Mara" (a cavallo del confine con la Tanzania), facendo dei giri dentro la Riserva Naturale del Maasai Mara. Il Mara è un fiume che si dirige verso il vicino grande lago Nyanza (da noi ancora noto come lago Victoria), e che in luglio viene attraversato dalla cosiddetta "Grande Migrazione" di milioni di animali selvatici che si trasferiscono da sud verso gli altipiani erbosi. Purtroppo per noi, oramai siamo in agosto, ma comunque ne vale la pena lo stesso. Quindi decidiamo per l'offerta più a buon prezzo. Sawa sawa, cioè ok, all right, va bene. Alcune tra i nuovi arrivati hanno detto che se anche il loro partner ci andava, loro preferivano restare in spiaggia (anche perché bisognava farsi trovare già pronti nella sala d'ingresso, per le 5:30 puntuali....).
La Riserva keniota è un triangolo proprio sul confine della Tanzania, a continuazione del grande parco che di là è chiamato Serengheti, quindi è a nord-ovest di Nairobi, e dunque parecchio più a nord di dove siamo noi qui sul mare...
Dunque è ancora buio quando si va all'aerostazione dei voli privati da diporto, a prendere un areoplanino turistico ad elica in cui ci stiamo solo noi e una coppia. L'areostazione consiste di due stanze, una in cui si entra e si fa passare da sè il bagaglio sotto al detector, nell'altra, che è sia per arrivi che partenze (kufika, kuondoka), si entra sotto il controllo di un impiegato, quando l'orario è vicino.
Alle sei c'è già luce. Aiutiamo a girarlo di direzione sulla pista.
Si parte, e per miracolo proprio quando stava per schiantarsi sugli alberi in fondo alla pista, si solleva e inizia il volo. Lo sportello non si chiude benissimo, e inoltre proprio tra il mio sedile e quello vicino c'è uno squarcio nel pavimento per cui si vede sotto. Essendo un aereo piccolo, i vuoti d'aria li prende tutti, e cade giù un poco come sull'ottovolante. Sotto i nostri piedi vediamo le colline delle Highlands, con i suoi villaggi kikuyu (e poi viene alla mente il noto libro di Hemingway "Le nevi del Kilimangiaro", del 1936, o il racconto di Michael Crichton sulla sua estenuante scalata a 5900 m., in "Viaggi" del 1988), ma anche il grande monte Kenya (5200 metri) da qui lo si scorge in lontananza,
(foto DeAgostini)
e poi scorrono immense praterie sull'altopiano, chiamate highlands, e si vede qualche villaggio masai che si riconosce perché ha il recinto esterno (boma) tutto rotondo. Come scriveva Moravia: «è il paesaggio sublime degli alti pascoli dei Masai (...) forse solo nelle nostre Alpi ci sono pascoli così solitari, remoti e silenziosi; ma soltanto qui, nel cuore dell'Africa, la purezza e la solitudine degli altipiani si alleano stranamente con la luce intensa dei tropici» (cit. p. 11).
Inoltre scorgiamo tante mucche al pascolo, da loro i Masai e le altre etnie di abitanti traggono tutto il loro sostentamento.
Siamo seduti vicinissimi al pilota, e a un certo punto sentiamo che parla in inglese con l'aeroporto d'arrivo, e l'altro dice di fare grande attenzione che c'è contemporaneamente anche un altro aereo turistico. Ci allarmiamo e come lui guardiamo anche noi se si vede sopraggiungere qualcosa, allora si mettono a parlare in swahili per non allarmarci, e insomma poi l'incrocio tra i due viene evitato... (!).
e poi ci si incammina per un sentierino di terra finché dopo un po' si arriva in vista di un Lodge.
i bei fiori davanti alla porta
Ma lo spettacolo è sorprendente! le camere danno tutte sulla riva del fiume Mara con molta corrente, e c'è come un' ansa che è densamente popolata da ippopotami (kiboko). Questi fanno incessantemente dei muggiti tipo mucca ma più rochi e grezzi, ad alto volume. All'inizio fanno pure un po' ridere, ma dopo un paio d'ore divengono un po' monotoni. C'è anche un piccolo con la madre. Stanno moltissimo tempo sott'acqua, poi dopo spuntano appena solo le orecchie e gli occhi e infine il nasone, e restano così a lungo.
Moravia scriveva che «immersi nell'acqua, ne emergono con le arcate sopracigliari, veri e propri periscopi (...), ogni tanto grugniscono e soffiano; ogni tanto anche defecano e spargono intorno a sè le feci muovendo la loro corta coda porcina» (op. cit., p. 15).
Sembra che oltre alle nostre due camere, in questo lato ci sia solo un'altra stanza occupata.
E' un luogo stupendo e sembra anche qui di essere in un angolo del mondo rimasto come madre natura l'ha fatto milioni d'anni fa.
