giovedì 27 febbraio 2014

:-) ancora sul libro (5)

ciao a voi, volevo solo esternare una soddisfazione: il libro "il viandante e lo sciamano" ha già esaurito la prima tiratura, e la seconda ed ora è in stampa una terza. 

Come già vi dicevo contiene tra l'altro i resoconti di interessantissimi colloqui avuti in Ecuador sul tema della cultura tradizionale andina, che si è in parte mantenuta e perpetuata nel tempo, tramandata dagli indios nonostante l'imperante cultura ispanica. 
Si riferisce dell'incontro con Pintag Saransig (che ci ha condotti a visitare i luoghi sacri indigeni nell'area di Otavàlo), con padre Onore, professore di entomologia (che ci ha dato un'idea dei gravi problemi economici-sociali ed ambientali del Paese), con il preside di scuola Quizhpe e la sua famiglia del popolo di Saraguro, col dottor Salazar (che ci ha illustrato i problemi politici e istituzionali delle minoranze in questo frangente storico), con l'amico Pumaquero (che ci ha fatto comprendere la cultura e la spiritualità della popolazione di lingua kichwa), con il fondatore di una scuola libertaria, il direttore prof.Vacacela, e con altri interessanti personaggi incontrati viaggiando nell'area delle Ande.
il preside Quizhpe e la moglie, con Ghila

a cena a casa loro

Il libro lo si trova nelle principali librerie, o si può anche acquistarlo direttamente alla sede delle edizioni in via Mazzini 47 a Ferrara (tel. 0532 206734) , oppure lo si può ordinare per mail (libri@este-edition.com), o farselo mandare a casa per posta con pagamento contrassegno alla ricevuta (costa 15€). Vedi la presentazione in quattro post di febbraio in questo blog.



Purtroppo, per vari motivi, non vi sono che solo poche immagini, perciò vi segnalo che eventualmente altre foto le potete vedere sulla mia homepage :

http://utenti.unife.it/carlo.pancera/mywebalbum/index.html
o anche  http://utenti.unife.it/carlo.pancera/testi/altri.htm
cliccando su "Reportage fotografico"

(oppure ve ne sono alcune anche sulla mia pagina Facebook).

il viandante e lo sciamano 4

concludo la trascrizione della registrazione fatta durante il dibattito alla libreria Ibs l'altra sera.


la Reggitora della grande casa contadina, la Mamà di Pintag

sèguito del mio intervento:
Questa cultura kichwa del Nord delle Ande, è veramente altra rispetto alla nostra, è veramente complessa e quindi difficile da penetrare. Anche in questo caso mi ero posto dei problemi all'inizio della stesura del testo: come faccio a incominciare a parlare di una cosa che probabilmente chi legge non conosce per nulla, non ne sa assolutamente niente? dovrei cominciare a spiegare tante cose, a partire dal fatto che le persone con cui si parla spesso non sanno lo spagnolo, se non lo stretto necessario, o lo sanno malamente. Qui si parla il kichwa, che è la variante settentrionale del quechua, c'è tutta una storia che percorre tutta la Modernità, l'Età Moderna, dato che queste popolazioni furono sottomesse dai conquistatori, eccetera eccetera, sarebbe troppo, non avrebbe senso… L'unica via è fare entrare, fare entrare in una atmosfera, introdurre nel senso etimologico del termine, iniziare a questo mondo altro e alla sua forma mentis. Ecco che arrivo al tema accennato da Anita Gramigna nel suo intervento di apertura e nella sua domanda sulla questione dell'onirico. Ecco in effetti si può incominciare a introdurre il lettore, comunicando delle sensazioni, delle emozioni, una atmosfera, rendere partecipi (nella misura in cui io posso essere capace dato che non sono certo uno scrittore, tutt'altro) con queste modalità, avviare una compartecipazione empatica pian pianino, man mano che si va sempre più a fondo dentro a questo percorso in un contesto culturale "altro",

e sopratutto far capire la differenza che c'è nel guardare ciò che ci circonda a seconda di qual'è lo schema, il paradigma in campo, quale è la forma mentis da cui si guarda. Io mi sono accorto che queste sono state proprio le prime esperienze introduttive che abbiamo fatto. E quello che guardandomi attorno a me sembrava di vedere, non era propriamente quel che c'era da vedere, chi ci accompagnava ci ha aiutato a vedere coi loro occhi, ed è allora che ho scoperto un mondo che mi stava attorno. Ho scoperto appunto che non avevo visto le cose che pur avevo guardato, e dunque qua c'è un po' il tema dell'onirico su cui mi sollecitavi.

Anita: La narrazione è anche una forma del pensiero, è uno "stratagemma" per realizzare la conoscenza… quindi ha un valore pedagogico immenso, al di là dei contenuti che contiene. Ora, diceva prima Carlo giustamente, tutto è collegato, e questo libro nelle sue varie parti compie dei richiami tra esse continuamente, nel ricercare una unitarietà nella differenza, perché è un libro densamente estetico, non solo e non tanto perché insegue il principio della bellezza, che è anche presente questo, ed è un "bel libro", sia per come è scritto, sia perché è piacevole, e quindi insegue in questo senso un principio di bellezza e di piacere. Ma è estetico anche dal punto di vista di una sensibilità relazionale, poiché a noi piace una cosa quando ne cogliamo l'armonia o la disarmonia tra le sue varie parti, altrimenti non capiamo nulla.

E quindi è una estetica quella del libro, che utilizzando la metafora, e le immagini, come compare sopratutto nel linguaggio di Ghila ma anche quello di Carlo, è una estetica che introduce -attraverso anche il linguaggio del sogno e dell'onirico, del sogno come desiderio, del sogno ad occhi aperti, ma anche del sogno sognato, relativo a quelle immagini strane che circolano nella nostra mente quando dormiamo- è una estetica che preannuncia la spiritualità. Quindi questo testo con i suoi vari linguaggi ci pone di fronte al tema della religione, della trascendenza, della spiritualità. Con soluzioni assolutamente differenti, ed è questo il bello del libro anche, non ci da solo una visione, unica.
Ecco è di questo che vorrei che ora Ghila ci parlasse, soprattutto in riferimento al tema del "Grande Albero", che cos'è il grande albero? che senso ha?

