lunedì 6 agosto 2018

14. i Kogi e altri indigeni del Nord della Colombia caraibica, 2015

COLOMBIA 2015
Un po' dappertutto si incontrano delle persone di origine autoctona locale, nell'area geografica centrale della Colombia, nelle città e persino nella capitale.
Chi più chi meno acculturato, integrato e/o assimilato ...


Come per es. questa coppia in un bar, di Popayàn, o quest'uomo col poncho nella estrema periferia di Bogotà, oppure dei venditori con bancarella, come questi altri più sotto:



(al mercato di Usaquèn)

Il Paese è pieno di questi abitanti che sono chiaramente discendenti da qualche comunità indigena, e sono riconoscibili per i loro tratti tipici, e che tuttavia potrebbero aver perso la lingua e la cultura originaria, e la stessa percezione di una loro identità distinta, o comunque complessa (sulle problematiche connesse, si vedano ancora i "classici" testi di Mario Forno, editrice Studium, 1968, o di Ezio Ponzo, editore Bulzoni, 1967)

Per es. nei dintorni di Villa de Leyva, proprio nel centro della Colombia, andando a fare una visita in una località che in epoca pre-hispanica era il centro di una civiltà importante, come quella dei Muiska, lì non si riesce a riconoscere che a fatica in mezzo alla popolazione prevalentemente meticcia e di lingua spagnola, se ancora sia sopravvissuta una identità muiska al giorno d'oggi. Anche se ora c'è un movimento culturale spontaneo rivolto ad una rivitalizzazione di essa. 
Ma sono più che altro individui singoli, che si sentono vicini alla cultura autoctona, recentemente riscoperta e rivalorizzata, piuttosto che non vere e proprie comunità originarie indigene.
E' solo visitando un museo che c'è in un bel monastero fuori città in collina, che troviamo alcune documentazioni della storia dei muiskas nei primi secoli del periodo coloniale; e anche poi visitando il paesino di Ràquira, ritroviamo certe atmosfere ...
Vedi la puntata n.9 del diario di viaggio in Colombia:
http://viaggiareperculture.blogspot.com/2015/04/viaggio-in-colombia-monastero-del.html

Quando invece compiamo il lungo trasferimento in pullman verso la costa caraibica, pensiamo che allora là se saremo fortunati forse potremmo incontrare qualcuno della comunità dei Taironas che vivono nella selva della sierra,  e forse anche qualche persona di etnia Guajira venuta dalla lunga penisola desertica ad oriente... ? chissà, vedremo....

Poi quando ci fermiamo a Santa Marta, facciamo varie gite: al Parque Natural Tayrona, lungo la costa nord, alle pendici della Sierra Nevada, e lungo un fiume, e in un paesino, eccetera, e così veniamo a sapere che non ci sono più discendenti degli indios Tayronas, ma che comunque ci sono comunità di indigeni che vivono isolati e continuano le loro ancestrali modalità di vita. Sono i Kogi, e un caso fortunato fa sì che avremo un incontro con alcuni di loro scesi dal loro villaggio forse per venire a prendere qualcosa nei negozietti del paesino sull'estuario del rio Buritaca dove ci fermiamo per il pranzo e per passare il pomeriggio.

- Incontro con i Kogi

Intravedo che in lontananza, lungo la spiaggia arrivano degli indigeni vestiti di bianco,  che sono evidentemente scesi dal loro villaggio  in montagna per venire a curiosare e guardarsi attorno nel mondo strano dei "civilizzati"… (cioè sono come dei turisti a rovescio).
Sembrano come uscire dalle nebbie di un sogno, o emergere da cinque secoli fa….





[Annalisa annota:] "Abbiamo appena fatto due passi lungo la spiaggia, senza aver tanta voglia di attraversare lo stretto tratto di acqua che ci separa dalla lingua di sabbia che si affaccia sul mare, quando vediamo un gruppetto di persone che arrivano camminando dalla parte di golfo più lontana e compaiono proprio dove il boschetto si affaccia sul mare. Sono una visione, ancora piccoli alla vista, col vento che li circonda da una leggera foschia della polvere fine sollevata dalla sabbia. Sono quattro adulti ed alcuni bambini, vestiti con semplici tuniche bianche, scalzi, che avanzano nella nostra direzione. E’ chiaro da subito che sono degli indios (o meglio, dato che ora questa parola è considerata insultante, preferiscono “indigenas”, indigeni), i famosi Kogi (o Cogui), che vivono ancora isolati nella selva, che neanche speravamo di poter incontrare. Man mano che si avvicinano notiamo i dettagli del loro semplicissimo abbigliamento": sono a piedi nudi (tranne uno con stivali di gomma), con capelli lunghi sciolti, tutti in tunica bianchiccia di cotone grezzo, e una borsa con qualche striscia di colore. "Le donne hanno i bambini piccoli in braccio e non sulla schiena avvolti in un grande scialle come le altre indie che abbiamo incontrato."

Mi ricordano tanto i Lacandones che avevamo incontrato in Chiapas anni fa.

Mi avvicino un poco e li saluto ma non mi rispondono. Poi girando per i vari punti-ristoro e bancarelle, ne vedo altri, tra cui anche uno più "anziano".

Più tardi torno nel nostro bar-trattoria per prendere da bere, e vedo che ce n'è uno seduto con il barista. Mi avvicino per cercare di attaccare discorso, lo saluto, e tento una conversazione improbabile con questo giovanissimo capo-famiglia che sa qualche parolina in spagnolo. Gli dico qualcosa tanto per incominciare, del tipo che ho un libro sui loro usi e costumi scritto da un loro amico bianco con la barba grigia, e lui mi sorride;

e aggiungo che ho anche visto nel museo una intervista video di uno dei loro saggi "sciamani" (màmo), e  anche delle foto del loro villaggio, ….continua a guardarmi sorridendo.