Restiamo a lungo a guardare come ipnotizzati.
C'è anche un terrazzino di legno con delle panche e ci fermiamo lì. Michele forse più di tutti è ammaliato.
Siamo al "Voyager Lodge". Ci accolgono con dei succhi di frutta tropicale appena spremuti. Andiamo nelle strutture centrali della ricezione dove c'è pure un bar e un negozietto. Lì più avanti c'è uno "spazio all'aperto", un open-space strutturato dove si fanno le carni alla brace e il barbecue. E' proprio di fianco al capannone-ristorante, ma noi preferiamo continuare a restare all'aperto e lungo il fiume, dove si intravedono vari coccodrilli. Poco più in là c'è un anfratto in cui vivacchia un coccodrillone grande e solitario. Intanto si vede passare una lunga biscia d'acqua.
coccodrilli a mollo
sull'altra sponda c'è un grosso coccodrillone solitario
sul marciapiede c'è un bellissimo uccello color viola e blu-elettrico cangiante
Quando la cena open-air è pronta è già buio. Poi restiamo là a chiacchierare attorno ai falò. Ci sono altri clienti e si ascoltano racconti di chi ha già fatto dei tour. Anche questa atmosfera ha molto fascino. Tranne i muggiti, tutt'intorno è silenzio.
All'improvviso delle urla che provengono dalla capanna-ristorante, impressionati cerchiamo di capire di cosa si tratti, tutti quelli che erano ai tavoli stanno uscendo di corsa agitatissimi, intanto un masai del Lodge corre controcorrente rispetto alla folla e entra nel capannone. Tafferugli, rumori di colpi, urla di chi era rimasto ancora dentro... In definitiva mentre stavano cenando, della gente di un tavolo vicino a una delle pareti di legno e bambù, vede entrare da sotto un grosso serpente, ecco che scattano in piedi urlando e cominciano a correre verso l'uscita e così anche altri, intanto arriva il masai addetto alla sicurezza con un grosso bastone un po' particolare e va dritto verso il serpentone e comincia a menar gran nerbate per colpirlo alla testa prima che quello faccia dei guizzi e salti, in pochissimi forti colpi lo ha beccato ed ora è steso morto... Tutti possono a questo punto rientrare.
Appena esce il masai gli andiamo incontro per ringraziarlo (ahsante, thanks) e per complimentarci del suo coraggio e della sua abilità. Commenta un poco (non sa gran che l'inglese), e gli chiedo se posso immortalare il ricordo di questo evento facendogli una foto. Accetta, e Ghila pur ancora impressionata vuole entrare nella foto accanto a lui. Molti masai essendo esperti cacciatori trovano lavoro nei lodge come guardiani.
anche questo non ha lo stesso costume e decori
degli altri masai che abbiamo conosciuto
Il mattino dopo, ancora prima dell'alba saliamo con pochi altri sul cassone di un camion tutto aperto (è un matatu anche questo) e partiamo con il buio. Arriviamo nel luogo dove iniziare il safari, proprio appena spunta il sole, è l'orario migliore.
l'alba nella savana: Michele fa una foto e io la faccio a lui
Non poteva non venirmi in mente la storiella che era uno spot della Gatorade, e che viene raccontata da Aldo, Giovanni e Giacomo nel film "Così è la vita" (1998). Si tratta di un detto africano che fu riportato nel 1985 da Dan Montano nel suo articolo "Lions or gazzelles?": «Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, una gazzella si sveglia e sa che dovrà correre più del leone o verrà uccisa. Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, un leone si sveglia e sa che dovrà correre più della gazzella o morirà di fame. Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, non importa che tu sia leone o gazzella, l'importante è che cominci a correre.» (The Fable of the Lion and the Gazelle, QuoteInvestigator.com, 5 agosto 2011).
Può sembrare incredibile essendo all'equatore, ma fa proprio freddino di mattina presto (siamo ad una altitudine che varia tra i 1500 e i 2100 mslm), per cui ci siamo vestiti a strati mettendo tutto quel che avevamo, da una maglia al k-way, e per fortuna a richiesta ci danno dei bei plaids di lana... Anche i Masai qui al mattino presto si mettono addosso degli ampi mantelli di pelle di vacca, anche per l'eventualità di pioggerelle e di brina e nebbia (oltre a scroscianti piogge monsoniche). C.Burland li descrive all'interno del capitolo complessivo: "Vita nella steppa e nella savana"; e anche R.Bosi li tratta nel cap. "Popoli delle savane", §. "i pastori degli altipiani". I loro capanni sono costituiti da un telaio di ramaglie e di frasche, ricoperto da argilla e sterco, con solo una piccola apertura d''entrata, per mantenere il caldo delle braci all'interno dell'abitazione.