Ghila: E' proprio una delle cose più importanti che ho scoperto durante questo viaggio, perché una delle grandi differenze sta proprio nell'approccio alla spiritualità rispetto a quello che abbiamo noi in occidente. Approccio che mi è sembrato molti più aperto a diverse concezioni e aspetti della stessa religiosità. Approccio che ho vissuto in modo molto intimo. Mentre ero lì innanzitutto questa loro spiritualità l'ho sentita, senza dover aggiungere delle parole di spiegazione, e questo forse è ciò che ho cercato di trasmettere in quel racconto, "Il Grande Albero"(pagg.50-53). Ed è poi anche quella caratteristica che diceva prima papà: il sentire. E questa è l'impressione che spero che il racconto produca. Per cui nell'esperienza che ho fatto con il grande albero, che poi come le altre, per me in quanto autrice di narrativa sono dei pretesti. L'esperienza diretta, specifica del viaggio non è precisamente quel che mi interessa raccontare. Piuttosto, appunto con la metafora, quel che vi è di più generale, se così si può dire, di più significativo. Quindi poi non importa tanto capire a quale personaggio specifico ci si riferisca, anche se può avere i suoi aspetti anche divertenti capire le caratteristiche di ogni personaggio. Per quanto riguarda ad es. il grande albero, lì si tratta di una spiritualità che io ho sentito venire allo stesso tempo da fuori e da dentro, nel senso che sono le "cose" anche che ti parlano, le cose con cui noi in questo mondo solitamente non ci rapportiamo molto… quindi l'incontro vero e proprio con un albero come essere, è come nell'incontrare una persona. Ci sono anche parti narrative nel pezzo diaristico perché riportano anche storie tradizionali, leggende, che mi sembra tutte o quasi raccontino che gli elementi della natura, gli alberi, le montagne, parlano, interagiscono, hanno una essenza, un'anima, per cui questa è anche una dimensione educativa. La mia sensazione è questa. Io sono stata educata in questo viaggio e in tutti gli altri che ho fatto, dalle cose, non solo dalle parole delle persone e dalle relazioni con le persone, ma per me, come lo è per loro, ad es. il grande albero è davvero un Maestro, che mi ha insegnato qualcosa, comunicandomela ad un altro livello rispetto alle parole. 

L'editore Roversi chiede al pubblico se vogliono fare un intervallo per porre delle domande, ma le persone dicono di proseguire pure, quindi ridà la parola alla prof.sa Gramigna.
Anita: vorrei dare una chiave di lettura prima di ripassare il microfono a Carlo: ma riguardo a te -che sei stato tra l'altro anche il mio maestro- c'è in te una "spiritualità laica", non è vero? che qui è quella di chi scrive. E questa è una cosa molto interessante, una spiritualità, una sensibilità che si incontra, si  confronta, rimane spiazzata, si riconfronta, si ricodifica, e trova una sua cifra… Questo ritengo sia molto interessante.

riprendo io: Leggerei una paginetta per rispondere. Dunque qua (a pag.100) ci troviamo con una persona di campagna, che ci ha ricevuto nella sua casona dove vive con la sua grande famiglia allargata nel paesino di Peguche, e che ci era stata consigliata perché appunto ci avrebbe potuto introdurre alla spiritualità andina e portarci a visitare luoghi significativi. Questa persona si chiama Pintag Saransig, quindi come vedete il nome non è molto latino, qui sono quasi tutti di lingua kichwa, ma sa parlare bene spagnolo essendo uno dei pochi indios laureati, allora lui ci dice: domani vi porto a vedere un albero… Un albero, perché quell'albero è particolare. Andremo prima a comprare le offerte da portargli, poi chiederemo il permesso all'albero di poterci sedere a terra in cerchio attorno a lui, e mediteremo.
"Dunque, dopo un po' di strada sterrata su per una collina…." (leggo le pagg. 100-101, §.9, "l'albero sacro", vedi anche la foto di p. 151) dove si riporta sia la leggenda della principessa Nina Paccha e del suo innamorato che infine diventa albero, e anche il mito dei due monti che si fronteggiano, si guardano e si sentono attratti l'un l'altro.


Ecco in questa prima visita io ho capito alcune cose importanti: che non avevo capito niente, e ho capito anche che cosa avevo sbagliato, che cosa non ero stato in grado di vedere, e infine quale era il senso di essere lì. Perché "ovviamente" io inizialmente che cosa avevo guardato? questa bella collina col suo bel prato, da cui si gode un panorama bellissimo, poi ho guardato com'era bello il laghetto, con le donne che lavavano i panni, e poi le due montagne, e magari mi è anche interessato venire a sapere che quello era alto 4600 metri (cioè come il nostro Monte Rosa), e l'altro niente di meno che 4940 (più del Monte Bianco), wow!, …. ma tutto ciò non ci dice niente!, non significa nulla, perché questo è un luogo sacro… e allora che cosa eravamo venuti qua a fare? e sono proprio questi racconti, questi miti, queste leggende, queste favole, che popolano il luogo, che pullulano tutt'attorno, che danno un senso al luogo, alle cose che vedi, sono dei riferimenti, conferiscono un ordine al Mondo. Danno un significato anche al fatto che tu sei arrivato fin là, e allora là cominci a capire… allora puoi comprendere che questo albero è sacro, che è un testimone, che questo luogo è il Padre di tutto quel popolo (gli Otavàlo),  che il laghetto ha profondità abissali, e la montagna nasconde tesori nel suo interno che è fuori dal tempo, e quindi cominci a sentire circolare queste comunicazioni. Ecco di nuovo il tema dell'onirico…..
Vi rinvio ad una favola degli indios del luogo, relativa al laghetto: ...nei tempi primordiali "viveva un gigante così alto che scopava i ciuffi delle nuvole con i capelli, per cui era convinto che non avrebbe mai trovato un lago in cui fare il bagno. Quando vide lo Imba cocha non gli diede alcuna importanza, ma tanto per accertarsi entrò coi piedi nelle sue acque. Non solo procedette per tastare il fondo, che non trovò,ma tutto il suo corpo stava sprofondando in acqua . Resosi conto di quel che avrebbe potuto accadere, cercò un appiglio, e si afferrò a una roccia vicina alla cima del monte Taita Imbabura, e lo fece con tal forza che un dito perforò la vetta, come si può ancora adesso constatare. Perciò si racconta che questo monte soffra ogni tanto di mal di testa; in quei momenti si lega la fronte con un fazzoletto di nuvole, e quando il dolore cessa il fazzoletto vola via col vento, e si può vedere tutta la luce attraverso la magica finestra, con uno sfondo di cielo azzurro, e un passato che si perde all'infinito". (cfr. p. 175, nota 48).