(da una rivista)
(foto nel museo)

Ho immediatamente la sensazione di essere un idiota: lui probabilmente non sa che cosa voglia dire intervista, né video, e tanto meno museo o libro, ma forse neanche che cosa significhi lèggere ….  E mi chiede: "quanti siete in famiglia? chi sono?", rispondo che sono qui con la mia compagna che in questo momento è in un locale, e che abbiamo due figli ma che ora sono a casa. E gli chiedo, "e tu?". Mi dice che è venuto con la sua famiglia: la moglie e i loro due bambini, e anche con un'altra madre col suo bimbo. Gli dico che noi "veniamo dall'Italia", ma non sembra sapere cosa voglia dire, aggiungo che "è il paese dove vive il Papa", ma rimane ad aspettare qualcosa, allora dico "Papa Francisco sai?", "no". "Vengo dall'altra parte del mare oceano, dall'Europa". Queste notizie non gli significano nulla, per ora dunque non ho saputo comunicare.
Passo ad altro e gli dico che "conosco un po' i popoli nativi delle Ande, sono stato in Sudamerica, più al sud: anni fa in Perù, e anche sulle Ande dell'Ecuador". Alla parola Ecuador si rianima, sa che esiste un posto con quel nome. E dice "è molto molto lontano, lontanissimo". "Sì è vero". Si interessa di chiedermi se là ci sono città grandi, e se hanno dei grandi fiumi. Rispondo che la città capitale, Quito, è molto grande. Allora vuole sapere come fanno ad avere abbastanza acqua da bere e mi indica il rio Buritaca. Gli dico che da noi questo è un problema, perché nelle città l'acqua dei fiumi è sporca e bisogna pulirla prima di poterla bere. Allora vuole sapere come. Gli dico che se si versa dell'acqua nel mio sombrero, e poi sotto se ne mette un altro, e poi un terzo, lo sporco resta nei cappelli e l'acqua che esce alla fine è ripulita. E' contento di aver capito. Dice che è importante perché "l'Acqua è "ñi !", e pronuncia questo monosillabo in modo particolarmente ossequioso facendo capire che è qualcosa di grandioso e venerabile, e infatti aggiunge "...come l'Aria!". Dice che l'acqua che c'è in quel villaggio che si incontra scendendo, la vendono dentro una bottiglia a mille pesos (cioè a 40 cents di €) !!, che per lui è come dire una cosa assolutamente pazzesca.
Ma facciamo fatica a comunicare e anche solo a capire l'uno l'altro, perché lui sa solo poche parole e le pronuncia in un modo strano (così come io le pronuncio in modo incomprensibile per lui ), il che non si può risolvere dicendo "scrivimelo qui" perché è analfabeta. Allora rido con lui quando non riusciamo a spiegarci, e gli dico che tutti e due non sappiamo abbastanza lo spagnolo, e che questa è una cosa che abbiamo in comune, cioè: che quella non è la nostra lingua… fa segno di sì.
Gli dico di aspettarmi e vado a chiamare Annalisa. Quando torno trovo che è lì con un cameriere, il quale mi dice che quel giovane kogi ogni tanto viene lì, e dunque lui lo ha preso a benvolere e gli insegna ogni volta qualche nuova parola in spagnolo (ovvero i nomi delle cose del mondo, cioè della cultura materiale nostra).  Loro del bar lo  chiamano Juan. Oggi era arrivato per sapere qualcosa sugli aerei (che vede passare in cielo). E' incuriosito dal mondo esterno alla selva, ma è timido e reticente.
Annalisa gli chiede "quanti anni hai?"; e lui dice che non sa quanti ma sono circa una ventina, e aggiunge che "fino a un po' di tempo fa non si dava nessuna importanza a questi numeri". E Annalisa gli chiede se ha dei figli, e risponde che ne ha uno di quattro anni e uno di tre mesi. "Allora -gli dico- le sai le età". Ma risponde che le sa solo dei suoi bimbi perché in questi ultimi anni è una cosa di cui si parla. "E quel ragazzo tuo amico quanti anni ha?", gli chiediamo indicando un ragazzone kogi che è sempre stato lì in disparte ad ascoltarci. E lui dice che non lo conosce. "Ma non siete scesi assieme?", "sì, ma non so chi è"...
Sono tutti piccoli e minuti, non certo robusti. Ogni volta che gli facciamo una domanda, prima di rispondere si contorce sulla sedia di plastica del bar, sposta la sua borsa a strisce colorate e guarda in basso sorridendo imbarazzato. Mi fa tenerezza, mi suscita un sentimento di tipo protettivo...
(Allora ci ricordiamo dei Lacandones, incontrati negli anni settanta in Chiapas vicino al confine tra Messico e Guatemala. Anche loro erano venuti ad un mercatino perché curiosi, ma erano impacciati e timidi, ed erano anche loro vestiti solo con una tunica biancastra.)
Juan e Annalisa

Ci salutiamo e facciamo una foto ricordo. Gli dico "vuoi vedere la foto? la si vede qui dietro all'apparecchio", e aggiungo: "comunque poi se la vuoi te la mando qui per posta". Ma lui non è interessato né a guardare la foto né a riceverla. Lasciamo questo "buon selvaggio" di rousseauiana memoria, un po' sconcertati. E' un giovane dolcissimo.
E' stato un incontro, o forse sarebbe meglio dire semplicemente un contatto, che comunque ci ha emozionato e che non dimenticheremo.