La mattinata scorre veloce tra magnifici panorami e sorprese date dalla vista da vicino di animali. Oltre a quelli già elencati al parco dello Tsavo, vediamo: impala, dik-dik, antilopi, serpenti (nyoka), babbuini (nugu o nyani), facoceri (warthogs), leopardi (chui), bufali (mbogo), zebù, e leoni (in swahili: simba), ecc. eccetera... Ma quanti animali!...
La mattinata scorre veloce tra magnifici panorami e sorprese date dalla vista da vicino di animali. Oltre a quelli già elencati al parco dello Tsavo, vediamo: impala, dik-dik, antilopi, serpenti (nyoka), babbuini (nugu o nyani), facoceri (warthogs), leopardi (chui), bufali (mbogo), zebù, e leoni (in swahili: simba), ecc. eccetera... Ma quanti animali!...
Annalisa e il Re Simba con la sua regina First Lady
facoceri (che scomoda posizione per brucare un po' d'erba...)
gnù solitario
solitario e pensoso
All'intervallo-pranzo in un rifugio in mezzo alla savana, compriamo varie cartoline di alcuni Big Fives e di altri bestioloni.
Il pranzo è alle 12 emmezza, e il safari ricomincia alle 15:30. Ci accorgiamo che tutta l'area del Lodge è recintata da fili spinati in cui passa la corrente elettrica. Infine arriva la nostra guida che è un tale con dei denti disastrosi. Il camion è diverso da quello di stamattina, ci vuole una scaletta per salirci, è su tre livelli uno più in su dell'altro e ci sono solo dei teloni plastificati ripiegati sul tettuccio, per cui in caso di pioggia basta tirarli giù. Il paesaggio è diverso da quello dello Tsavo, l'erba è verde e più alta, e la vegetazione è rigogliosa, semplicemente per via dell'altitudine. Attraversiamo boschetti e radure con grossi alberoni, i cui rami entrano a lambire i sedili strusciandoci addosso. Vediamo bene da vicino dei facoceri, che sono spesso isolati. Le giraffe con il collo più lungo sono i maschi. Poi ci sono branchi di gazzelle, sia quelle "di Thompson" che quelle "di Grant", branchi di zebre, di dik-dik, babbuini grossi (nugu), di gnù (wildebeest), e impala (che è come una gazzella più grossa con lunghe corna a punta), uno strano grande uccello (ndege) con il collo rosso,
e poi vediamo bene dei leoni (simba), in particolare un grosso maschio con la sua folta criniera. Ci avviciniamo moltissimo traballando per le buche e varie asperità, tanto che ci viene il dubbio che ci si potrebbe capottare. In una radura ce n'erano cinque al suolo a fare la pennichella all'ombra. In un caso ci siamo avvicinati anche troppo, saremo stati a 3 metri dal capo branco. Ma loro non hanno fatto una piega, erano satolli, e forse anche abituati e rassegnati alla presenza del camion con i loro puzzolenti scappamenti.
l primo leone era un po' dietro a un cespuglio, mentre davanti c'era la leonessa con i "piccoli" leoncini. Il secondo leone maschio stava dormicchiando sdraiato a pancia in su, con una zampona appoggiata ad un basso ramo.
e poi vediamo bene dei leoni (simba), in particolare un grosso maschio con la sua folta criniera. Ci avviciniamo moltissimo traballando per le buche e varie asperità, tanto che ci viene il dubbio che ci si potrebbe capottare. In una radura ce n'erano cinque al suolo a fare la pennichella all'ombra. In un caso ci siamo avvicinati anche troppo, saremo stati a 3 metri dal capo branco. Ma loro non hanno fatto una piega, erano satolli, e forse anche abituati e rassegnati alla presenza del camion con i loro puzzolenti scappamenti.
l primo leone era un po' dietro a un cespuglio, mentre davanti c'era la leonessa con i "piccoli" leoncini. Il secondo leone maschio stava dormicchiando sdraiato a pancia in su, con una zampona appoggiata ad un basso ramo.
ecco qui la Grande Madre Simba
(post-card)
(post-card)
Era un giovane con una criniera ancora ridotta. Il terzo con il suo muso da gattone ci guardava come noi guardavamo lui. Per fortuna che non si è scocciato per la nostra intrusione. Comunque anche loro hanno un odore forte di selvatico. Certo è ben diverso ammirare questi bestioni al circo o allo zoo, oppure liberi nel loro habitat naturale, nella loro vita quotidiana...
4 agosto -
Il giorno dopo facciamo un giro diverso, con panorami differenti. Durante il giro c'è una che intanto nel silenzio della savana, si ascolta con le cuffie il proprio walkman! Assomigliava moltissimo a Britney Spears. Poi a fine pomeriggio parlandole nel tragitto di rientro, abbiamo scoperto che si trattava proprio di lei...