L'editore Roversi chiede ora alla prof.sa Gramigna di concludere la serata con un ultimo suo intervento.
Anita: Il libro dovete leggerlo per togliervi le curiosità che ora sono sorte ascoltando questa bella lettura, e per il desiderio che forse è sorto di venire a contatto con punti di vista altri. Vorrei dirvi qual'è a mio parere un'altra "cifra" di questo volume così affascinante, proprio sulla suggestione delle cose che prima diceva Ghila e che poi ha spiegato anche Carlo: questo libro, prima di spiegare delle cose (prima sia in senso temporale che in senso logico), ci insegna comprendere, per questo è un libro umile, vuole comprendere prima che spiegare, il che è a mio avviso il miglior modo di fare educazione -e io credo che questo sia un elemento importante di riflessività della Pedagogia-. E poi un altro elemento di grandissimo interesse dentro a questa cifra che caratterizza a mio parere il volume, è che ci insegna a comprendere ma prima ancora che comprendere, a sentire che le cose, tutte le cose, hanno una loro energia, ed è per questo che l'albero è considerato sacro, perché partecipa di una energia vitale che è la stessa energia che anima la nostra esistenza, i nostri sogni, pensieri, desideri, timori (e anche i nostri incubi), ed è per questo che tutto è legato…. E volevo aggiungere anche che il libro è intensamente estetico, perché riflette e induce una sensibilità relazionale. Alla fine di questo libro saremo persone differenti.
fiera del bestiame

martedì 25 febbraio 2014

viandante e sciamano 3

Proseguo nel riportarvi quanto venne detto l'altro giorno alla libreria IBS in occasione della presentazione del libro.


intervento mio:
Buonasera e grazie per essere venuti. Anch'io non vi parlerò degli aspetti di carattere pedagogico e didattico, che non penso si addicano alla situazione. In effetti io suppongo che vi possano essere piuttosto altri motivi per cui la maggior parte di voi è venuta qua stasera. Secondo me i motivi sono essenzialmente due (e se poi vorrete smentirmi sarà interessante chiacchierarne) il primo motivo è il titolo, che è stata una trovata straordinaria di Ghila, ed è -come si diceva- preso dal titolo di uno dei suoi racconti qui inclusi. In effetti è attraente e accattivante un titolo come "il viandante e lo sciamano" perché coniuga la dimensione del viaggio, che in questo modo, con il termine "viandante", già subito diventa qualcosa che non è semplicemente relativa a compiere un viaggio o ad andare a visitare un altro Paese, perché il viandante è colui che, lentamente quanto è necessario, è lì per cercare di cogliere qualcosa, per osservare, è lì per fare una sua esperienza, è lì per trovare qualcosa che sta cercando, non è lì solo per vacanza o turismo …  e poi lo sciamano... e questo termine agganciato a viandante, ci da subito quella dimensione dell' alterità, dell'esotico, della lontananza, ci da subito la percezione di una distanza e differenza culturale, e allora forse a qualcuno è sorta la curiosità di voler sapere qualcosa su questo sciamano o ha pensato che forse questo libro ci dice qualcosa su chi sono gli sciamani ….

E l'altro motivo forse può essere che tra voi ci sono persone appassionate di conoscenze su culture diverse, oppure appassionate appunto di viaggi, e che vorrebbero sentire raccontare di paesi e popoli lontani, e sono rimaste attratte anche dal sottotitolo "diario di viaggio e formazione tra le Ande dell'Ecuador", e in effetti io vorrei qui parlarvi piuttosto di queste cose. Anche se -come giustamente ricordava l'editore Riccardo Roversi aprendo la serata- tutto è partito da una proposta da parte di Anita Gramigna che mi sollecitò a cercare di riflettere su quanto un testo narrativo, inteso in senso ampio, possa essere utilizzato in un corso universitario di pedagogia, riferendosi nello specifico a questo mio racconto di viaggio. 

Però appunto non vorrei ora soffermarmi su queste questioni, perché credo che non sia questa la sede né il pubblico, in quanto stasera credo che le persone siano venute qui più che altro per quei motivi che accennavo all'inizio.
Però poi in realtà tutto si lega, altrimenti cosa c'entrerebbe il viandante, cioè uno che lascia il luogo in cui si trova, in cui vive, lascia il contesto che gli è consueto, in cui a fatica, crescendo, ha imparato a muoversi, a capire il senso delle cose, su cui ha imparato a riflettere…. Poiché il viandante è questo, è uno che lascia il suo mondo, appositamente per andare a cercare qualche cosa che sia fuori dai consueti schemi; e poi che cosa c'entrerebbe appunto lo sciamano se non proprio alludendo al fatto che (e questo è anche un primo dato che mi sento di dare per rispondere all'interrogativo di prima: che cosa si intende qui con sciamano?)  è un personaggio che vive la totalità, cioè che è profondamente coinvolto in una visione in cui tutto è legato, una cosmovisione. Anche se poi forse si potrebbe dire che aver scelto questa denominazione per riferirsi ad una varietà di personaggi locali diversi tra loro con cui siamo entrati in relazione e dialogo, è un po' arbitrario, anche se si trattava di personaggi straordinari (ma che non sempre gradirebbero essere etichettati in questo modo…) che sicuramente però condividono questo elemento del concepire il Tutto come composto da strette reti di relazioni e in costante reciproca interconnessione.
Pumaquero

Ora veniamo al tema del viaggio, perché sicuramente qui si tratta specificamente del tema del viaggiare! Questo che è qui raccontato, è un viaggio che si è ovviamente svolto in un luogo, in un Paese lontano, ma che è stato sopratutto un viaggio in una cultura, compiuto per cercare di entrarci dentro. E comunque ovviamente si è svolto anche andando a vedere e visitare quel che là c'è da visitare, e a guardare i paesaggi straordinari che ci sono da guardare, ma soprattutto era inteso per cercare di introdursi dentro ad un mondo, ad una cultura, che in questo caso (e questo era uno degli interrogativi prima di partire, quando ancora si trattava di scegliere dove andare: che cosa andiamo a fare laggiù? perché andare proprio là? cosa vogliamo fare, cosa vorremmo cercare?), in questo caso erano gli indios andini. Loro non gradiscono in realtà essere ancora chiamati così, ed anche questo è un primo punto, una prima informazione, o scoperta… piuttosto preferiscono essere chiamati indigeni, o aborigeni, o indoamericani, in particolare indigeni delle Ande. E dunque siamo partiti nella supposizione-speranza che ancora si potesse trovare viva la cultura andina autoctona. Era una scommessa. In altri paesi in cui abbiamo viaggiato, e girato, in vari continenti, il processo di… chiamiamola "modernizzazione" in atto, o comunque di omologazione sul piano culturale, che sta avanzando con gran forza, prospetta un futuro non lontano, un po' troppo poco differenziato a livello planetario, un po' troppo "omogeneizzato" rispetto al modello occidentale che funge da grande livellatore delle differenze esteriori. E invece in questo caso si è rivelato un viaggio veramente fruttuoso, perché abbiamo potuto incontrare delle persone, e visitare i posti che queste persone ritenevano essere quelli più significativi per comprendere quella cultura specificamente andina che ancora sopravvive, e quindi posso dire che "il viandante" ha trovato il suo percorso. Con Anita già abbiamo curato assieme la pubblicazione, tra le altre, di un testo, "Ermeneutica dell'educazione" (Unicopli editrice), in cui nel mio contributo, mi rifaccio a quella famosa poesia di Machado in cui si dice che "il cammino si fa nell'andare", cioè che un percorso significativo per la nostra maturazione interiore è un qualcosa che si vien facendo nel momento in cui ci si mette in cammino, e che si costruisce man mano che si procede. 