Poco più tardi re-incontriamo le due giovanissime madri che erano scese con lui, e un'altra, e che si sono messe nello spiazzo dove posteggiano i pullman, di fianco al mercatino di bancarelle. Qualcuno avrà dato loro le due sedie di plastica, e sono sedute lì. Una è la moglie di Juan, la più giovane (dimostra 15 aa), con un paio di bimbetti, e la seconda una parente con un piccolo e un altro bambino un po' più grandicello che sta in piedi. La terza sembrerebbe maggiore. Sono comunque piccoline col viso infantile. Il ragazzino è incuriosito, incuriositissimo da una moto che è posteggiata lì di fianco.



Da quanto ho letto vivono praticamente alimentandosi di yucca e altri tuberi. Anche queste piccole donne mi suscitano uno sguardo compassionevole perché mi sembrano fragili, delicate, come forse lo è anche la loro cultura in pericolo di estinzione, da proteggere, di cui bisogna prendersi cura.

Mi viene il mente per associazione di idee la distopia "Il mondo Nuovo" di A.Huxley (1932), in cui vi è una riserva antropologica dove vivono degli uomini "naturali".
Poi più tardi torneranno al loro villaggio su in montagna attraversando a piedi la selva, che è appunto un po' una "Riserva naturalistica"... E là si sentiranno al sicuro nella nicchia del loro piccolo ecosistema, nella loro "bolla" ecologica ed etnica. Solo là sanno cavarsela, pur solo con l'orticoltura e la raccolta, certi però fanno un po' di allevamento di maiali e mucche, e comunque sono anche raccoglitori, traendo sostentamento dalla natura selvatica (mangiano assai raramente carne e anche poco pesce di fiume).

Poi si avvicinano alcuni gitanti colombiani del weekend, arrivati in auto o in moto, che le guardano incuriositi, mentre loro sono venute giù proprio per stare lì sedute a guardare noi con i nostri strani vestiti e il nostro mondo di pullman e automobili …
Intanto il nostro autista del pullman regala loro dei budini in un bicchierino di plastica, li prendono senza ringraziare, né un sorriso o una domanda, come se fosse loro dovuto (forse in cambio delle foto che i passanti e io stesso facciamo…). Lei ha imparato a chiedere in spagnolo "dosmil" (2mila pesos, pari a 85 €urocentesimi), tendendo la mano, ma poi lascia subito stare, non le importa, e comunque non capisce se e quando la foto viene fatta. Una giovane gitante colombiana chiede alla moglie di Juan, "quanti anni hai?", lei risponde "trenta!" e tutti si mettono a ridere, anche loro ridono divertite (probabilmente era un numero a caso tra quelli che sa). Una di una bancarella dice che forse fra poco verrà aperta una scuola primaria là dai Kogis.


Sembra che per loro la gita sia già finita, o comunque avranno preso quel che erano venuti a cercare, forse devono rientrare anche perché la camminata è lunga e hanno i bambini. Anche noi ora ripartiamo, come ci dice l'autista. Le saluto ma non sono interessate a questi convenevoli (o non li conoscono proprio, ne avranno magari degli altri...oppure no...).


Per es. proprio poco prima, due kogis più "anziani" erano passati dal piazzale camminando verso l'entroterra (forse già tornando indietro) ma non le hanno salutate né hanno girato il volto (sia quelli, che loro stesse), nemmeno un cenno, uno sguardo verso gli altri (se non nel caso di una donna che passando si era voltata verso di me solo perché si era accorta dal click che le stavo facendo una foto).


Mi è parso che in confronto ai Guambianos Misak (v. puntata 13) che prendono i bus per andare a vendere o comprare al mercato di Silvia, e che hanno coscienza della propria specificità andina, e questi Kogis, ci sia un abisso, un gap forse di "secoli". 
Mah, davvero "tristi Tropici"…

Comunque è probabile che in questo nostro caso si tratti di persone semplici (anche se curiose di sapere,  e di vedere altre società), mentre nel caso dei capi villaggio, o dei "saggi" o degli "sciamani"(màma o mamo), che abbiamo visto al museo, quelli invece siano personaggi in grado di parlare delle proprie tradizioni e credenze, come è attestato dai filmati del museo e dagli studi di antropologi e sociologi.
(da un video nel museo)

I Kogis sono stati studiati in varie occasioni, e ne è emersa una cultura interessante, ma da queste persone che ci è capitato di aver incontrato oggi non ne risulta gran ché (tranne per l'accenno all'Acqua - ñi).
(un manifesto di una esposizione fotografica)

Direi che usando una terminologia che si usava anni fa, mi sembrano un popolo ancora "primitivo", rimasto ad uno stile di vita risalente a molte generazioni fa, a causa del forte isolamento in cui si è ritrovato, all'interno del parco nazionale.

[Annalisa annota:] "Quando tornando in albergo riflettiamo sugli incontri, ci rendiamo conto della inadeguatezza di chiamare tutte le popolazioni autoctone genericamente Indigenas; ci sono differenze enormi.
Quelli che abbiamo conosciuto nell'area attorno a Popayàn, sono evidentemente completamente diversi, a partire dalla prima occhiata. L’abbigliamento è coloratissimo e complesso. Le donne andine indossano gonne sovrapposte, arricciate, in modo da dare parecchio volume (e tenere caldo) la superiore delle quali è di un blu abbagliante, con qulche riga di altro colore verso il bordo, portano quasi sempre un cappello (una bombetta nera o un cappellino di paglia) hanno il poncho, una camicia, a volte spunta un golf  forse comprato ad un mercato, hanno scarpe alte adatte a camminare in montagna, da cui spuntano sempre delle calze. Quasi tutti hanno abiti puliti e in ordine. La maggior parte pettina i bei capelli in lunghe trecce, ma molte hanno un taglio corto, più o meno a caschetto. I lineamenti sono fini, il viso piccolo, il naso proporzionato; non c’è nessuna somiglianza con quelli che sono gli stereotipi dei lineamenti degli indios che avevo ricavato da miei precedenti viaggi, in Messico e Guatemala, come in Ecuador, con i grandi nasi camusi e un frequente strabismo. 
Mentre i Kogi hanno un abbigliamento modestissimo, le loro tuniche sono confezionate in modo molto approssimativo, di stoffe e fogge un po’ diverse tra di loro. Portano capelli lunghi, non granchè pettinati. I lineamenti sono meno delicati, benché anche loro non abbiano i nasi prominenti."