Il pranzo è "al sacco" (have a packed lunch) e consiste in buonissimi tramezzini ripieni che mangiamo sedendoci su un prato accanto al furgone (ma non era proibito?).
Finito questo imprevisto e incredibile pic-nic sull'erba, l'obiettivo è andare alle ricerca di qualcuno dei pochissimi rinoceronti (kifaru) che vivono nel Parco. Ora sono diventati a rischio estinzione, anche perché una volta si andava a caccia del loro corno che era molto ben pagato dagli arabi che ne facevano le impugnature di pugnali, e dai cinesi essendo un componente di medicamenti tradizionali a fini afrodisiaci. Per salvarli si stabilì di segare via i corni in modo che non interessasse più ucciderli. Ma i bracconieri li uccidevano lo stesso per non rischiare di perdere tempo inutile in futuro.
C'è un Ranger, anzi due che stanno fermi in un punto. Li avviciniamo per chiedere info, ci dicono che loro stazionano là proprio perché in quei dintorni c'è un rinoceronte da proteggere. E in effetti andando a piedi in silenzio nei paraggi finiamo con scoprirne uno che sta dormendo. E' un bestione di tipo "antidiluviano" che può pesare più di due tonnellate... lungo più di tre metri e mezzo... in un primo momento non l'avevamo riconosciuto perché sembrava come una roccia grigia...
Gli andiamo piuttosto vicino, ma lui -dicono- continua a dormire pesantemente (ma ad occhi aperti). Dicono che sarebbe un piccolo (kidogo) ancora inesperto! Incontro ravvicinato di non so che tipo, ma indimenticabile. E in effetti è un evento oramai rarissimo poter stare accanto a un rinoceronte.
Nel grande ranch della veneziana Kuki Gallmann (Maria Boccazzi) un po' più a nord di qui, lei ha dato vita a una Fondazione naturalistica per salvare appunto il rinoceronte "nero" e anche quello "bianco", in inglese black rhino e white rhino (mi pare di nominare il mio vicino di casa...), oltre che elefanti (tembo o ndovu), bisonti (mbogo), e varie specie di uccelli (ndege) rari.
Certo che stando qua il pensiero non può non andare alle origini, all'alba della nostra stessa specie, quando i primi rappresentanti del genere Homo si aggiravano proprio in questi territori ...
Alla fine del tour ritorniamo indietro e vediamo sul ciglio della strada sterrata una iena, e poi un'altra. Restiamo fermi un po' per osservare che cosa sta facendo.
Certo che stando qua il pensiero non può non andare alle origini, all'alba della nostra stessa specie, quando i primi rappresentanti del genere Homo si aggiravano proprio in questi territori ...
nella foto mamma che passa nella bocca del suo bimbo del cibo da lei pre-masticato
Alla fine del tour ritorniamo indietro e vediamo sul ciglio della strada sterrata una iena, e poi un'altra. Restiamo fermi un po' per osservare che cosa sta facendo.
Nel tardo pomeriggio si ritorna sull'areotaxi per altre due ore di volo. Michele viene invitato dal pilota a sedersi accanto a lui...!
rieccolo...
Questo safari è stato bellissimo, mi è piaciuto proprio molto (nakipenda sana).
5 agosto - Di buon mattino partiamo da Watamu per andare verso nord, a Malindi.
ci sono alcune donne che non si sa se sostano ad una fermata di qualche matatu, oppure se avrebbero voglia di chiedere un passaggio in auto-stop ma non osano...
Malindi è una cittadina che fu governata dagli arabi di Zanzibar, ma che sentì l'influenza dei portoghesi, i quali dopo che vi approdò Vasco de Gama, fecero spesso tappa nel suo porto per commerciare, prima di attraversare l'oceano indiano e recarsi nella loro colonia di Goa. Poi è passata sotto i britannici. E da quando vi è stato Ernest Hemingway per fare pesca d'altura, e ne ha scritto in suoi romanzi ("Verdi colline d'Africa") e racconti, ha attratto il turismo inglese nel periodo della colonia della British East Africa. Hemingway venne in Kenya, a Malindi e a Shimoni, più volte tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, organizzando famosi safari di caccia grossa, essendo un amante del rischio e dell' avventura (oltre che del bere al rinomato Blue Marvin Bar di Malindi).
Da qui viene la sua fama come luogo attraente.
5 agosto - Di buon mattino partiamo da Watamu per andare verso nord, a Malindi.
ci sono alcune donne che non si sa se sostano ad una fermata di qualche matatu, oppure se avrebbero voglia di chiedere un passaggio in auto-stop ma non osano...