Ecco, allora in questo caso, così appunto è successo Per cui che cosa contiene questo libro? contiene un diario, dei racconti e suggerimenti o suggestioni per facilitare una operazione ermeneutica. Un diario di viaggio, sì è certamente scritto in modo non saggistico, però la sua modalità non è propriamente narrativa in senso pieno, intesa come il romanzesco, come fiction, e non è neanche narrativa nel senso in cui lo sono veramente i tre racconti di Ghila, che appunto sono dei racconti nel senso più pieno della parola, per cui lei ha preso stimolo, ha preso spunto per svolgere liberamente una sua narrazione. Mentre un diario di viaggio è anche una cronaca in cui, come in questo caso, si racconta quello che effettivamente è successo, quello in cui ci si è imbattuti, quel che si è incontrato, e quel che ci si è realmente detti con le persone con cui si sono scambiati alcuni elementi profondi, di valore, di significanza culturale, che meritano di essere riportati e ricordati. 
Allora avevo un pochino il timore che un diario come quello che ho scritto in quel viaggio potesse essere un qualcosa di un po' troppo specifico, e fosse di interesse quasi esclusivamente per viaggiatori, mentre invece Anita mi ha incoraggiato dicendomi che non era solamente così… e che poteva benissimo essere  compreso come un viaggio di conoscenza e di formazione. Aveva apprezzato il fatto che è denso di informazioni fornite in modo discorsivo e scorrevole, che con questo approccio, introducono ad una maggiore conoscenza di quella cultura, e denso di riflessioni su quella spiritualità che riteneva profonde e stimolanti.
Dunque in effetti, se a qualcuno ora può esser sorta la curiosità di leggerlo, ebbene le "chiavi di lettura" cui appunto accennava anche Anita prima, sono per me principalmente i simboli e la metafora. Un po' tutto quello che lì racconto, non solo è effettivamente accaduto, ed è rispondente a quello che abbiamo fatto e detto, ma prende maggior senso se letto in quanto metafora di qualcosa di più ampio e profondo,
la Tawa Chakana, o croce scalinata andina

perché? perché il viandante (che non ero solo io, ma in realtà eravamo in tre: io, Annalisa e Ghila, era un "viandante trino"…) sta facendo un percorso tutto suo. Cioè quello è non solo il diario di cose viste e fatte, ma in realtà lo è di ciò che accadeva man mano che vedevo, vedevamo, e facevo determinate cose e incontravo certe persone, che dice quel che ciò suscitava in me, in noi, allora è anche un po' una auto-analisi in un ceto senso. Cosa sono andato lì a fare? di cosa sono andato in cerca? sono sufficientemente aperto e disponibile a lasciarmi cambiare da tutto ciò? è sufficiente che io voglia, che io parta con questo intento (e dico proprio intento anziché solo intenzione) di compiere un percorso che alla fine mi abbia fatto diventare un po' diverso, un po' altro, più comprensivo rispetto a quando sono partito. E' sufficiente? oppure come si fa? come si fa a farsi implicare, a farsi coinvolgere? E mi sono rifatto alla interpretazione che Josef Campbell da del "viaggio dell'eroe".
E allora in questo senso mi sembra che questo libro possa anche avere interesse in campo formativo, essendo stato questo un percorso di formazione, proprio come è detto nel sottotitolo. Di formazione perché? che cos'è la formazione? è qualcosa che si innesca nella misura in cui ci si mette alla prova di fronte a ciò che è imprevisto o che comunque è altro rispetto al consueto. E quindi lo specchiarsi in un'altra cultura, l'andare a cercare (se posso esprimermi in questo modo) il massimo della differenza, ha senso proprio per il confrontarsi con quella. Ed è difficile. Poi si mettono dentro nel nostro mondo interiore dei semi che magari germoglieranno molto lentamente col tempo. E per quanto si faccia un viaggio lento, comunque non è detto che si comprenda veramente quel che sta smuovendosi dentro man mano che le cose accadono, spesso ce ne si rende conto dopo il ritorno, con lo sguardo del poi, con gli occhi del dopo…
al mercato degli animali e del bestiame fuori Otavalo

Ma, come dicevo, è anche leggibile semplicemente come un diario di viaggio convenzionale, nel senso che se voi vi siete incuriositi di voler sapere qualcosa su che cos'è la cultura india delle Ande, qua trovate degli spunti, degli stimoli. E allora torno però di nuovo alla problematica pedagogica: che cosa incide di più in un lettore, un fruitore, un auditore, se vogliamo comunicare per esempio, appunto, come "è fatta" una cultura "altra"? un'opera saggistica, che in seguito a una grande riflessione, ad una analisi, ad un tentativo di sistematizzazione di dati, condensa e dice subito e a chiare lettere qual'è la valutazione che l'autore è arrivato a formulare su quella data ricerca da lui compiuta? oppure -per essere meno autoritaristici- un racconto, un racconto di un percorso, riferito in modo discorsivo? perché appunto qui io più che altro racconto di discorsi che abbiamo fatto con queste varie persone. E poi si lascia a ciascuno valutare, si mostrano determinate situazioni che si possono ritenere paradigmatiche o comunque significative, che possano costituire degli inputs, possano costituire degli stimoli, possano sorprendere magari, possano "stranire" in un certo senso, e si lascia a chi ne sta fruendo la libertà di rielaborare ciò che vuole raccogliere, e dunque -non solo rispettando il suo percorso, che è sempre individuale, così come è individuale il mio- rispettando il percorso di ciascuno, fornire gli strumenti perché si possa compiere la propria rielaborazione, che è quella che per noi dota di senso il discorso complessivo.



(continua)

viandante & sciamano 2

Dalla presentazione del libro tenutasi l'altroieri alla libreria IBS.