Al museo le foto e i video erano molto ben fatti e forse ci avevano indotto delle aspettative che per questi compaesani di "Juan" sono forse eccessive (d'altronde anche da noi in generale la gente ha poca autoconsapevolezza delle proprie matrici culturali specifiche…)

Molto interessante ad es. il lungo mito kogi sulla creazione dell'universo: "All'inizio c'era il mare. Tutto era oscuro. Non c'erano né il sole, né la luna, né gente, né animali, né piante. C'era soltanto mare da tutte le parti.. Il mare era la Madre... Ella era alùna (termine kogi che significa sia pensiero che oceano, è il mondo spirituale, del non-visibile), non era cosa alcuna. Era spirito.  La Madre partorì nove figlie. In alto si formarono i territori, e tutti i Mondi che erano appunto nove."  (ecc., eccetera, si tratta di un "testo" molto lungo).

(Vedi ad es. su YouTube il video postato il 23.03.2012 youtube.com/watch?v=n0OZX9EEnMY , per una possibile interpretazione vedi anche veneto.antrocom.org , oppure per una lettura psicanalitica www.adepac.org/, e una versione differente in: mitosla.blogspot.it  Oppure si veda il filmato del regista Alan Ereira, From the Hearth of the World: The Elder Brothers' Warning,  del 1990 ):


Grande importanza assume la masticazione della coca sia per sopportare più facilmente le fatiche, e l'afa della selva, sia per connettersi con gli ultra-Mondi. C'è una leggenda kogi proprio relativa alla "nascita della coca":
"Ai tempi più antichi non c'era la coca, si usava un'erba che oggi è estinta: la guànguala. Ma un màma (=sacerdote e curandero) di nome Teyùna (=Tairona) la desiderava. Egli aveva una figlia con dei lunghi capelli folti, e pensò di trasformarsi in una graziosa uccellina bianca per attirare la sua attenzione. Fece il proprio nido sulla sponda del vicino fiume dove la ragazza andava a bagnarsi. Così lei la notò e le si avvicinò. La prese in mano, e l'accarezzava, e si affezionò. Tornava spesso e la chiamava. A casa raccontò di quanto si era invaghita di quell'uccellina. Ma il padre le disse che si tratta di un uccello cattivo e di starle lontana. La ragazza tornò lo stesso a trovarla e le lasciava bere la sua saliva sulla bocca, e le disse che le piaceva. L'uccellina bianca le chiese "mi ami?" e lei rispose di sì, "allora -le disse l'uccellina- tira quel cordino che ho dietro la testa". Appena lo fece il piumaggio scomparve o ricadde all'indietro, e ne venne fuori Teyuna che l'abbracciò ringraziandola. Poi se ne andò, e la ragazza restò sola e ritornò a casa. Giunta a casa sua si scosse i suoi bei lunghi capelli e ne caddero due semi di coca. Teyuna subito li raccolse e li seminò, e presto crebbero. E da allora Teyuna ha la sua coca che tanto desiderava, e ne da anche a tutti gli altri."
(testo sintetizzato da G.Reichel-Dolmatoff, Los Kogi de la Sierra Nevada, 1985, 2a ediz., poi ripubblicata da Bitzoc, Palma de Mallorca, 1996, pagg. 161-162).
(da un recente articolo del "National Geographic")

Qui a Buritaca siamo come in mezzo tra due culture "altre, lontane tra loro, quella colombiana-costeña con molti elementi in comune con la cultura caraibica-latinoamericana; e quella aborigena kogi (o Cogui, o Kàgaba) con un "tasso di alterità" più marcato, cioè ancor più difficile da interpretare e capire. (Per es. ho letto che hanno curiose abitudini: i giovani adolescenti apprendono i segreti sessuali facendone pratica "assistita" accoppiandosi con le vedove.)
In definitiva pur essendo in un villaggio isolato, e pur essendo lontano e di difficile accesso per cui sono rarissimi i viaggiatori che li raggiungono, anche i Kogi sono coinvolti in mutamenti, sono soggetti a cambiamenti che influenzano la loro vita e la loro mentalità. Appunto abbiamo visto p. es. che quello "più anziano" aveva degli stivali di gomma, mentre tutti gli altri sono arrivati a piedi nudi..., aveva preso una bottiglia di plastica vuota per chissà quale obiettivo... il nostro Juan era curioso di farsi spiegare che cosa siano gli aerei che vede in cielo, e come sia possibile fornire abbastanza acqua per tutti gli abitanti di una città grande, e voleva imparare lo spagnolo... anche la moglie aveva pur imparato come si dicono certi numeri... Quindi persino per loro (così come è poi accaduto p.es. ai Lacandoni) il mondo non è più soltanto quello della selva in cui abitano, gli orizzonti si sono ampliati, la storia non è inesistente per cui tutto rimane sempre fisso come è sempre stato, e il loro sistema tradizionale di vita cui pure sono ancora molto legati, sta per incrinarsi ed essere messo in questione...  
(un saggio del 2013)

Ora dunque si parla di un "risveglio" culturale. Sarei curioso di sapere tra vent'anni come saranno messi i Kogi... a quali compromessi saranno pervenuti, quanti degli attuali neonati saranno partiti per raggiungere il mondo delle città... o incominceranno a volersi vestire secondo i gusti personali, eccetera... Ma questo studio di E.Jullien sembra indurre a un maggior "ottimismo" sul futuro prossimo dei Kogi.

