Incontro (?) con i Kogi
Intravedo che lungo la spiaggia arrivano dei Kogi che sono evidentemente scesi dal loro villaggio nella selva, per venire a curiosare e guardarsi attorno nel mondo strano dei "civilizzati"…
Intravedo che lungo la spiaggia arrivano dei Kogi che sono evidentemente scesi dal loro villaggio nella selva, per venire a curiosare e guardarsi attorno nel mondo strano dei "civilizzati"…
[Annalisa annota:] "Abbiamo appena fatto due passi
lungo la spiaggia, senza aver tanta voglia di attraversare lo stretto tratto di
acqua che ci separa dalla lingua di sabbia che si affaccia sul mare, quando
vediamo un gruppetto di persone che arrivano camminando dalla parte di golfo
più lontana e compaiono proprio dove il boschetto si affaccia sul mare. Sono
una visione, ancora piccoli alla vista, col vento che li circonda da una
leggera foschia della polvere fine sollevat dalla sabbia. Sono quattro adulti
ed alcuno bambini, vestiti con tuniche bianche, scalzi, che avanzano nella
nostra direzione. E’ chiaro da subito che sono degli indios (o meglio, questa
parole è considerata insultante, preferiscono “indigenas”, indigeni), i famosi Kogi (o Cogui), che vivono ancora isolati nella selva, che neanche speravamo di poter
incontrare. Man mano che si avvicinano notiamo i dettagli del loro
semplicissimo abbigliamento": sono a piedi nudi (tranne uno con stivali di gomma), con capelli lunghi sciolti, tutti in tunica bianchiccia di cotone grezzo, e una borsa con qualche striscia di colore. "Le donne hanno i bambini piccoli in braccio e non sulla schiena avvolti
in un grande scialle come le altre indie che abbiamo incontrato."
Mi avvicino un poco e li saluto ma non mi rispondono. Poi girando per i vari punti ristoro e bancarelle, ne vedo altri, tra cui uno più "anziano".
Più tardi torno nel nostro bar-ristorantino per prendere da bere, e vedo che ce n'è uno seduto con il barista. Mi avvicino per cercare di attaccare discorso, lo saluto, e tento una conversazione improbabile con questo giovanissimo capo-famiglia che sa qualche parola in spagnolo. Gli dico qualcosa tanto per incominciare, del tipo che ho letto un libro sui loro usi e costumi scritto da un loro amico bianco con la barba grigia, e lui mi sorride;
e aggiungo che ho anche visto nel museo una intervista video di uno dei loro saggi sciamani (màmo), e anche foto, ….continua a guardarmi sorridendo.
Ho immediatamente la sensazione di essere un idiota: lui probabilmente non sa che cosa voglia dire intervista, né video, e tanto meno museo o libro, ma forse neanche che cosa significhi leggere …. E mi chiede "quanti siete in famiglia? chi sono?", rispondo che sono qui con la mia compagna che ora è in spiaggia. E gli chiedo, "e tu?" Mi dice che è venuto con la sua famiglia: la moglie e i loro due bambini, e anche con un'altra madre col suo bimbo. Gli dico che "veniamo dall'Italia", ma non sembra sapere cosa voglia dire, aggiungo che "è il paese dove vive il Papa", ma rimane ad aspettare qualcosa, allora dico "Papa Francisco sai?", "no". Vengo dall'altra parte dell'oceano, dall'Europa. Queste notizie non gli significano nulla, per ora dunque non ho saputo comunicare. Passo ad altro e gli dico che "conosco un po' i popoli indigeni delle Ande, sono stato qui al sud, e anni fa in Perù, e anche sulle Ande dell'Ecuador". Alla parola Ecuador si rianima, sa che esiste un paese con quel nome. E dice "è molto molto lontano, lontanissimo". Sì è vero. Si interessa di chiedermi se là ci sono città grandi, e se hanno dei grandi fiumi. Rispondo che la città capitale, Quito, è molto grande. Allora vuole sapere come fanno ad avere abbastanza da bere e mi indica il rio Buritaca. Gli dico che da noi questo è un problema, perché nelle città l'acqua dei fiumi è sporca e bisogna pulirla prima di poterla bere. Allora vuole sapere come. Gli dico che se si versa dell'acqua nel mio sombrero, e poi sotto se ne mette un altro, e poi un terzo, lo sporco resta nei cappelli e l'acqua che esce è ripulita. E' contento di aver capito. Dice che è importante perché "l'Acqua è "ñi", e pronuncia questo monosillabo in modo particolarmente ossequioso facendo capire che è qualcosa di grandioso e venerabile, e infatti aggiunge "come l'Aria". Aggiunge che l'acqua che c'è nel villaggio che si incontra scendendo, la vendono a mille pesos (cioè a 40 cents di €) !!, che per lui è come dire una cosa assolutamente pazzesca.