Anita Gramigna:
Sfogliate le pagine di questo libro, e vedrete che si tratta di un libro molto accattivante, si viene sollecitati dal desiderio di andare avanti a vedere di cosa parla, perché incuriosisce. E vedrete che viene la voglia di leggerlo. Intanto è composto da diverse parti: una introduzione di carattere saggistico, un diario di viaggio, dei racconti di stile narrativo, a mio parere affascinanti,  e delle schede con consigli didattici, quindi con diversi linguaggi che si intrecciano... apparentemente sono diversi ma in realtà si richiamano gli uni agli altri, e come? non si richiamano solo dal punto di vista logico, ma anche con ironia. Per cui dopo una prima lettura curiosa e ludica, cui il testo si presta, ecco che ci invita a rivedere alcuni passaggi. Poiché questo libro è spiazzante, ci mette di fronte ad un punto di vista ironico (non solo perché ci fa pure sorridere, ci sono delle situazioni che sono comiche o che non ci aspettavamo) anche perché è ironico nel senso socratico del termine, in quanto ci pone di fronte ai nostri pregiudizi, a dei punti di vista che creano disorientamento. E' per questo che è un libro di pedagogia, proprio in quanto è un testo errante, cioè a dire è un testo che fa dell'errare la sua cifra unitaria. Il concetto dell'errare qui attraversa tutti i registri linguistici. Dal saggio epistemologico, alla raffinatezza dei racconti di Ghila, dove c'è un onirico che ci pone di fronte al tragico della realtà, per non parlare del diario di viaggio, e dell'utilizzo delle schede didattiche. Spiazzante perché a un certo punto ci chiediamo: ma io sono sicura di sapere veramente che cos'è la differenza culturale? veramente sono sicura di capire che cos'è la spiritualità? ma veramente io sono così aperta verso l' alterità?... quindi è ironico in questo senso, così come Socrate metteva i suoi interlocutori di fronte alla loro presuntuosa ignoranza. Ed in questo senso è anche disorientante: dobliamo rivedere i nostri punti di vista. Al termine della lettura del libro io ho sentito questa necessità. 
E' un testo paradossale, ma alla fine ci accorgiamo che offre delle chiavi di lettura, ed in questo senso è errante, perché per certi aspetti le chiavi di lettura sono quelle che ci fanno comprendere che i nostri preconcetti sono errati, sbagliati, sono tutt'altra cosa rispetto alla visione del mondo che presumiamo di avere, almeno restando nel mondo che noi conosciamo nella nostra quotidianità. Ma la nostra quotidianità non è già più quella che era ieri ... ed è ricca di differenze, di varietà di punti di vista. Quindi questo libro contempla la possibilità dell'errore, e dell'errare come strumento di esplorazione. 
Dunque è un libro errante non solo perché ci parla di viaggio, e ci consente di viaggiare leggendo, e ci consente di pensare in modo critico, e anche ironico, sui nostri pregiudizi, ma anche perché valorizza la differenza, e quindi sottolinea anche i propri errori, perché gli autori non fanno mistero del proprio stesso smarrimento ad es. di fronte alla spiritualità abissale e a volte un po' tragica del mondo indio.

E poi ci sono i racconti, che sono scritti con un tono che io vorrei definire contestualmente umile e poetico. Apparentemente semplici, chi scrive sembra non voler dare troppa importanza a quello che vien dicendo, sembra come dire: sì io sono qui, voglio parlarvi del mio mondo onirico, dei miei sogni, delle mie emozioni, ma non prendetemi troppo sul serio, ed è paradossalmente il modo migliore per stimolare a prendere sul serio quel che dice l'autrice. Per addentrarsi in un linguaggio che mentre parla di un mondo altro in modo accattivante, ancora una volta, e narrativo, utilizza con grande spontaneità la metafora con sentimento poetico. Sentimento poetico significa in questo caso offrire una visione alta rispetto a quello che si dice nella concretezza, ma nello stesso tempo poetico anche perché l'autrice in questi suoi racconti si scopre, scopre la sua anima, i suoi sentimenti, la sua visione del mondo a volte forse ingenua, con sentimento, per dirci anche: io sono così, semplicemente così, questo è il mio modo di dirti che ho amato questo viaggio, e che amo le persone che ho incontrato, anche quando hanno scardinato i miei punti di vista. 

Vorrei ora cominciare appunto subito con una domanda, che vorrei rivolgere ad entrambi, ma vorrei partire da Ghila, una domanda su questo senso del sogno, perché questi suoi racconti attingono al linguaggio del mito, e al retroterra della cultura indigena andina, però contestualmente aprono le finestre sul contemporaneo, e sulla vita di ogni giorno (cosa che fa anche il sogno, utilizzando immagini paradossali, ma illuminando la nostra quotidianità). Allora io vorrei chiedere prima a Ghila, ma anche a Carlo che utilizza quando racconta certe esperienze la metafora come uno stratagemma narrativo, volevo chiedere: la dimensione del sogno, non solo nel senso della consapevolezza di una atmosfera onirica, archetipica, ma anche del sogno sognato ad occhi chiusi, quanto e come questa dimensione compare nei vostri scritti? nei racconti di Ghila questo aspetto è più scoperto perché è una scrittura che appunto si scopre maggiormente.  

Ghila Pancera
Nel racconto "Il viandante e lo sciamano" che è quello che da anche il titolo al libro nel suo insieme, è stata in parte una scelta consapevole, e in parte no (perché quando si scrive narrativa non si tratta mai del tutto di una scrittura "programmata"consciamente). Quello che ho capito man mano -ma non sono sicura che fosse un mio obiettivo fin dall'inizio- è che questo racconto non solo è quello che tra tutto quel che ho scritto sino ad oggi, più parla di me (cioè volessi far capire a qualcuno chi sono, gli farei leggere questo racconto) ma per me oltre ad essere una metafora del viaggio, e dunque di una spiegazione di ciò che è per me il viaggiare, parla in effetti anche della meditazione, ovvero di ciò che per me è stata in varie situazioni l'esperienza della meditazione. Quindi in questo senso sì, si può parlare di qualcosa di affiancabile all'onirico. Per cui l'uso delle metafore è dovuto a questo elemento, in quanto parla nel contempo del viaggiare, che non è mai un dato solo fisico. E in effetti in questo senso si fa come autori (e forse si fa fare anche ai lettori) un viaggio che non è solo spostamento fisico, ma anche un movimento in un "territorio" altro, nel senso di un "territorio" denso di alterità.

Il personaggio dello sciamano qui poi allude alla figura reale di Pumaquero, sul quale ho anche pubblicato un piccolo romanzo "Lo stano ospite straniero" (edizioni Albatros - Il Filo), del genere "letteratura per ragazzi",  ispirato a quando venne appunto ospite da noi a Ferrara, ma ovviamente con tutta libertà narrativa, in cui non mancano aspetti di ironia.
E' in vendita nelle maggiori librerie, ma lo si può già ordinare o prenotare (anche direttamente alla casa editrice:  ordini@ilfiloonline.it).

Ghila e Pumaquero a Ferrara
(continua)

sabato 22 febbraio 2014

"il viandante e lo sciamano"



Ieri è stato presentato alla libreria IBS di Ferrara, il mio libro "Il viandante e lo sciamano", diario di viaggio e di formazione tra le Ande dell'Ecuador.
Ha aperto la serata l'editore Riccardo Roversi, della Este-edition di Ferrara, che ci presenta al pubblico, poi è intervenuta la prof.sa Anita Gramigna, con un interessante e bel commento e inquadramento; e poi Ghila Pancera, di cui sono presenti nel volume tre racconti inerenti a quei temi, ha risposto ad un paio di suggestioni e interrogativi formulati dalla prof.Gramigna.
E infine ho parlato io stesso illustrando brevemente alcune caratteristiche di questo diario di viaggio, e leggendone poi una pagina significativa su un aspetto centrale per la comprensione della cultura degli indios di lingua kichwa.
Erano presenti una trentina di persone.

presentazione dell'editore Riccardo Roversi
Roversi, io, Ghila, Anita Gramigna


La casa editrice è la ferrarese Este-editions ( http://www.este-edition.com/prodotti.php?idProd=838 ).
Il libro lo si trova nelle principali librerie, o si può anche acquistarlo direttamente alla sede delle edizioni in via Mazzini 47 a Ferrara, oppure lo si può ordinare per mail (libri@este-edition.com), o farselo mandare a casa per posta con pagamento contrassegno alla ricevuta (costa 15€).