Mentre ad es. sugli Arhuacos, nessuno ne sa nulla. Cfr. A. Del Fabro, Atlante dell'Uomo - Popoli tribali, Demetra, Verona, 1999, pp. 88-91.

§. - uno sguardo ad alcune donne provenienti dalla penisola di Guajira

Riattraversiamo Santa Marta e andiamo di nuovo sul Lungomare e poi da lì in piazza Parque Simòn Bolìvar. Infine entriamo nella sede della vecchia dogana, Casa de la Aduana (anche qui soggiornò Bolìvar nei suoi infiniti vagabondaggi), dove sta il Museo del Oro Tayrona. Si va dal periodo della cultura Nehuange (da cui il nome della baia vista ieri) alla grande fioritura del periodo Tayrona durante il quale sorse la città che con la conquista  spagnola fu rasa al suolo, e dopo abbandonata e poi detta ciudad perdìda, la città perduta, poiché non si sapeva ritrovare il sito, riscoperta di recente sotto la giungla. Furono molto sviluppate la metallurgia e l'oreficeria.
Poi gli indigeni sconfitti si rifugiarono nelle selve più interne dell'attuale parco della Sierra (le montagne raggiungono con due cime gemelle fino i 5775 metri di altitudine!!).
Cfr. Atlante delle civiltà indigene delle Americhe, a c. di Annamaria Amitrano e F.P.Campione, edizioni Colombo, Venezia, 1992, §. 15, "Basse terre della Colombia".

Quando sarò a casa, riguarderò con occhi diversi il quadro che mi ha lasciato mio padre, dipinto in Colombia nel 1966 da un suo conoscente, J.Gesualdi, che ritrae un' india che vende della frutta



Oggi -contrariamente a quanto oramai pensavamo- nel nord caraibico vivono ancora diverse popolazioni dei discendenti degli aborigeni, degli indios autoctoni, non solo i Kogi, ma anche  Wintukua, Wiwa, Kankuamo, e alcuni altri. 
Il museo è gratis come tanti altri, ed è un po' più piccolo di quello di Cartagena, ma è molto ben fatto, e anche questo con una parte archeologica ed una etnografica. In quest'ultima c'è una storia dei vari viaggiatori che negli ultimi cinque secoli hanno visitato questi luoghi. Tra questi è ricordato pure il grande geografo Eliseo Reclus, vegano ("legumista"), repubblicano, filantropo, e anarchico, che qui tentò anche di fondare una comunità libertaria (era stato espulso dalla Francia in quanto repubblicano, ma per intervento di vari scienziati, tra cui Darwin, la pena fu commutata in un decennio di esilio, durante il quale girò il mondo).
Vi sono interessantissimi filmati sulle società degli indigeni e interviste ai loro saggi (màmos) sulla loro eredità culturale. Ma anche documentari etnografici sulla vita quotidiana della gente del Departamento del Magdalena, che non sono certo solo indigeni amerindi, ma sono neri o mulatti caraibici, o discendenti misti di neri e indios, e poi ci sono vari campesinos, pescatori (Apalaanchi)ribereños di mare e di fiume, e lavoratori di piantagioni o inurbati nelle periferie delle città e cittadine in via di sviluppo, e gente della savana, coltivatori di etnia Ette, o lavoratori delle saline, immigrati Wayùu dalla penisola arida della Guajìra …
Una popolazione molto variata, che fa riferimento a tradizioni culturali diverse, non solo afro-caribeñe o indigene amerindie.
Dopo aver guardato con interesse e attenzione i bei video con interviste, prendo il catalogo. Ma il funzionario non ha da darmi il resto, chiede invano ai colleghi... e allora mi dice di seguirlo, scendiamo assieme, e chiede ai guardiani se loro hanno le monete per il resto... e infine esce, e vedo che va a chiedere alle donne Wayùu che tengono un mercatino per terra di fronte al portone, ma una dorme e le altre due neanche loro ne hanno...

Poi entriamo in un bar-panetteria per comprare un paio di yogurt per domani, e vediamo che ci sono lì sedute tre ragazze indie (forse hanno avuto una borsa di studio per frequentare una scuola in città?). Chissà di che etnia sono...?

A Santa Marta ci capita poi di incrociare anche altre venditrici ambulanti indigene guajiras della etnia Wayùu. Vengono coi pullman dai paesini nel deserto arido del contiguo dipartimento de La Guajira fino qui in città per vendere i prodotti del loro artigianato. Sono spigliate e parlano correntemente lo spagnolo con le altre persone, e la loro lingua originaria tra di loro. Ora queste comunità sembrerebbero prendere a livello popolare una certa maggiore consapevolezza delle loro peculiarità (adesso c'è persino una bandiera per  il territorio di "La Gvahiro"...):

Dunque, come stavo dicendo, qui ora ci sono tre indigene Wayùu che vendono i loro borsettini, borse, cinture, tracolle, cappelli, eccetera


Come dicevo sono molto "sveglie" e "in gamba", si sanno destreggiare benissimo con i turisti anche stranieri e mercanteggiare i prezzi con le signore di città in vacanza. 
Che differenza! e direi che distanza! rispetto all'ingenuo e candido Juan Kogi...