Ma facciamo fatica a comunicare e anche solo a capire l'uno l'altro, perché lui sa solo poche parole e le pronuncia in un modo strano (così come io le pronuncio in modo incomprensibile per lui ), il che non si può risolvere dicendo "scrivimelo qui" perché è analfabeta. Allora rido con lui quando non riusciamo a spiegarci, e gli dico che tutti e due non sappiamo abbastanza lo spagnolo, ed è una cosa che abbiamo in comune, cioè che quella non è la nostra lingua…
Vado a chiamare annalisa. Quando torno trovo che è lì con un cameriere, il quale mi dice che lui ogni tanto viene e dunque lo ha preso a benvolere e gli insegna ogni volta qualche nuova parola in spagnolo (ovvero le cose del mondo e della cultura materiale nostra). Lo chiamano Juan. Oggi era arrivato per sapere qualcosa sugli aerei (che vede passare in cielo). E' incuriosito dal mondo esterno, ma è timido e reticente. Annalisa gli chiede "quanti anni hai?"; e dice che non sa quanti ma sono circa una ventina, e aggiunge che "fino a un po' di tempo fa non si dava nessuna importanza a questi numeri". E Annalisa gli chiede se ha dei figli, e risponde che ne ha uno di quattro anni e uno di tre mesi. Allora -gli dico- sai le età. Ma risponde che le sa solo dei suoi bimbi perché in questi ultimi anni è una cosa di cui si parla. "E quel ragazzo tuo amico quanti anni ha?" gli chiediamo indicando un ragazzone kogi che è sempre stato lì in disparte. E lui dice che non lo conosce. Ma non siete scesi assieme? "sì, ma non so chi è".
Sono tutti piccoli e minuti, non certo robusti. Ogni volta che gli facciamo una domanda, prima di rispondere si contorce sulla sedia di plastica del bar, e guarda in basso sorridendo imbarazzato. Mi fa tenerezza, mi suscita un sentimento di tipo protettivo.
Allora ci ricordiamo dei Lacandones, incontrati negli anni settanta in Chiapas vicino al confine tra Messico e Guatemala. Anche loro erano venuti ad un mercatino perché curiosi, ma erano impacciati e timidi, ed erano vestiti con una tunica biancastra.
Ci salutiamo e facciamo una foto ricordo. Gli dico "vuoi vedere la foto?" e aggiungo "comunque poi te la mando qui per posta". Ma lui non è interessato a né guardare la foto né a riceverla. Lasciamo questo "buon selvaggio" rousseauiano. E' stato un incontro, o forse sarebbe meglio dire semplicemente un contatto, che ci ha emozionato e che non dimenticheremo.
l'amico kogi "Juan" e Annalisa
Poco più tardi re-incontriamo le due ragazze-madri che erano scese con lui, e un'altra, e che si sono messe nello spiazzo dove posteggiano i pullman, di fianco al mercatino di bancarelle. Qualcuno avrà dato loro le due sedie di plastica, e sono sedute lì. Una è la moglie di Juan, la più giovane (dimostra 15 aa), con un paio di bimbetti, e la seconda una parente con un piccolo e un altro bambino che sta in piedi. La terza sembrerebbe maggiore. Sono comunque piccoline col viso infantile. Da quanto so vivono praticamente di yucca e altri tuberi. Anche loro mi suscitano uno sguardo compassionevole perché mi sembrano fragili, delicate, come forse lo è la loro cultura in pericolo di estinzione, da proteggere, di cui bisogna prendersi cura.
Mi viene il mente per associazione di idee la distopia "Il mondo Nuovo" di A.Huxley (1932), con la riserva antropologica degli uomini "naturali". Poi più tardi torneranno al loro villaggio su in montagna attraversando a piedi la selva. E là si sentiranno al sicuro nella nicchia del loro ecosistema. Solo là sanno cavarsela pur solo con l'orticoltura, un po' di allevamento di maiali e mucche, e come raccoglitori traendo sostentamento dalla natura selvaggia (mangiano assai raramente carne e anche poco pesce di fiume).
Poi si avvicinano alcuni gitanti colombiani che le guardano incuriositi, proprio mentre loro sono venuti per guardare noi e il nostro mondo …
Intanto il nostro autista del pullman regala loro dei budini in un bicchierino di plastica, li prendono senza ringraziare, né un sorriso o una domanda, come se fosse loro dovuto (forse in cambio delle foto che i passanti e io stesso facciamo…). Lei ha imparato a chiedere in spagnolo "dosmil" (pari a 85 €urocentesimi), ma poi non le importa, e comunque non capisce se e quando la foto viene fatta. Una giovane gitante chiede alla moglie di Juan, "quanti anni hai?", risponde "trenta!" e tutti si mettono a ridere, anche loro (probabilmente era un numero a caso tra quelli che sa). Una di una bancarella dice che forse fra poco verrà aperta una scuola primaria dai Kogi.
Sembra che per loro la gita sia già finita, forse devono rientrare perché la camminata è lunga. Anche noi ora ripartiamo, come ci dice l'autista. Le saluto ma non sono interessate a questi convenevoli.
Poco prima due più "anziani" erano passati dal piazzale camminando verso l'entroterra (forse già tornando indietro) ma non le hanno salutate né hanno girato il volto (sia quelli, che loro stesse), nemmeno un cenno, uno sguardo verso gli altri (se non della donna che si era voltata verso di me perché si era accorta che le stavo facendo una foto).
Mah, "tristi Tropici"…
Mi è parso che in confronto ai Guambianos che prendono i bus per andare a vendere o comprare al mercato di Silvia, e che hanno coscienza della propria specificità andina, e questi Kogi ci sia un abisso, un gap forse di secoli.
Comunque è probabile che in questo nostro caso si tratti di persone semplici (anche se curiose di sapere, e di vedere altre società), mentre nel caso dei capi villaggio, o dei "saggi" o degli "sciamani"(màma o mamo), che essi siano personaggi in grado di parlare delle proprie tradizioni e credenze, come è attestato dai video del museo e dagli studi di antropologi e sociologi. I Kogi sono stati studiati in varie occasioni, e ne è emersa una cultura interessante, ma da queste persone che ci è capitato di aver incontrato oggi non ne risulta gran ché (tranne per l'accenno all'Acqua - ñi).
[Annalisa annota:] "Quando tornando in albergo riflettiamo sugli incontri, ci rendiamo conto
delle inadeguatezza di chiamare tutte le popolazioni autoctone genericamente
Indios o Indigenas; ci sono differenze enormi.
Quelli che abbiamo conosciuto a Silvia sono evidentemente completamente
diversi, a partire dalla prima occhiata. L’abbigliamento è coloratissimo e
complesso. Le donne andine indossano gonne sovrapposte, arricciate, in modo da dare
parecchio volume (e tenere caldo) la superiore delle quali è di un blu
abbagliante, con qulche riga di altro colore verso il bordo, portano quasi
sempre un cappello (una bombetta nera o un cappellino di paglia) hanno il
poncho, una camicia, a volte spunta un golf
“normale” forse comprato ad un mercato, hanno scarpe alte adatte a
camminare in montagna, da cui spuntano sempre delle calze. Quasi tutti hanno
abiti puliti e in ordine. La maggior parte pettina i bei capelli in lunghe
trecce, ma molte hanno un taglio corto, più o meno a caschetto. I lineamenti
sono fini, il viso piccolo, il naso proporzionato; non c’è nessuna somiglianza
con quelli che sono gli stereotipi dei lineamenti degli indios che avevo
ricavato da miei precedenti viaggi, in Messico come in Ecuador, con i grando
nasi camusi e un frequente strabismo.
Mentre i Kogi hanno un abbigliamento modestissimo, le loro tuniche sono confezionate
in modo molto approssimativo, di stoffe e fogge un po’ diverse tra di loro.
Portano capelli lunghi, non granchè pettinati. I lineamenti sono meno
delicati, benché anche loro non abbiamo i nasi prominenti."
un amerindio di un'altra etnia del Tayrona
Molto interessante ad es. il lungo mito kogi sulla creazione dell'universo: "All'inizio c'era il mare. Tutto era oscuro. Non c'erano né il sole, né la luna, né gente, né animali, né piante. C'era soltanto mare da tutte le parti.. Il mare era la Madre... Ella era alùna (termine kogi che significa sia pensiero che oceano, è il mondo spirituale, del non-visibile), non era cosa alcuna. Era spirito. La Madre partorì nove figlie. In alto si formarono i territori, e tutti i Mondi che erano appunto nove." (ecc., eccetera, si tratta di un "testo" molto lungo).
(Vedi ad es. su YouTube il video postato il 23.03.2012 youtube.com/watch?v=n0OZX9EEnMY , per una possibile interpretazione vedi anche veneto.antrocom.org , oppure per una lettura psicanalitica www.adepac.org/, e una versione differente in mitosla.blogspot.it, oppure si veda il filmato del regista Alan Ereira, From the Hearth of the World: The Elder Brothers' Warning, 1990 ).
Grande importanza assume la masticazione della coca sia per sopportare più facilmente le fatiche, sia per connettersi con gli ultra-Mondi. C'è una leggenda kogi proprio relativa alla "nascita della coca":"Ai tempi più antichi non c'era la coca, si usava un'erba che oggi è estinta: la guànguala. Ma un màma (=sacerdote e curandero) di nome Teyùna (=Tairona) la desiderava. Egli aveva una figlia con dei lunghi capelli folti, e pensò di trasformarsi in una graziosa uccellina bianca per attirare la sua attenzione. Fece il proprio nido sulla sponda del vicino fiume dove la ragazza andava a bagnarsi. Così lei la notò e le si avvicinò. La prese in mano, e l'accarezzava, e si affezionò. Tornava spesso e la chiamava. A casa raccontò di quanto si era invaghita di quell'uccellina. Ma il padre le disse che si tratta di un uccello cattivo e di starle lontana. La ragazza tornò lo stesso a trovarla e le lasciava bere la sua saliva sulla bocca, e le disse che le piaceva. L'uccellina bianca le chiese "mi ami?" e lei rispose di sì, "allora -le disse l'uccellina- tira quel cordino che ho dietro la testa". Appena lo fece il piumaggio scomparve o ricadde all'indietro, e ne venne fuori Teyuna che l'abbracciò ringraziandola. Poi se ne andò, e la ragazza restò sola e ritornò a casa. Giunta a casa sua si scosse i suoi bei lunghi capelli e ne caddero due semi di coca. Teyuna subito li raccolse e li seminò, e presto crebbero. E da allora Teyuna ha la sua coca che tanto desiderava, e ne da anche a tutti gli altri."
(testo sintetizzato da G.Reichel-Dolmatoff, Los Kogi de la Sierra Nevada, 1985 2a ediz., ora pubblicata da Bitzoc, Palma de Mallorca, 1996, pagg. 161-162).
Qui a Buritaca siamo come in mezzo tra due culture "altre, lontane tra loro, quella colombiana-costeña con molti elementi in comune con la cultura caraibica-latinoamericana; e quella aborigena kogi (o Cogui, o Kàgaba) con un tasso di alterità più marcato, cioè ancor più difficile da interpretare e capire. (Per es. ho letto che hanno curiose abitudini: i giovani apprendono i segreti sessuali facendone pratica accoppiandosi con le vedove.)
un intéressante récente reportage del National Geographic
Inevitabilmente torna alla mente il fantastico romanzo del grande narratore Sepùlveda sulle esperienze del suo personaggio Antonio José Bolìvar vissuto per anni a stretto contatto con gli indios della selva:
oppure le leggende riportate dal dottor Lo Curto che ha nel suo curriculum molte avventure nella giungla sudamericana che lo hanno visto impegnato in vari villaggi sperduti:
Ma che si riferiscono agli indios amazzonici, come il bel romanzo dell'antropologo brasiliano Darcy Ribeiro, "Maìra", 1976, tr.it. Feltrinelli, 1979, che esemplifica in modo straordinario i loro stetti rapporti con la grande madre Natura, o la raccolta di cantici e leggende orali dei Piaroa … Quindi sempre di culture lontane ma per altri versi vicine a queste del Tayrona per la relazione spirituale con gli elementi.
Ma ora il nostro giovane accompagnatore chiama: "¡familia!", bisogna risalire sul carro, torniamo in città, proseguirò le mie libere associazioni di idee, memorie, e suggestioni lungo l'accidentato percorso sul pullman.
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