Purtroppo, per vari motivi, non ci sono che poche immagini, e in b/n, anche se sono venute abbastanza ben nitide, e sono raggruppate in alcune pagine vicine tra loro; non è stato possibile fare di più, ed è un peccato poiché un diario di viaggio dovrebbe essere ampiamente corredato da foto, come parte integrante importante del testo, per dar luogo ad un intreccio continuativo tra parole e immagini...

Perciò vi segnalo che eventualmente altre foto le si possono vedere sulla mia homepage dell'università:
http://utenti.unife.it/carlo.pancera/mywebalbum/index.html
o anche  http://utenti.unife.it/carlo.pancera/testi/altri.htm
cliccando su "Reportage fotografico"
(oppure ce ne sono alcune anche sulla mia pagina Facebook).

A proposito del testo, si veda la recensione di Emilio Diedo:
http://www.literary.it/dati/literary/d/diedo/il_viandante_e_lo_sciamano.html

e l'intervista a Ghila sui suoi tre racconti:
http://www.eccolanotiziaquotidiana.it/la-scienza-del-viaggio-intervista-a-ghila-pancera/

(continua)

giovedì 20 febbraio 2014

Genesi, Alla radice o in testa, ovvero Innanzi tutto


Mi vorrei soffermare sull'inizio del primo libro del Pentateuco, della Bibbia, cioè "la Genesi".

Non si sa quando la Genesi sia stata composta, dal momento che inizialmente il "testo" era tramandato oralmente dai sacerdoti. Si narra che fosse stato composto da Mosé stesso durante l'erranza nel Sinai, circa nel 1500 av.C.. Alcuni datano la prima versione completa al periodo 1440/1400 av.C. Vi si racconta l'origine del Mondo, e dell'uomo, e poi del popolo ebraico, e la storia antica, dell'epoca dei patriarchi (vissuti forse verso il 1800 av.C.). Poi il "testo" fu ritoccato in una versione definitiva (detta "Jahvista"), nel porre la "parola divina" per iscritto forse verso il VI secolo av.C. in modo che vi fosse una redazione comune canonica.

Come si sa questo "titolo" del primo Libro, deriva dalla traduzione in greco da parte dei 70 (Hebdomékontasaggi ebrei alessandrini, poi detti in latino i Septuaginta, che per ordine di Tolomeo II si dedicarono, circa 250 anni a.C., alla divulgazione delle Sacre Scritture, cioè dei cinque Libri ebraici Khumash (in greco "libri" è Biblìa, plurale di biblìon) della Torah, noti in greco anche come Penta-teuco (da têuchos, custodia pere rotoli, volume), traducendoli nella lingua più nota e diffusa di allora, la lingua greca ionica di età alessandrina, perciò detta anche koiné (=comune), essendo essa il mezzo più usato di comunicazione, la lingua "franca" tra genti di paesi diversi. E poi dopo i cinque Libri (Khumash), con tempi lunghi venne tradotto tutto il Tanakh, cioè tutto il corpo dei Libri delle Sacre Scritture (o Bibbia ebraica).

Èn arché epòiesen ho Theòs tôn ouranòn kài tòn gén. Per secoli questo in greco fu il testo della Bibbia più diffuso al di fuori della Terra Santa nel Vicino Oriente e nell'area mediterranea (cioè nella traduzione dei Settanta).
Poi ci fu la traduzione in latino da parte di san Gerolamo (ma per raffronto tenendo il testo ebraico accanto a quello in greco, per verificare l'esattezza di quella versione che qualcuno aveva criticato, e dunque fu attento alla Hebraica Veritas) alla fine del IV sec. d.C., che sistematizzò e corresse la prima versione latina allora esistente (la Vetus latina), completandola anche con i libri del "nuovo Testamento" (che erano in greco). Questa è nota come "la Vulgata", cioè l'edizione più popolare e corrente (poiché leggibile da chi non sapeva il greco) che è rimasta tale in Europa e in Occidente da allora per molti secoli. 
In principio creavit Deus coelum et terram.
La sua versione dell'edizione del 1592, cioè l'edizione posteriore al Concilio di Trento, è rimasta fino alla seconda metà del Novecento il testo ufficiale per la messa cattolica in latino, e considerato  come fosse l'autentico testo sacro.
Da questo testo poi si fecero comunque varie traduzioni nelle lingue parlate "nazionali" (come anche in italiano, vedi quella dell'abate Malermi ) per coloro che ormai non capivano più il latino. 
una ediz. portoghese con suggestive illustrazioni fotografiche


Ma queste versioni in "volgare" del sacro testo sembrando blasfeme furono presto tolte dalla circolazione. La versione it. di mons.Martini, della seconda metà del Settecento, è quella che fu considerata la più correttamente aderente alla Vulgata post-tridentina della Controriforma, ed è stata la Sacra Bibbia cattolica ufficiale italiana per due secoli  (anche se nel 1870, dopo la fine dello Stato Pontificio, vennero cambiate tutte le note), fino alla Bibbia della CEI del 1971, in seguito dunque al Concilio Vaticano II. E' questo di Martini cioè il testo che molti della mia generazione (ora anziani) avevano ancora ascoltato o letto da bambini e da ragazzi (io ho la terza edizione del 1881 in due volumoni in-folio, che era di mio nonno paterno, e che è corredata dalle illustrazioni del Doré).