Anche qui i pochi turisti sono quasi tutti o colombiani in ferie o in gita per il fine-settimana, oppure argentini, o cileni, o di altri paesi latino-americani.
C'è anche una "anziana" wayùu che vende le borse colorate che sta facendo lì al momento. Si avvicina una coppia di giovani, a lei piace tanto una certa borsa, chiede a quanto la vende, e poi dice "ma qui ora in spiaggia non abbiamo quei soldi, e domani poi partiamo" … La wayùu allora le risponde: "ma tu vieni che qui ci sarà una mia compaesana per la mattina, poi se ne va"; "ah…e quando viene?"; "tempranito" (al mattino un po' presto); "ma quando se ne va?"; "va alle 9 e mezza / 10"; "ah, allora noi non facciamo in tempo"; "ma sì, basta che vieni di mattina"; "ma quando? cioè a che ora?"; "te l'ho detto"; "allora niente, perché quando noi veniamo qui, son passate le 10 … ma quanto si ferma poi qui?"; "oh, si fermerà fino alle 6 de la tarde"; … Ecco delle incomprensioni o difficoltà nella comunicazione. Forse questa wayùu non sa tanto bene lo spagnolo, o "traduce" alla lettera dal giro di frase e dal modo di esprimersi della sua lingua materna. Ma forse invece non le era chiara la differenza fra "va" e "viene", o forse nella sua lingua è un unico verbo... chissà... sono le difficoltà della comunicazione tra culture differenti.

E comunque anche per i Wayùu e le altre comunità guajiras mi pongo gli stessi interrogativi che mi ponevo più sopra per i Kogis e le altre comunità del Parque Tayrona.... Quale futuro? di acculturazione, di assimilazione, di estinzione, o di vie specifiche e originali allo sviluppo culturale?
Già decenni fa il nostro Folco Quilici prediceva "un gran buio" per il futuro di questi popoli marginali, e oggi la globalizzazione porta nuovi scenari e nuove forme di inculturazione e di acculturazione tramite i mezzi di comunicazione di massa, che inducono in particolare i giovani ad un  drastico rigetto delle tradizioni, dei comportamenti, e delle consuetudini, cioè degli usi e costumi (nel senso di mores et instituta vitae resque domestica ac familiaris, per citare Cicerone, quindi le manifestazioni della vita pubblica e privata relative anche all'insieme degli oggetti della vita materiale) e dunque le caratteristiche specifiche di quelle comunità, determinando anche una caduta e perdita non solo della stessa lingua originaria ma con essa dei valori culturali e identitari del proprio piccolo popolo... ma chi può sapere cosa accadrà, cerchiamo di essere ottimisti (in questi anni si sono ripetuti convegni addirittura su scala mondiale dei rappresentanti di vari di questi popoli, attualmente ve n'è in corso uno a Taiwan, per la Colombia vi è l'organizzazione CONAPPI, già nel 2007 l' OIL ha varato una "Dichiarazione dei Diritti dei popoli indigeni", vedi https://www.unimondo.org/Guide/Diritti-umani/Diritti-dei-popoli-indigeni/(desc)/show).

In questi ultimi tempi si sono moltiplicati anche gli studi e le ricerche, e anche la pubblicistica che mira a far conoscere in modo corretto queste realtà sinora trascurate o misconosciute:

 1998

 2011

 2016

 2016



mercoledì 1 agosto 2018

13 - i Misak Guambianos, indios del Sud della Colombia andina 2015

13° post della serie etnografica:

riporto da un viaggio di un mese in Colombia, che abbiamo fatto tra il 21 febbraio e il 21 marzo del 2015... Qui si tratta di una gita di una giornata, nell'area sud-andina, per vedere un mercato in cui convergono molti indigeni della etnia dei Guambianos.

Popayàn, martedì 3 marzo , mattina presto
Per andare a Silvia da qui (siamo a 1740 m. di altitudine) bisogna prendere due corriere, andando alla stazione Terminal des autobuses di Popayàn (a poco più di un quarto d'ora a piedi dal centro), prendere il biglietto per il bus che va verso Cali sulla 25, cioè la Panamericana, fino al paese di Pièndamo (1 €uro e 25), e poi lì scendere, e prendere una corriera locale che sale su a Silvia (1€ e 45). Ci vogliono un paio d'ore di viaggio, in tutto non sono molti kilometri (circa 53), ma il dislivello è di quasi mille metri ...
Il primo bus (della Coop. integral de taxis "Benalcàzar") ha una assistente che sta seduta davanti, vicino al guidatore e che serve per espletare la burocrazia della vendita e del controllo dei biglietti. Il bus ha tutti dei decori sul parabrezza e anche sullo specchietto. Supera sempre, incurante della doppia riga continua, passando a volte anche sulla destra.
Alla "stazione" di Pièndamo che è banalmente uno spiazzo dove "stazionano" vari bus che arrivano, partono, attendono, con totale caos, individuiamo il nostro e saliamo sul secondo bus (dei Coomotoristas del Cauca), e lì aspettiamo. Anche questo ha i decori sul vetro. Naturalmente quando si viaggia si telefona, e infatti c'è un Alquiler de simcard para venta de minutos (affitto di sim per cellulari per scatti di minuti, ovvero inferiori a un'ora). Uno salendo chiede se quel posto nella parte davanti è libero, e gli rispondono un po' titubanti: aquì estaba Don José...; ci pensa un attimo e va altrove...
Arriviamo fin su, con vari saliscendi e curve, a 2684m alla piazza principale, il Parque di Silvia, un borgo rurale di circa trenta mila abitanti, fondata dagli spagnoli nel 1562. Sul lato destro c'è la grande area del mercato coperto dove c'è di tutto e si vende di tutto.
Ci sono degli slarghi dove posteggiano i vari camion, corriere, e bus. i trasporti passeggeri degli indigeni sono in gran parte dei chivas, cioè delle corriere aperte con sedili di legno, oppure camionette, o altro, adattati al momento. I grossi mezzi pesanti sono spesso tutti decorati e colorati.