Malindi è una cittadina che fu governata dagli arabi di Zanzibar, ma che sentì l'influenza dei portoghesi, i quali dopo che vi approdò Vasco de Gama, fecero spesso tappa nel suo porto per commerciare, prima di attraversare l'oceano indiano e recarsi nella loro colonia di Goa. Poi è passata sotto i britannici. E da quando vi è stato Ernest Hemingway per fare pesca d'altura, e ne ha scritto in suoi romanzi ("Verdi colline d'Africa") e racconti, ha attratto il turismo inglese nel periodo della colonia della British East Africa. Hemingway venne in Kenya, a Malindi e a Shimoni, più volte tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, organizzando famosi safari di caccia grossa, essendo un amante del rischio e dell' avventura (oltre che del bere al rinomato Blue Marvin Bar di Malindi).
Da qui viene la sua fama come luogo attraente.
Nei recenti anni '90 molti italiani coinvolti nell'operazione «mani pulite» o in «Tangentopoli» sono -per così dire- "emigrati" a vivere qui. E ancora c'è una comunità abbastanza numerosa di ricchi e di poveri, di pensionati d'oro, o di imprenditori falliti. (sedici anni fa erano circa duemila, cui si aggiunsero i famigliari, e a cui poi nacquero dei figli, oggi grandicelli).
Comunque sia, il centro storico della cittadina è carino, le spiagge e il mare stupendi, e ci sono molte cose e luoghi da visitare. E poi partono da qui le gite verso Lamu che è parecchio più avanti lungo la costa nord, vicino al confine somalo.
Andiamo all'albergo "Coral Key" Beach Resort, dove abbiamo ricevuto un appartamentino in scambio con la multiproprietà di RCI. L'albergo è dunque in realtà un resort, cioè un residence (con l'accento sulla prima vocale, come si usa pronunciare in inglese il vocabolo francese) costituito da vari appartamenti di cui gli utenti sono proprietari solo per una porzione settimanale di tempo. C'è una bella architettura che segue le linee delle costruzioni tradizionali in legno, bambù, e foglie di palma. Anche i bar, il ristorante e gli uffici della ricezione sono in stile locale. Ci assegnano un bel bungalow grande, da cui vediamo dalla finestra le palme e il mare.
Anche qui qualcuno riesce a venderci una maschera in ebano, una statuetta, e un guerriero pensoso, e un soprammobile che è un unico pezzo di legno intarsiato in modo da raffigurare un intreccio di figure una sopra l'altra.
una mezza noce di cocco laccata
In questi giorni siamo andati un po' in giro per la cittadina (dovevamo anche cambiare i soldi e siamo andati alla Barclays' bank), abbiamo visto anche il vecchio mercato che ora è praticamente quasi solo un mercato di alimentari, abbastanza bello, colorato e interessante (vedi foto nei vecchi post sul mercato, viaggiareperculture.blogspot.com/2018/03/viaggi-alcune-foto-di-interesse.html
e alle puntate nei numeri 3 e 4, del 10 novembre 2011).
Gran parte si svolge per terra. Alcune donne musulmane sono velate e/o con abiti neri.
Altre volte abbiamo guardato i negozi, ma non hanno gran ché.
https://viaggiareperculture.blogspot.com/2018/03/viaggi-alcune-foto-di-interesse.html)
Qui lungo la costa ci sono molti musulmani, e anche molti indiani che risiedono in Kenya da alcune generazioni.
Camminando lungo la strada che va dal residence alla periferia di Malindi ci sono vari incontri che si possono fare...
Tra questi veniamo avvicinati da un indiano musulmano che ci dice che ha in tasca delle belle pietre dure che vende a un prezzo che non fa nessun negozio, allora ce le facciamo mostrare ed effettivamente prendiamo una bellissima aqua-marina che nel negozio dentro al residence verrebbe molto più cara. (Poi ritornati a casa la faremo valutare da uno che conosciamo di cui ci fidiamo e ci dice che abbiamo fatto un ottimo affare. Comunque, a differenza di altri turisti, noi non intendiamo rivenderla, l'abbiamo presa per noi).
Abbiamo anche parlato con alcuni italiani residenti, di cui certi -che non possono ritornare in Italia- si sentono come prigionieri, e degli esiliati... Siamo anche entrati in un paio di belle case. Uno che si occupa di mercato immobiliare ci voleva convincere a farci qui una seconda casa e venirci a svernare. In effetti i prezzi erano per noi molto bassi.
(E' noto p. es. che Flavio Briatore aveva una bella e grande villa, e due resort di lusso, che ora [2017] ha venduto, e che venivano frequentati da noti personaggi italiani della politica, degli affari e sopratutto dell'ambiente dello spettacolo, che si recavano per vacanza, e per colloqui di lavoro, sopratutto nei suoi bei 24 appartamenti, di 400 fino a 1000 mq che dava in affitto, o almeno così si diceva nella stampa e nei gossip...).
C'è anche un portale su internet, il malindikenya.net con notizie varie della "little Itay".
E' un po' un problema girare e visitare, perché abbiamo sempre tutt'intorno dei bambini, alcuni solo curiosi, altri che sperano in un regalino o una caramella, quasi tutti belli.
Siamo stati a vedere i resti di un cimitero e di una moschea del XV secolo, poi più a nord a Casuarina Point c'è un Parco marino che si visita salendo su un barcone col fondo di vetro. Inoltre c'è BirdLand, che è un parco ornitologico, merita. Visitiamo anche il Rettilario, e inoltre in periferia c'è un Falconry Center dove ci sono dei grossi falchi da caccia, che vengono addestrati qui, e in certi orari si esibiscono. (poi vengono venduti in Arabia Saudita e Oman). Molto suggestivo e interessante. E poi infine più lontano c'è pure un centro di equitazione.
Il penultimo giorno siamo andati a vedere una clinica per volatili, che è dell'ospedale veterinario della provincia, la Coast Province. C'erano falchi e aquile, ma anche una grossissima tartarugona, che ha 103 anni... [dunque oggi 120]
e altri animali, come scimmie e scimmiette, e serpenti. Una piccola bertuccia si era molto affezionata a Michele. C'era anche un lemure con una coda lunghissima che Miki ama molto.
Comunque è sopratutto per uccelli. Mi facevano pena certi grossi gufi, ma persino le aquile con quel loro becco micidiale, erano tristi e mansuete, e si lasciavano avvicinare senza agitarsi, in fondo sanno che qui gli uomini sono dediti a curarli.
Andiamo anche in un negozio tipo "tutto a 10 scellini" dove compriamo un gran numero di regalini da portare ad amici, parenti e conoscenti. Tre questi alcuni li abbiamo poi tenuti, come due statuette di masai, delle posate per insalata di legno, un pareo di stoffa spessa e rigida molto colorato, e altro.
Inoltre un giorno abbiamo fatto una gita fino a Lamu, nell'estremo nord. Con un lunghissimo viaggio in matatu siamo partiti prima dell'alba e rientrati col buio. Siamo saliti su una barca e abbiamo fatto snorkeling con maschera e pinne, c'è un'acqua meravigliosa, e una quantità di pesci tropicali colorati. Poi a pranzo siamo andati in un posto fatiscente e piuttosto sporco (con delle latrine molto puzzolenti schifose) nel paesino scassatissimo. Quelli del "ristorante" sono gentilmente venuti a prendere Ghila portandola dalla barca a terra. Avevamo dei dubbi dato che non c'era acqua corrente, ma devo dire che si è mangiato bene, dell'ottimo pesce fresco appena pescato, sulla griglia e alla brace (noi non abbiamo mangiato le verdure crude). Abbiamo fatto delle nuotate bellissime, riposandoci su un grande affioramento superficiale di sabbia bianchissima. E' tutta un'area di insenature e isolette, con bellissime barriere coralline. Merita la sfaticata un po' eccessiva di andata e ritorno in giornata.
Mi fa ricordare il diario di Gianni Roghi, quando andò per una spedizione subacquea all'arcipelago delle isole Dahlak al largo della costa eritrea, che descrive scenari molto simili (cfr. edizioni Garzanti, 1954, 1968).
Qui molte donne hanno il didietro, il lato B (back) piuttosto ben in carne e pronunciato, sporgente, e piacciono molto. In generale piacciono le donne grassoccie.
Ghila si fa fare i dreadlocks ai capelli, come dicevo all'inizio. Un lavoro che ha impegnato le due parrucchiere per tutto il giorno, dalle 11 am alle 19:30 pm, ma con un'ora e mezza di intervallo-pranzo, per cui hanno lavorato per 7 ore!, e in effetti hanno intrecciato e annodato ben 393 treccine!! Verso la fine per sveltire anche altre due le hanno aiutate. Ed erano esperte e velocissime... Tra l'altro non avevano né un pettine, né alcuna altra attrezzatura per intrecciare, facevano tutto solo con le mani...
D'altra parte basta osservare le treccine di un masai, come queste qui sotto, per rendersi conto di quanto sono fini e sottili, e dunque numerose:
Intoltre hanno usato anche ben tre confezioni di capelli finti. Dicono che dovrebbero durare un paio di mesi, e di non lavarsi i capelli, ma caso mai ungerli. E comunque il giorno dopo alcune si erano sfrangiate in fondo e loro han detto che è normale doverle ritoccare, in un attimo gliele hanno ri-legate. La prima ragazza ha 21 anni ed è di etnia kikuyu, mentre l'altra ha 26 anni e ha due figli, hanno chiacchierato in inglese tutto il tempo. Una che poi si è aggiunta per aiutare, sa parlare bene in italiano.
Andiamo all'aeroporto di Mombasa per prendere un volo per Nairobi, e là la stanza dove si aspetta è tutta intasata da una gita scolastica di chissà quale istituto femminile per cui tutte vestivano la stessa divisa, ma erano ben ordinate e calme, non si sentivano urla o confusione.
Quando siamo tornati a casa dopo un mese di Kenya, abbiamo cominciato a sentire crescere una nostalgia di quei luoghi, di quei colori, dei paesaggi, dell'aria, di certi posti con l'acqua di cristallo, degli animali, della musica, dei ritmi, e insomma forse si tratta del cosiddetto "mal d'Africa"?
(ma poi andremo in Sudafrica, in Swaziland, e in Etiopia...)
A fond Farewell Kenya! kwaheri
ristorante
bar
L'accesso alla spiaggia è diretto:
La spiaggiona è più balneabile di quella di Kikambala. Facciamo i bagni e passeggiamo su e giù.
con la bassa marea molte barche restano a secco sul banco madreporico
low tide
bimbetto raccoglitore
si ritorna al resort
Anche qui qualcuno riesce a venderci una maschera in ebano, una statuetta, e un guerriero pensoso, e un soprammobile che è un unico pezzo di legno intarsiato in modo da raffigurare un intreccio di figure una sopra l'altra.
una mezza noce di cocco laccata
un contenitore in legno intarsiato
In questi giorni siamo andati un po' in giro per la cittadina (dovevamo anche cambiare i soldi e siamo andati alla Barclays' bank), abbiamo visto anche il vecchio mercato che ora è praticamente quasi solo un mercato di alimentari, abbastanza bello, colorato e interessante (vedi foto nei vecchi post sul mercato, viaggiareperculture.blogspot.com/2018/03/viaggi-alcune-foto-di-interesse.html
e alle puntate nei numeri 3 e 4, del 10 novembre 2011).
il tizio gentile che ci si è appiccicato e che fatichiamo a convincere
che vorremmo restare per conto nostro
Gran parte si svolge per terra. Alcune donne musulmane sono velate e/o con abiti neri.
arriviamo
usciamo dalla zona del mercato
(vedi anche più sotto nell'indice il post del 16 marzo scorsohttps://viaggiareperculture.blogspot.com/2018/03/viaggi-alcune-foto-di-interesse.html)
Qui lungo la costa ci sono molti musulmani, e anche molti indiani che risiedono in Kenya da alcune generazioni.
Camminando lungo la strada che va dal residence alla periferia di Malindi ci sono vari incontri che si possono fare...
Tra questi veniamo avvicinati da un indiano musulmano che ci dice che ha in tasca delle belle pietre dure che vende a un prezzo che non fa nessun negozio, allora ce le facciamo mostrare ed effettivamente prendiamo una bellissima aqua-marina che nel negozio dentro al residence verrebbe molto più cara. (Poi ritornati a casa la faremo valutare da uno che conosciamo di cui ci fidiamo e ci dice che abbiamo fatto un ottimo affare. Comunque, a differenza di altri turisti, noi non intendiamo rivenderla, l'abbiamo presa per noi).
Abbiamo anche parlato con alcuni italiani residenti, di cui certi -che non possono ritornare in Italia- si sentono come prigionieri, e degli esiliati... Siamo anche entrati in un paio di belle case. Uno che si occupa di mercato immobiliare ci voleva convincere a farci qui una seconda casa e venirci a svernare. In effetti i prezzi erano per noi molto bassi.
(E' noto p. es. che Flavio Briatore aveva una bella e grande villa, e due resort di lusso, che ora [2017] ha venduto, e che venivano frequentati da noti personaggi italiani della politica, degli affari e sopratutto dell'ambiente dello spettacolo, che si recavano per vacanza, e per colloqui di lavoro, sopratutto nei suoi bei 24 appartamenti, di 400 fino a 1000 mq che dava in affitto, o almeno così si diceva nella stampa e nei gossip...).
C'è anche un portale su internet, il malindikenya.net con notizie varie della "little Itay".
E' un po' un problema girare e visitare, perché abbiamo sempre tutt'intorno dei bambini, alcuni solo curiosi, altri che sperano in un regalino o una caramella, quasi tutti belli.
Siamo stati a vedere i resti di un cimitero e di una moschea del XV secolo, poi più a nord a Casuarina Point c'è un Parco marino che si visita salendo su un barcone col fondo di vetro. Inoltre c'è BirdLand, che è un parco ornitologico, merita. Visitiamo anche il Rettilario, e inoltre in periferia c'è un Falconry Center dove ci sono dei grossi falchi da caccia, che vengono addestrati qui, e in certi orari si esibiscono. (poi vengono venduti in Arabia Saudita e Oman). Molto suggestivo e interessante. E poi infine più lontano c'è pure un centro di equitazione.
Il penultimo giorno siamo andati a vedere una clinica per volatili, che è dell'ospedale veterinario della provincia, la Coast Province. C'erano falchi e aquile, ma anche una grossissima tartarugona, che ha 103 anni... [dunque oggi 120]
e altri animali, come scimmie e scimmiette, e serpenti. Una piccola bertuccia si era molto affezionata a Michele. C'era anche un lemure con una coda lunghissima che Miki ama molto.
Comunque è sopratutto per uccelli. Mi facevano pena certi grossi gufi, ma persino le aquile con quel loro becco micidiale, erano tristi e mansuete, e si lasciavano avvicinare senza agitarsi, in fondo sanno che qui gli uomini sono dediti a curarli.
Andiamo anche in un negozio tipo "tutto a 10 scellini" dove compriamo un gran numero di regalini da portare ad amici, parenti e conoscenti. Tre questi alcuni li abbiamo poi tenuti, come due statuette di masai, delle posate per insalata di legno, un pareo di stoffa spessa e rigida molto colorato, e altro.
Inoltre un giorno abbiamo fatto una gita fino a Lamu, nell'estremo nord. Con un lunghissimo viaggio in matatu siamo partiti prima dell'alba e rientrati col buio. Siamo saliti su una barca e abbiamo fatto snorkeling con maschera e pinne, c'è un'acqua meravigliosa, e una quantità di pesci tropicali colorati. Poi a pranzo siamo andati in un posto fatiscente e piuttosto sporco (con delle latrine molto puzzolenti schifose) nel paesino scassatissimo. Quelli del "ristorante" sono gentilmente venuti a prendere Ghila portandola dalla barca a terra. Avevamo dei dubbi dato che non c'era acqua corrente, ma devo dire che si è mangiato bene, dell'ottimo pesce fresco appena pescato, sulla griglia e alla brace (noi non abbiamo mangiato le verdure crude). Abbiamo fatto delle nuotate bellissime, riposandoci su un grande affioramento superficiale di sabbia bianchissima. E' tutta un'area di insenature e isolette, con bellissime barriere coralline. Merita la sfaticata un po' eccessiva di andata e ritorno in giornata.
Mi fa ricordare il diario di Gianni Roghi, quando andò per una spedizione subacquea all'arcipelago delle isole Dahlak al largo della costa eritrea, che descrive scenari molto simili (cfr. edizioni Garzanti, 1954, 1968).
Qui molte donne hanno il didietro, il lato B (back) piuttosto ben in carne e pronunciato, sporgente, e piacciono molto. In generale piacciono le donne grassoccie.
Ghila si fa fare i dreadlocks ai capelli, come dicevo all'inizio. Un lavoro che ha impegnato le due parrucchiere per tutto il giorno, dalle 11 am alle 19:30 pm, ma con un'ora e mezza di intervallo-pranzo, per cui hanno lavorato per 7 ore!, e in effetti hanno intrecciato e annodato ben 393 treccine!! Verso la fine per sveltire anche altre due le hanno aiutate. Ed erano esperte e velocissime... Tra l'altro non avevano né un pettine, né alcuna altra attrezzatura per intrecciare, facevano tutto solo con le mani...
D'altra parte basta osservare le treccine di un masai, come queste qui sotto, per rendersi conto di quanto sono fini e sottili, e dunque numerose:
Intoltre hanno usato anche ben tre confezioni di capelli finti. Dicono che dovrebbero durare un paio di mesi, e di non lavarsi i capelli, ma caso mai ungerli. E comunque il giorno dopo alcune si erano sfrangiate in fondo e loro han detto che è normale doverle ritoccare, in un attimo gliele hanno ri-legate. La prima ragazza ha 21 anni ed è di etnia kikuyu, mentre l'altra ha 26 anni e ha due figli, hanno chiacchierato in inglese tutto il tempo. Una che poi si è aggiunta per aiutare, sa parlare bene in italiano.
Andiamo all'aeroporto di Mombasa per prendere un volo per Nairobi, e là la stanza dove si aspetta è tutta intasata da una gita scolastica di chissà quale istituto femminile per cui tutte vestivano la stessa divisa, ma erano ben ordinate e calme, non si sentivano urla o confusione.
Quando siamo tornati a casa dopo un mese di Kenya, abbiamo cominciato a sentire crescere una nostalgia di quei luoghi, di quei colori, dei paesaggi, dell'aria, di certi posti con l'acqua di cristallo, degli animali, della musica, dei ritmi, e insomma forse si tratta del cosiddetto "mal d'Africa"?
(ma poi andremo in Sudafrica, in Swaziland, e in Etiopia...)
A fond Farewell Kenya! kwaheri
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