Dunque quella Vulgata latina, resa in italiano da Martini iniziava in questo modo: 
"In principio creò Dio il cielo e la terra. E la terra era informe e vota, e le tenebre erano sopra la faccia dell'abisso: e lo spirito di Dio si movea sovra le acque. E Dio disse: Sia fatta la luce! E la luce fu fatta. E Dio vide, che la luce era buona: e divise la luce dalle tenebre. E la luce denominò giorno, e le tenebre notte. E della sera e della mattina si compiè il primo giorno."
(un testo dunque a cui siamo abituati, ma che in qualche modo  suona già un po' fuori tempo e si intuisce che è conforme alla nostra cultura letteraria di matrice dantesca).




xilografia tratta dall'opera Histoire du Vieux et du Nouveau Testament, grosso volume in-folio P. Mortier libraire, Amsterdam, MDC  1700
IHWH il Creatore iniziò la sua opera





Come è noto un tempo i testi scritti non avevano un "titolo" e per individuarli era uso riferirsi alla prima parola con cui incominciavano, per cui il primo Sepher  o Biblìon del Pentateuco, era detto in greco Genesis (pronunciato Ghenesis, oggi in italiano invece è letto con la g dolce), "titolo" che gli rimase nei nostri Paesi sino a tutt'ora, ma in ebraico si denominava e si denomina "Bereshìt" dalla prima parola ebraica con cui appunto si apre la divina scrittura, la Torah, la Legge, o meglio l'Insegnamento del Dio di Abramo e di Mosé: 

Ricordo di aver visto nella città di Leòn ( che un tempo costituiva un regno cristiano indipendente) ora capoluogo della provincia di Castilla y Leòn, nel nord-ovest della Spagna  una stupenda  riproduzione in facsimile edita in sole seicento copie, di una Biblia Visigotico-Mozaràbe dell'anno 960 d.C. in cartapecora, in-folio, anch'essa versione in latino della traduzione greca dei Settanta, (reprint che vale 9000 €uro…), in cui il primo Libro risulta ancora designato in ebraico: "Incipit Liber Bresìt, id est  (cioè) Genesis":



Si vedano in internet alcune immagini in http://www.fhvl.es/fhvl/galeria.asp?gallery=5&page=1



I cabalisti ritengono che vi sia anche un altro significato della parola Bereshìt, e infatti da loro a volte è stata tradotta con: "nel cominciare" a creare (cfr. A.E. Waite, The Holy Kabbalah, University Books, New Hide Park, New York, 1929).



Nel 1974 l'intellettuale ebreo algerino Nathàn André Chouraqui (1917-2007), cresciuto con tre lingue materne (ebraico-sefardita, francese e arabo-magrebino), ottimo conoscitore del greco, volle tentare una versione in francese che rispettasse in tutto e per tutto il testo letterale originario, scritto in quella antica lingua, con quei vocaboli, e quello stile arcaico in cui è scritta. 


(Il che è divenuto più chiaro dopo il ritrovamento dei rotoli di Qumran, tra cui anche anche testi manoscritti del Sepher Bereshit, del primo Libro biblico). 


Dunque la Torah inizia appunto con la parola bereshìt: 

« Bereshìt barà Elohìm et ha-shamàyim we'èt ha'àretz »



(qui sopra l'immagine della edizione a cura di rav Sh. Bekhor, e traduzione di A. H. Dadon, edizioni Mamash, Milano, 2006)

Effettivamente da quanto leggo in vari testi esegetici, Be-Reshìth, tradotto significa "per primo", "in testa""all'inizio", "da capo", "all'origine", e può essere tradotto pure "con il principio", ma si può anche intendere: "creò 6" = Barà-Shit(/sh), per significare i 6 giorni della creazione, oppure Barà shit, che si può rendere con: "creò il fondamento"...

In francese Chouraqui traduce Bereshìt con Entête, che fa riferimento alla testa, al capo. In italiano potremmo pensare all'uso del termine "capo" in espressioni come "il capo di una fune", "in capo alla scala", "a capo pagina", "capo d'anno", "cosa fatta capo ha", "capintesta", "capitolo", "caporiga", ecc. Quindi se entête è strettamente letterale, allora per restare aderente si potrebbe rendere in it. per es. "in capo a tutto", o "in capo alla Creazione", oppure "Innanzitutto" anziché come al solito "In principio" (che forse potrebbe pure suonare un termine un po' ambiguo, quasi come dicesse: in linea di principio Dio creò cielo e terra…  O anche come dicesse in questo modo che si tratta di un principio indiscutibile che Dio fece questo e quest'altro in questa sequenza…, allora secondo me potrebbe esser meglio per es.: "in origine").

Chouraqui si attenne al testo del canone ebraico masoretico pubblicato in edizione critica a Stoccarda: BHS, Stuttgart, 1967/77.  La sua traduzione francese uscì per le edizioni Desclée De Brouwer (Paris, 1974/79, poi 1982/85: io ho l'ed. del 1989, ultima riedizione è del 2010), e poi il Libro della Genesi ebbe anche una edizione a sé stante: A.Chouraqui, La Bible - Entête, J.C. Lattès editore, Paris, 1993 (vedi on-line https://www.levangile.com/Bible-CHU-1-1-1-complet-Contexte-oui.htm ), e quando uscì suscitò moltissime e forti polemiche. 
D'altronde si sa che sulla lettera e/o sulle interpretazioni del sacro testo ci furono sempre nella storia scontri, attacchi violenti, uccisioni e torture, e persino guerre… sappiamo che molte furono le versioni e le traduzioni della Bibbia bruciate nei falò… (vedi di G.Fragnito, La Bibbia al rogo -La censura ecclesiastica, Il Mulino editrice, 1997)Questa di Chouraqui ora ad es. è assai difficile da trovare e acquistare nelle nostre librerie (ma Chouraqui la fece mettere on-line a disposizione di tutti i lettori interessati. Vedi http://nachouraqui.tripod.com/index.htm) perciò ve la vorrei proporre in lettura, e poi ognuno si formi la sua opinione.


La traduzione fatta da Chouraqui è dunque alla lettera, rendendo il testo così com'è,  parola per parola in ebraico antico. Di questo brano di "Entête" mi sono azzardato comunque a stendere una versione in italiano dal francese. Così la renderei:

"In testa [o in capoˆ] (a tutto) 'Elohîm 2 creò i cieli e la terra,
la terra era tohu-bohu 3,
una tenebra sulle facce dell'abisso,
ma il soffio di 'Elohîm planava sulle facce 4 delle acque.
'Elohîm dice: sarà una luce. 
Ed è una luce. 
'Elohîm vede la luce: che bene! 'Elohîms separa la luce dalla tenebra. 
'Elohîm grida alla luce: Giorno. 
Alla tenebra grida: Notte. 
Ed è una sera ed è un mattino: giorno uno".

[mie note esplicative
1 (= in primis, in testa, da capo, innanzitutto, in origine, per cominciare) ; 
2 uno dei nomi di Dio (plurale majestatis di Eloah);    
3 (tohu-wa-bohu =espressione molto arcaica per: senza forma, vuoto, o anche caos); 
4 (=superfici).]
Altri studiosi (i più ortodossi) fanno una ulteriore precisazione: Reshit non significa propriamente inizio, ma inizio di (se no sarebbe reshonàh, per primo), quindi andrebbe tradotto: "all'inizio del creare i cieli e la terra...", nel cominciare a creare..., in capo alla creazione...