camioneta

chivas


buses

Dunque qui scendono, specie il martedì, moltissimi Guambianos di tutte le età, vestiti con il loro costume tradizionale, che vengono dai loro villaggi su in montagna (cinque o sei). In tutto i membri di questa comunità andina sono circa 12mila nella municipalità di Silvia (frazioni incluse) e da 21 mila a 33mila in tutto il distretto del Colca, e alcuni altri confinanti (che sono il territorio che li contempla, in esp. Resguardo). E' invalso chiamarli in spagnolo Guambianos poiché essi chiamano l'area delle loro terre ancestrali Guambìa, ma loro come popolo si autodenominano Misak.
Gli uomini portano una "gonna midi" (falda) un po' stretta, blu, e un giubbino nero a spalle larghe con due ruana rettangolari, e con una sciarpetta. Questo abbigliamento si chiama vestimenta de ruana. Mentre le donne sono vestite con una giacchetta (blusa) azzurra e una gonna nera (o blu o con bordi di altro colore), e sopra una mantella fatta da un pañolòn di lana, e portano spesso un cappello (sombrero) che noi diremmo "maschile", oppure uno piatto che mi pare di paglia intrecciata. Molte donne vengono portandosi con sè i loro bambini, anche piccoli.



non tutte hanno l'abito contadino







Ma anche altri indigeni di altre comunità con abiti di colori e di fogge differenti vengono a vendere e/o comprare. Ci sono anche molti comedores, dove possono sostare per rifocillarsi o semplicemente per bere o/e  riposare.





tutto è relativamente pulito e ben in ordine

Questo non è un mercato per turisti (e comunque i colombiani vengono dalle città nel fin-de-semana), ma per le loro necessità quotidiane. Nel mercato ci sono varie zone, con verdure, con carne, oggetti, o animali da cortile, o fiori, o frutta, ma anche abbigliamento, scarpe, cappelli, corde, selle per moto (che hanno sostituito i cavalli),  e finimenti, saponi, eccetera…ecc.



dei tamales

Giriamo qua e là, curiosiamo, e faccio molte foto. Una mi chiede: "ma poi che te ne fai?" riferendosi alle foto. Le spiego che quando sarò ritornato nel mio paese che è molto lontano e molto diverso da qui, mi serviranno per ricordare i posti dove sono stato, e per me sarà bello rivederli. "Ah… è così !?, ora capisco, va bene".











questa signora anziana per es. porta molte collane





Il tutto si svolge ben sotto sorveglianza delle forze dell'ordine ...

A metà pomeriggio si torna. Andiamo a cercare un bus per Piendamo o magari meglio una camioneta diretta per Popayàn.


molti caricano i sacchi con gli acquisti


troviamo un diretto per Popayàn per l'equivalente di 3€uro (cioè 7mila pesos).
Al ritorno si fa più velocemente dato che è tutta discesa. Sono seduto di fianco a un Guambiano in costume, con la sua gonna turchese, e gli chiedo se da loro la scuola è bilingue, mi risponde di sì che tutte le scuole nelle aree indigene ora sono sia nella lingua locale, cioè per loro in Namrik (o Namtrik), sia in spagnolo, a seconda delle materie e del grado. 
Eccoci arrivati, scendiamo al Terminal. E' stato un giro veramente straordinario, indimenticabile. Una intera giornata al mercato del martedì è sufficiente per farsi almeno una prima idea, anche visiva, di questa popolazione andina. In tutto questo giro e visita eravamo gli unici stranieri presenti...

Si tratta dunque di una comunità non molto inculturata dal mondo latinoamericano del sudamerica, la quale vivendo in piccoli paesini montani e appartati, ancora parla per il 65% la propria lingua autoctona wampi-misamera-wam, altrimenti denominata Namrik, che apparterrebbe alla famiglia linguistica Coconucan, ma secondo altri invece sarebbe a sè stante. Incide sulla conservazione della cultura tradizionale anche il fatto che sino a poco fa non c'erano scuole, per cui ancor oggi il 18,4% sono analfabeti (le donne in misura molto maggiore: il 62,4%) si veda anche del ministero degli interni: https://www.mininterior.gov.co/sites/default/files/upload/SIIC/PueblosIndigenas/pueblo_misak.pdf

Sono molto legati alla propria terra ancestrale, che è la Grande Madre, per cui vi sono luoghi tabù, altri "luoghi incantati", e terre comunali che riguardano tutta la comunità come tale. Per cui i primi sono considerati alla stregua delle Riserve naturali, in cui è proibita caccia, pesca e raccolta, ed altre attività depauperanti il patrimonio ecologico (laghi, fiumi, cascate, ruscelli, montagne, o vette,  terreni accidentati, franosi e fragili (quebradas), e territori isolati, incontaminati, solitari (pàramos), cimiteri, luoghi di valore simbolico storico-culturale). I secondi sono spazi in cui non si può entrare senza il debito permesso delle autorità spirituali della comunità, e compiendo previ rituali di purificazione e di sanazione (limpias, limpiezas, de purificaciòn y de armonizaciòn) cioè per es, certi boschi, certi sentieri, vulcani, ghiacciai, certe fosse, cavità, vani (huecadas). I terzi sono quelli di interesse comune, tipo stagni o laghi o fiumi pescosi, pozzi, territori destinati a sviluppare attività produttive che riguardano tutti gli abitanti, ecc. L'acqua è divinizzata.
Quindi con i decenni (a partire dagli anni quaranta del sec. scorso) si è sviluppata una normativa consuetudinaria di comunità che è riconosciuta e rispettata nell'ambito di una specifica giurisdizione speciale indigena.
Molto interessante il loro concetto tradizionale del tempo: http://www.memoriaycreatividad.com/ unidades/conozcamos-sobre-los-misak-guambianos-y-su-idea-del-tiempo/
Sul piano economico la sussistenza si trae da coltivazioni di caffè, patate, grano, manioca (yuca), lenticchie, fagioli, fave, ulluco, e repollo, che consumano e anche scambiano o vendono.
A livello della rete di parentela praticano la endogamia etnica, ma vi sono in realtà anche alcuni incroci con popolazioni contigue. 
Il loro curandero si chiama merepik; la cerimonia della limpieza è chiamata pishimarep.

