venerdì 26 agosto 2011

fammi sentire come parli e saprò chi sei


Uno dei tanti esempi della lingua parlata in Messico è il cartello: “Los camastros son para uso de alberca” (=le sdraio sono per uso della piscina). Mi fa venire in mente che nell'estate 2005 avevo visto un articolo di giornale o di una rivista, in cui si commentava la recente uscita della versione elettronica della 22° edizione del DRAE, = il dizionario della Real Academia Española de la Lengua, e l’autore di quell’articolo si lamentava per il fattoche si sancisse così un canone che veniva fissato nella lontana Spagna, mentre nel mondo di lingua spagnola la Spagna è oramai solo un piccolo paese di 40 milioni di persone (di cui una parte poi sono di espressione catalana, basca, galiziana o altro), mentre invece il Messico è il più grande paese di lingua spagnola. Ma alla fine non dava proposte di soluzioni alternative, e lodava comunque il DRAE perché menziona tutti i termini e tutti i significati attribuiti loro nelle varie zone del mondo; e lo apprezzava per il suo insostituibile ruolo conservatore che permette alle 20 nazioni di lingua spagnola e ai 400 milioni di hispanohablantes  di restare uniti nella comunità linguistica. Quindi il dizionario è ancora visto in Messico soprattutto per la sua funzione regolatrice e direttiva, per verificare se una espressione può essere considerata corretta o errata, più che non esser visto come un organo di recezione e registrazione delle modificazioni della lingua, che cioè constati i suoi mutamenti e li contempli. Almeno così a me pare, anche perché so che era stato così anche da noi, poi il fascismo ha inquinato il concetto con un colore politico, per cui era stato sempre più visto come strumento autoritario (che cosa insensata …) per imporre certe espressioni (del tipo che si dovesse dire “ristoratore” anziché ristorante, o cose del genere, per estirpare i francesismi e gli anglicismi …). 
Poi ricordo che Carlo Salinari fu il primo a uscire negli anni sessanta con un “dizionario della lingua parlata in Italia”. Mentre nel mondo di lingua inglese già da molto più tempo è così, il dizionario segue i cambiamenti e gli sviluppi e si tiene aggiornato alla realtà contemporanea, fermo restando che un inglese corretto (detto Queen’s english, o King’s e.) costituisce il riferimento, anche se però non tutti lo parlano. Così ad es. da noi fino a un paio di decenni fa si riteneva giusto che almeno i mezzi di informazione pubblica, oltre che ovviamente le istituzioni di istruzione pubblica, usassero un linguaggio corretto nell’espressione, nella grammatica e nella sintassi per proporre al vasto pubblico un modello di riferimento, abituando alle formulazioni, ai vocaboli, e alle dizioni corrette. 
Oggigiorno oramai è anzi il contrario, i mezzi di comunicazione avvalorano il linguaggio popolare delle larghe masse adottando le loro espressioni quotidiane di uso comune, e il cosiddetto “conservatorismo” linguistico è visto come un atteggiamento aristocratico e da intellettuali, di tipo reazionario e privo di senso perché fuori dalla realtà. Di qui poi l’uso non solo di adottare il linguaggio delle masse nel comunicare con le masse, ma addirittura i mezzi di informazione e di comunicazione sono i principali veicoli per introdurre e consolidare anglicismi e neologismi, anzi ancor più, per imporre l’uso di termini inglesi o anglo-americani. Oramai in molte categorie professionali e scientifiche, anche in campi umanistici, come la sociologia o la psicologia, è di prammatica attenersi all’uso delle definizioni, dei modi di espressione, e dei termini direttamente tratti dall’uso inglese, per cui oramai non solo si sono introdotte queste terminologie, ma non se ne può più fare a meno (computer, hard disk, floppy, RAM, mail, check-in, test, screening, trailer, background, feed-back, AIDS, pap test, TAC, più vari neologismi anche ridicoli, tipo testare, velocizzare, ecc.).Similmente in Grecia; diversamente nei paesi arabi e in quelli orientali.  Ma là si intersecano altre questioni più complesse date dalla scrittura, o dal divario tra lingua scritta e parlata (Cina, India, p. arabi).