Comunque... come potete constatare dalla versione di Chouraqui ne esce uno stile per noi inconsueto, rozzo, arcaico, che ci rende subito un contesto culturale assai indietro nel tempo, e che ci lascia un po' straniti. Come si vede Chouraqui ritenne di non tradurre nemmeno certi termini, che giudicava non traducibili in quanto le ogni versione avrebbe forzato il senso originario, e dunque decise di lasciarli nella dizione originaria. Certo la antica lingua ebraica parlata quando la Torah era tramandata oralmente (ma anche quando nel regno di Giuda e anche nel regno settentrionale d'Israele, venne messa per iscritto), aveva un vocabolario molto molto più ristretto nel numero di vocaboli rispetto alle lingue attuali (come in tutte le lingue più antiche). E si percepisce che si trattava di racconti di sacerdoti di un popolo prevalentemente dedito alla pastorizia nomade. Perciò in quel brano Chouraqui lascia non tradotto sia 'Elohîm che tohu-bohu, dandone ragione, spiegazione, nelle sue Note.   


Ho trovato la cosa assai intrigante, e perciò ho voluto comunicarvi nel Blog questa mia impressione.

Bisogna sapere che Chouraqui, nato nel sud dell'Algeria, compì studi religiosi con il suo rabbino, divenne avvocato ad Orano, e poi ad Algeri, fu segretario aggiunto dell'Alleanza Israelitica Universale, poi diresse un gruppo partigiano nella resistenza francese, laureato in diritto internazionale a Parigi, studiò teologia alla Ècole Rabbinique de France, prende casa a Gerusalemme nel 1951, nel 1958 emigrò stabilmente in Israele dove fu consigliere culturale di Ben-Gurion, fu eletto nel '65 vice-sindaco di Gerusalemme. Nel '67 fondò con Jean Daniélou la Fraternité d'Abraham per il dialogo interreligioso, collaborò con René Cassin (premio Nobel per la pace 1968), e fu uno strenuo sostenitore dell'incontro ebraico-cristiano (si veda il testo di un suo dialogo con Daniélou su quel tema: Ebrei e cristiani). E pubblicò assieme a Jules Isaac, Jacques Ellul, Paul Claudel, Jacques Maritain, e Marc Chagall, un volume sul dialogo interreligioso. Tradusse poi anche i Vangeli e tutto il Nuovo Testamento dal greco. Data la sua padronanza dell'arabo, fu anche traduttore in francese del Corano (1990), e di Ibn-Paquda; inoltre fu presidente della Alliance Française in Israele, e organizzò un famoso incontro con il Dalai Lama. Ha viaggiato nel paesi arabi, in tutta l' Africa, Americhe, Europa, Asia e Medio-Oriente, anche per conto dell'Unesco. Fu il primo a compiere la traversata del Sahara da solo in auto. Conobbe direttamente molte personalità della cultura mondiale del suo tempo, oltre ai già citati, anche personaggi come Vajda, Chagall, Camus, Edmond Fleg, Martin Buber, Hailé Selassié, re Hassan del Marocco, Sadat, Paolo VI,  Papa Wojtyla, e personalità religiose di ogni credo...
Di Chouraqui inoltre si vedano anche i libri: Storia del giudaismo, Il pensiero ebraico, Mosé, Ritorno alle radici, I dieci comandamenti, Gli uomini della Bibbia, Il Libro dell'Alleanza con G.P. Effa, Il destino d'Israele, e altri. Interessante la sua autobiografia: Forte come la morte è l'amore, in cui si definisce "uomo dei tre mondi".


un antico testo manoscritto dei commenti biblici del Midrash

il testo della versione biblica tradotta in greco dai Settanta alessandrini, in epoca ellenistica, 
foto da un codice che si trova in Vaticano

Una versione dei primi versetti sulla creazione viene anche recitata nel film "Noah" (del 2014, di Aronofsky, con Russell Crowe e Anthony Hopkins)  che è un fantasioso e libero rifacimento odierno del mito di Noé, cioè della estinzione delle specie umane arcaiche e della nascita dell'attuale umanità simboleggiata da Noé, di livello qualitativo superiore alle precedenti (cioè l' homo sapiens "moderno", o Homo sapiens-sapiens)

C'entra in questo Blog, con il tema del viaggio? ma è un grande viaggio nel tempo! verso le origini, sia le origini del Mondo, che le nostre radici culturali... (e potrebbe ben fare da introduzione ad un prossimo post su una versione poetica moderna che vorrei proporvi di leggere...). 
E poi ho rivisto di recente il DVD del filmato (del 2006) "Genesis", che mi è piaciuto veramente molto, non solo per le straordinarie e suggestive immagini, ma anche per il bel testo di Nuridsany e di Pérennou (il libro era del 2004); anch'esso è una presentazione adattata ai nostri tempi e alla nostra cultura, del mitologema sull'inizio dell'universo. Ve lo consiglio caldamente.
Una bella edizione divulgativa, ma non solo per ragazzi, piena di belle illustrazioni molto colorate, è quella di Ph. Lechermeier e Rebecca Dautremer, pubblicata da Hachette, Paris, 2014, tradotta in italiano per le edizioni Rizzoli Libri, intitolata: "una bibbia" (pagg. 400). (qui bereshit è reso non solo con "all'inizio", ma anche con "soprattutto").

Quanto alle traduzioni filologicamente rigorose della Bibbia ebraica (la Torah), in italiano si veda quella di vari traduttori, a cura del rabbino Dario Disegni, degli anni Sessanta, giunta alla terza edizione nel 1995, ristampata nel 2012 dalle edizioni La Giuntina di Firenze (in più volumi). O quella del rabbino Riccardo Di Segni, edita nel 2001. O anche quella a cura di rav Bekhor (di cui ho riportato più sopra l'immagine con copertina rossa). In francese già ho citato la trad. di Nathan André Chouraqui. Mentre quella più "classica" è quella del Rabbinato francese, di rav.Z.Kahn. In inglese è uscita una nuova edizione della traduzione con commentario a cura di Robert Alter, The Hebrew Bible, W.W.Norton &Company, NewYork-London, in tre volumi, 1997 (ora 2018). La sua prima edizione della traduzione di Genesi era del 1996, già prima Alter scrisse alcuni suoi testi interpretativi originali in cui leggeva la Bibbia dal punto di vista di un'opera letteraria: L'arte nella narrativa biblica, nel 1981; L'arte nella poesia biblica, nel 1985; e la sua Guida letteraria alla Bibbia, nel 1987. Poi si impegnò nel dare una sua traduzione di tutte le sacre scritture. 
Il filologo Piero Boltani (autore tra l'altro di Riscritture, Il Mulino, 1997, tr.inglese: The Bible and its Rewritings, Oxford U.P., 1999) dice giustamente che l'impresa di tradurre tutti i libri biblici è stata un'opera inusitata per un uomo solo, e paragona R.Alter all'opera di san Girolamo, di Martin Lutero, e del riformatore inglese W. Tyndale. 

Parimenti allora questo si dovrebbe dire dell'impresa compiuta in francese da Chouraqui (!)