Per il resto del diario del nostro viaggio in giro per la Colombia, si veda la serie di 24 post caricata nell'aprile/maggio del '15:
http://viaggiareperculture.blogspot.com/2015/04/viaggio-in-colombia-al-sud-mercato-di.html
(e i successivi)

Fino a pochi anni fa ben raramente si sentiva nominare l'esistenza di questo gruppo autoctono, per cui anche le grandi opere e i testi generali di etnografia, e quelli di etnologia e antropologia culturale del sudAmerica, cui ho indicato il riferimento anche negli scorsi post di questa serie, non lo nominavano nemmeno. Si trova un breve accenno in questi ultimi anni solo in alcune guide per viaggiatori, ma molto superficiale, e per un obiettivo strettamente da turista, attirato da questo colorato mercato come attrazione folkloristica (e così è stato anche per noi, abbiamo intrapreso il non-agevole viaggio spinti da curiosità per le culture andine). 

Per cui una bibliografia è molto ristretta. Intanto nell'ambito dei reportages di viaggio si può leggere il post di Massimo Bocale,  cfr: luomoconlavaligia.it (del marzo scorso 2018, ottimo post ma che non dice molto di più di quel che avevate già letto su questo mio blog nel mio diario dell'aprile 2015).

Tra i più rispettati leaders delle comunità indigene, c'è proprio una Guambiana (Misak): Liliana Pechené che non a caso fu accompagnatrice del presidente Juan Manuel Santos a ritirare il premio Nobel per la pace, nel dicembre 2016.

Bibliografia etnografica
Molto di più approfondisce le info su questo popolo un articolo di Edgardo Civallero e Sara Plaza Moreno sulla rivista  (madrileña) esclusivamente dedicata alle culture andine: «Tierra de vientos» n. 20, Julio-Aug. 2014 ( ISSN 2173-8696): "Los Misak o Guambiano",  http://tierradevientos.blogspot.com/2014/08/los-misak-o-guambiano.html (in inglese landofwinds.blogspot.com )
Ma menziono specialmente l'articolo di Ximena Pachòn, "Guambìa", nel volume Introducciòn a la Colombia Amerindia, Instituto colombiano de Antropologia, Bogotà, 1987, e la pubblicazione di una serie di ricerche ufficiali del ministero colombiano della cultura, di una dozzina di anni fa, ma tutt'ora pienamente valida: http://www.mincultura.gov.co/ areas/poblaciones/APP-de-lenguas-nativas/Documents/Estudios%20Namtrik.pdf  
Anche molto interessante è il testo pubblicato sempre dal Ministerio de  la Cultura: "Misak, la gente del agua, del conocimiento y de los sueños", Bogotà, 2010, condotta dal Cecoin un organismo dedicato al mondo indigeno, nell'ambito del programma "Cultura es Independencia": http://observatorioetnicocecoin.org.co/cecoin/ files/Caracterización%20del%20Pueblo%20Misak%20(Guambiano).pdf
Anche se si possono scorgere alcune piccole incongruenze tra le due. Da queste ricerche è derivato un Atlante ufficiale: Cartografìa de la Diversidad, 2010

E una ricerca "Perfil Etnoambiental de las comunidades indigenas" (collegato alla attuazione di progetti per lo sviluppo delle estrazioni carbonifere), svolto dall' organismo Upme, cfr. http://www.upme.gov.co/ guia_ambiental/carbon/areas/minorias/contenid/minorias.htm#4   al cui interno leggi nello stesso sito, con la stringa finale /guambian.htm

Per questa ed altre comunità di quell'area vedi in biblioteca: 
Geografìa Humana de Colombia, ICCH, Bogotà, tomo IV, vol. II

Più facilmente accessibile essendo un testo italiano, vedi Atlante delle civiltà indigene delle Americhe, a c. di A, Amitrano (con F.P. Campione e altri), Edizioni Colombo, Venezia, 1992, pp. 78-79.

Un altro è quello a cura di Fabio Marcelli, I diritti dei popoli indigeni, Aracne, Rona, 2009, cap. VIII: Yolima Sarria e Nelson Hernandez, "Problematiche politico-giuridiche dei popoli indigeni del Cauca colombiano", pp. 281-301.
Di carattere generale vedi a c. di A.L.Palmisano, P.Pustorino, Identità dei popoli indigeni: aspetti giuridici, antropologici e linguistici, IILA (Istituto Italo-LatinoAmericano), Roma, 2008, atti di un convegno internazionale a Siena.
A cura di Stefano Fusi, Custodire la terra: il messaggio dei popoli nativi delle Americhe, Area51Publishing, S.Lazzaro di Savona, 2013

Lo studio etnologico più approfondito è questo del 2011:


Per quanto concerne le nuove guide di viaggio, ve ne sono oramai diverse, dato che ultimamente l'afflusso turistico estero è aumentato considerevolmente: