venerdì 26 agosto 2011

fammi sentire come parli e saprò chi sei


Uno dei tanti esempi della lingua parlata in Messico è il cartello: “Los camastros son para uso de alberca” (=le sdraio sono per uso della piscina). Mi fa venire in mente che nell'estate 2005 avevo visto un articolo di giornale o di una rivista, in cui si commentava la recente uscita della versione elettronica della 22° edizione del DRAE, = il dizionario della Real Academia Española de la Lengua, e l’autore di quell’articolo si lamentava per il fattoche si sancisse così un canone che veniva fissato nella lontana Spagna, mentre nel mondo di lingua spagnola la Spagna è oramai solo un piccolo paese di 40 milioni di persone (di cui una parte poi sono di espressione catalana, basca, galiziana o altro), mentre invece il Messico è il più grande paese di lingua spagnola. Ma alla fine non dava proposte di soluzioni alternative, e lodava comunque il DRAE perché menziona tutti i termini e tutti i significati attribuiti loro nelle varie zone del mondo; e lo apprezzava per il suo insostituibile ruolo conservatore che permette alle 20 nazioni di lingua spagnola e ai 400 milioni di hispanohablantes  di restare uniti nella comunità linguistica. Quindi il dizionario è ancora visto in Messico soprattutto per la sua funzione regolatrice e direttiva, per verificare se una espressione può essere considerata corretta o errata, più che non esser visto come un organo di recezione e registrazione delle modificazioni della lingua, che cioè constati i suoi mutamenti e li contempli. Almeno così a me pare, anche perché so che era stato così anche da noi, poi il fascismo ha inquinato il concetto con un colore politico, per cui era stato sempre più visto come strumento autoritario (che cosa insensata …) per imporre certe espressioni (del tipo che si dovesse dire “ristoratore” anziché ristorante, o cose del genere, per estirpare i francesismi e gli anglicismi …). 
Poi ricordo che Carlo Salinari fu il primo a uscire negli anni sessanta con un “dizionario della lingua parlata in Italia”. Mentre nel mondo di lingua inglese già da molto più tempo è così, il dizionario segue i cambiamenti e gli sviluppi e si tiene aggiornato alla realtà contemporanea, fermo restando che un inglese corretto (detto Queen’s english, o King’s e.) costituisce il riferimento, anche se però non tutti lo parlano. Così ad es. da noi fino a un paio di decenni fa si riteneva giusto che almeno i mezzi di informazione pubblica, oltre che ovviamente le istituzioni di istruzione pubblica, usassero un linguaggio corretto nell’espressione, nella grammatica e nella sintassi per proporre al vasto pubblico un modello di riferimento, abituando alle formulazioni, ai vocaboli, e alle dizioni corrette. 
Oggigiorno oramai è anzi il contrario, i mezzi di comunicazione avvalorano il linguaggio popolare delle larghe masse adottando le loro espressioni quotidiane di uso comune, e il cosiddetto “conservatorismo” linguistico è visto come un atteggiamento aristocratico e da intellettuali, di tipo reazionario e privo di senso perché fuori dalla realtà. Di qui poi l’uso non solo di adottare il linguaggio delle masse nel comunicare con le masse, ma addirittura i mezzi di informazione e di comunicazione sono i principali veicoli per introdurre e consolidare anglicismi e neologismi, anzi ancor più, per imporre l’uso di termini inglesi o anglo-americani. Oramai in molte categorie professionali e scientifiche, anche in campi umanistici, come la sociologia o la psicologia, è di prammatica attenersi all’uso delle definizioni, dei modi di espressione, e dei termini direttamente tratti dall’uso inglese, per cui oramai non solo si sono introdotte queste terminologie, ma non se ne può più fare a meno (computer, hard disk, floppy, RAM, mail, check-in, test, screening, trailer, background, feed-back, AIDS, pap test, TAC, più vari neologismi anche ridicoli, tipo testare, velocizzare, ecc.).Similmente in Grecia; diversamente nei paesi arabi e in quelli orientali.  Ma là si intersecano altre questioni più complesse date dalla scrittura, o dal divario tra lingua scritta e parlata (Cina, India, p. arabi).
Ogni mese vengono presentati circa ottanta quesiti alla Academia Méxicana de la Lengua, sull’utilizzo corretto e sul significato esatto di certe parole o locuzioni. E questo non solo per l’avvento delle nuove tecnologie come internet, ma anche per la dominazione degli slogan pubblicitari delle multinazionali, che tendono a “tradurre” in modo automatico, o comunque strettamente alla lettera.
Si sente inoltre l’esigenza di un Diccionario PanHispanico americano, che registri ogni messicanismo, o argentinismo …ecc. Già ne avevo visti degli esempi in Perù che saltavano all’occhio anche di un non esperto come me. Ora sembra che il DRAE nella 22esima edizione sia più attento finalmente ai cosiddetti españolismos, mentre sino a tempi recenti un vocabolo per il solo e semplice fatto di essere utilizzato in Castiglia aveva validità di carattere generale, e ai vocaboli corrispondenti ma diversi, usati altrove si dava il marchio di localismi. Ma se in Spagna per dire computer si usa ordenador, e in Messico computadora, e fenomeni simili si verificano in vari ambiti, molti temono che ci possa essere il “pericolo” che si verifichi una divisione della lingua, tra Europa e America. L’autore di quell’articolo diceva che secondo lui la soluzione è che le varie accademie si consultino regolarmente e stabilmente e si mettano d’accordo su un termine comune. Ma a me pare irrealistico poiché sempre in ogni paese prevale quella di uso corrente imposta di fatto da chi non sa nemmeno che esistano accademie della lingua. 
Ma la RAE afferma che i neologismi vanno trattati come tali. Qual è dunque la funzione sociale del dizionario, ammesso che si debba attribuirgliene una come obiettivo? Nell’articolo in questione si conclude che se non avesse una funzione conservatrice, quello stesso articolo un giorno potrebbe non essere più leggibile per molta gente di lingua “spagnola” (o latino-hispanica). Pertanto un dizionario, e in particolare quello della lingua spagnola, deve comunque sempre rifarsi ai classici, ai grandi autori della letteratura e non ad altro.
E il sogno di Simòn Bolìvar della Grande Patria Comune … ? Idem per la communauté francophone, o per il multiforme mondo degli “english”-speaking-peoples, o per lo hindi quale impossibile lingua comune per gli indiani, o per l’arabo scritto, o per il bahasa-indonesia, o per il malese ufficiale della Grande Malaysia, o per il mandarino Han del nord per l’universo della repubblica popolare cinese. Per fortuna -si fa così, tanto per dire- una fondamentale funzione unificante qualcuno pur la svolge: e cioè il cinema, la tv satellitare, internet, le canzoni, youtube, gli sms, eccetera. Se la tv non portasse in tutte le case i film americani imponendo l’american-english degli Usa (e la visione del mondo che esso esprime), già ora la frammentazione sarebbe non più ricomponibile per gli oramai troppi pidgin-english, idioms, slangs locali, eccetera, mentre ora sembra in atto un processo di diffusione di una certa koiné holywoodiana scritta nelle e-mail e soprattutto nei vari chatting sui social networks, e che è praticata sul lavoro, o per turismo da tutti quelli che stanno all’estero o che viaggiano e si incontrano. Addirittura per esempio mio figlio Michele qui in albergo, giocando a biliardo con una ragazza messicana ha verificato che si intendevano   tra loro parlandosi in quell’ inglese che condividevano, e che è comune ai molti giovani che l’hanno imparato non tanto a scuola ma con le canzoni e i film. 
E qui in Messico gli anglicismi nel linguaggio corrente certo non mancano (e non certo solo a causa di chicanos e pachucos). Ma nel contempo qui in Messico da secoli sono entrati nel linguaggio comune vocaboli delle varie lingue aborigene, più o meno hispanizzati o distorti, o con significati “impropri”, ma anche tali e quali, in misura forse maggiore che in altri paesi del Latino-America. E anche questa è –oltre ai vocaboli in spagnoloamericano locali- l’altra grande caratteristica del linguaggio messicano che si avverte subito, già al primo contatto.

martedì 23 agosto 2011

Octavio Paz: critica alla cultura popolare USA

Scriveva Octavio Paz nel suo capitale testo intitolato "Il labirinto della solitudine" (del 1950, trad. it. Silva editore, 1962; poi Mondadori - il Saggiatore, 1990 e segg.) riguardo al processo di formazione della cultura popolare americana negli Stati Uniti:

"L'uomo non è soltanto frutto della storia e delle forze che la muovono, come ora si pretende; neppure la storia è il risultato della sola volontà umana — presunzione su cui si basa, implicitamente, il sistema di vita nordamericano. 


L'uomo, mi sembra, non è nella storia: è storia. 
Il sistema nordamericano vuole solamente vedere la parte positiva della realtà. 
Fin da bambini uomini e donne sono sottoposti a un inesorabile processo di adattamento: alcuni princìpi, racchiusi in brevi formule, sono ripetuti senza sosta dalla stampa, la radio, le chiese, le scuole e da quegli esseri affettuosi (e un po' "sinistri") che sono le madri e le mogli nordamericane.
Imprigionati in quegli schemi, come la pianta in un vaso che la soffoca, l'uomo e la donna non crescono o maturano mai. 
Un tale complotto non può che provocare violente ribellioni individuali. La spontaneità si vendica in mille forme, sottili o terribili. La maschera benigna, cortese e spoglia, che sostituisce la mobilità drammatica del volto umano, e il sorriso che la immobilizza quasi dolorosamente, mostrano fino a che punto l'intimità può essere devastata dall'arida vittoria dei princìpi sugli istinti."

lunedì 22 agosto 2011

sguardi incrociati


E’ in un delicato e sottile punto di intersezione che si incontrano e si rispecchiano vari sentieri, quello di valore estetico e quello antropologico-educativo, così come quello dei valori etici e quello “politico”.
La bellezza è catalizzatrice dello sguardo, uno sguardo valorizzatore, e che è anche rivelatore. Rivelatore della qualità e della carica simbolica che porta implicitamente con sé, e che sostanzia non solo mentalità e visioni di carattere antropologico, ma anche susseguenti effettualità di azione.
Dunque a proposito di sudi post coloniali – su cui ricordo le riflessioni di Antonio Valleriani- e di sguardi incrociati, ma anche dello stupore platonico generatore di riflessioni filosofiche, e compiendo una utile intersezione tra i tre concetti, direi che importante a questo proposito può risultare una riflessione sull'impatto che ebbero tra fine Ottocento e primo Novecento (cioè proprio all' epoca delle politiche coloniali) i vari “manufatti” (per ora chiamiamoli così) delle culture tradizionali delle civiltà extraeuropee, che rivelavano un alto contenuto estetico che giungevano in Europa, impatto sul mondo dell'arte e sulla cultura occidentali.
Opere di provenienza africana, o asiatica o amerindia, che vennero
abbastanza presto riconosciute di valore artistico, essendo soprattutto viste e vissute  come altamente espressive e dunque portatrici non solo di fascinazione ma anche di effetti di carattere formativo sull’animo per lo meno degli artisti europei dell’epoca.

Cerchiamo, schematizzando, di ripercorrere cronologicamente una sintetica storia di questo non facile incontro.
Gli sguardi dei popoli di cultura europea che si pretendevano “più
civili”, sulle opere d'arte dei popoli allora considerati “primitivi” ritengo siano
stati sguardi sostanzialmente di due tipi, e cioè, per quanto riguarda
il soggetto europeo che le guardava:

- da un lato vi fu uno sguardo sostanzialmente aperto e accogliente da
parte degli ambienti creativi degli artisti, e di alcuni studiosi
europei (come ad es. coloro che hanno aperto la strada alla
antropologia culturale). E’ stato anche uno sguardo di meraviglia, che
fu proficuo e fecondo per l’Europa del primo Novecento, in quanto ha
dato lo stimolo per maturare il formarsi di ideali di rinnovamento culturale; pensiamo ad es. al “primitivismo” [1] 
che -pur con tutti i suoi grandi limiti- ha consentito una disposizione all’inclusione, e
comunque è stato significativo di uno sguardo che ha innestato nelle culture dei paesi
europei una serie di spunti innovativi importanti.

- dall'altro lato, uno sguardo (prevalente a livello del pubblico
medio) stravolgente di misinterpretazione, di stupore che si traduceva
in incomprensione, in rifiuto, e quindi in un’opera di snaturamento, e che
guardava a quei manufatti, a quegli oggetti artistici in modo non contestualizzato, e
che segnalava in questa distorsione una reazione di disagio delle
culture europee nel porsi di fronte a prodotti culturali altri, verso
cui aveva un atteggiamento di difesa e quindi di demonizzazione.