Ogni mese vengono presentati circa ottanta quesiti alla Academia Méxicana de la Lengua, sull’utilizzo corretto e sul significato esatto di certe parole o locuzioni. E questo non solo per l’avvento delle nuove tecnologie come internet, ma anche per la dominazione degli slogan pubblicitari delle multinazionali, che tendono a “tradurre” in modo automatico, o comunque strettamente alla lettera.
Si sente inoltre l’esigenza di un Diccionario PanHispanico americano, che registri ogni messicanismo, o argentinismo …ecc. Già ne avevo visti degli esempi in Perù che saltavano all’occhio anche di un non esperto come me. Ora sembra che il DRAE nella 22esima edizione sia più attento finalmente ai cosiddetti españolismos, mentre sino a tempi recenti un vocabolo per il solo e semplice fatto di essere utilizzato in Castiglia aveva validità di carattere generale, e ai vocaboli corrispondenti ma diversi, usati altrove si dava il marchio di localismi. Ma se in Spagna per dire computer si usa ordenador, e in Messico computadora, e fenomeni simili si verificano in vari ambiti, molti temono che ci possa essere il “pericolo” che si verifichi una divisione della lingua, tra Europa e America. L’autore di quell’articolo diceva che secondo lui la soluzione è che le varie accademie si consultino regolarmente e stabilmente e si mettano d’accordo su un termine comune. Ma a me pare irrealistico poiché sempre in ogni paese prevale quella di uso corrente imposta di fatto da chi non sa nemmeno che esistano accademie della lingua. 
Ma la RAE afferma che i neologismi vanno trattati come tali. Qual è dunque la funzione sociale del dizionario, ammesso che si debba attribuirgliene una come obiettivo? Nell’articolo in questione si conclude che se non avesse una funzione conservatrice, quello stesso articolo un giorno potrebbe non essere più leggibile per molta gente di lingua “spagnola” (o latino-hispanica). Pertanto un dizionario, e in particolare quello della lingua spagnola, deve comunque sempre rifarsi ai classici, ai grandi autori della letteratura e non ad altro.
E il sogno di Simòn Bolìvar della Grande Patria Comune … ? Idem per la communauté francophone, o per il multiforme mondo degli “english”-speaking-peoples, o per lo hindi quale impossibile lingua comune per gli indiani, o per l’arabo scritto, o per il bahasa-indonesia, o per il malese ufficiale della Grande Malaysia, o per il mandarino Han del nord per l’universo della repubblica popolare cinese. Per fortuna -si fa così, tanto per dire- una fondamentale funzione unificante qualcuno pur la svolge: e cioè il cinema, la tv satellitare, internet, le canzoni, youtube, gli sms, eccetera. Se la tv non portasse in tutte le case i film americani imponendo l’american-english degli Usa (e la visione del mondo che esso esprime), già ora la frammentazione sarebbe non più ricomponibile per gli oramai troppi pidgin-english, idioms, slangs locali, eccetera, mentre ora sembra in atto un processo di diffusione di una certa koiné holywoodiana scritta nelle e-mail e soprattutto nei vari chatting sui social networks, e che è praticata sul lavoro, o per turismo da tutti quelli che stanno all’estero o che viaggiano e si incontrano. Addirittura per esempio mio figlio Michele qui in albergo, giocando a biliardo con una ragazza messicana ha verificato che si intendevano   tra loro parlandosi in quell’ inglese che condividevano, e che è comune ai molti giovani che l’hanno imparato non tanto a scuola ma con le canzoni e i film. 
E qui in Messico gli anglicismi nel linguaggio corrente certo non mancano (e non certo solo a causa di chicanos e pachucos). Ma nel contempo qui in Messico da secoli sono entrati nel linguaggio comune vocaboli delle varie lingue aborigene, più o meno hispanizzati o distorti, o con significati “impropri”, ma anche tali e quali, in misura forse maggiore che in altri paesi del Latino-America. E anche questa è –oltre ai vocaboli in spagnoloamericano locali- l’altra grande caratteristica del linguaggio messicano che si avverte subito, già al primo contatto.

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