Mentre per quanto riguarda invece chi era oggetto di quegli sguardi, cioè di
chi era il soggetto partecipe di quelle culture non-europee:

- da un lato, uno sguardo ricevuto in modo rivitalizzante,
arricchente, e rinnovatore, uno sguardo che risveglia e stimola
(persino quando si trattava di uno sguardo critico purché di rispetto, o anche
di apprezzamento misto a “sufficienza”, o di un incoraggiamento
dettato da paternalismo bonario). Per quei popoli, il fatto stesso che si sia
incrementata la domanda di questi oggetti, sembrava denotasse un loro
sostanziale apprezzamento.

- dall'altro lato, uno sguardo ricevuto che era di rifiuto, di
negazione, incomprensione, di misconoscimenti marginalizzanti, di
stigmatizzazione, che rivelava ignoranza in quegli sguardi che si
pretendevano più “colti”, e a volte rivelava una ignoranza voluta e
perseguita con determinazione. Il che ha prodotto sia
demoralizzazione o chiusure, che scatti di ribellione e di
autoaffermazione, e quindi in seguito anche di rivisitazione critica
“positiva” della propria stessa autopercezione (magari attraverso
l’acquisizione di parametri valutativi derivati  proprio dallo stesso
“interlocutore” europeo...).

In ogni caso un impatto produttore di trasformazioni profonde.

Il primo passo verso un interessamento autentico a quelle opere era il
riconoscerle come arte, era lo scoprire che vi sono altre per noi
inaudite forme possibili di espressione di impatto artistico, era
anche l’accettare la sfida del riconoscere la propria incapacità ad
esprimere in modo apparentemente così semplice  ed essenziale,
altrettanta suggestione e forza comunicativa.

Gli europei che da quelle opere d’arte “primitive” sono rimasti
colpiti e hanno ammirato l'energia, l’originalità, la “magia”, e
l’essenzialità dei tratti che avevano forgiato e plasmato quei
prodotti, hanno poi portato dentro di sé il segno, l’impronta di
quelle inaudite forme e non hanno da allora in poi più potuto
"liberarsene" se non assorbendole e rielaborandole nel proprio intimo.
E anche da questo incontro deriva gran parte del rinnovamento
espressivo dei vari movimenti artistici del nostro primo Novecento
(espressionismo, fauvismo, dadaismo, cubismo, e anche certi aspetti
del surrealismo, ma si pensi anche ad artisti ad es. come un Giacometti, ecc..).

Da allora gli europei hanno iniziato anche a porsi l’interrogativo
relativo a quale fosse la visione del mondo che aveva dato luogo a
quei modelli artistici, cioè come il mondo si potesse vedere
attraverso quei loro particolari sguardi da cui derivava la creatività
degli artisti di quelle culture lontane. Hanno cioè cercato di
immedesimarsi in uno sguardo differente per tentare di capire, di
darsi una spiegazione di quelle forme, per dotarle di senso e quindi
renderle più comprensibili. Indubitabilmente esse possedevano una
forza immediata di comunicazione straordinaria, e se ne avessero
carpito “il segreto”, avrebbero potuto imitarlo nelle proprie
creazioni, cioè farlo proprio per comunicare a propria volta con il
proprio pubblico, per farne –rinnovandolo e riplasmandolo- un veicolo,
un tramite di comunicazione di propri messaggi, una forma in cui
calare la propria creatività e renderla  anche più originale,
innovativa, e dirompente, eclatante.

Ma il passo che porta a riconoscere l’arte in quei prodotti
“primitivi”, forgiati da “abili artigiani” di popoli considerati
“inferiori”, per lo meno in quanto a sviluppo della civiltà, era un
passo difficile e faticoso, una dura prova per l’orgoglio dei popoli
che si autoritenevano i popoli “civili”. Gli europei e gli occidentali in genere
 si consideravano il faro che avrebbe illuminato chi viveva nell’ignoranza. 
Si consideravano coloro che in cambio delle materie prime avrebbero saputo
innescare un processo di “civilizzazione” a beneficio di chi era
rimasto “indietro”, di chi era rimasto “primitivo” e doveva essere
instradato ad uscire dalla preistoria e compiere il percorso della
storia, che li porterà  poi a riconoscere a loro volta la grande
superiorità delle nostre culture e civiltà, e adeguarsi ai nostri
modelli di vita. E quel nostro riconoscimento ci è costato molto,
perché comporta, implica necessariamente anche una serie di altri
passi “collaterali” di maturazione, di ordine sociale-politico, che si
sono compiuti al prezzo di dover attraversare fasi buie di disumanità
nei confronti dei diversi, ma  anche nei confronti di noi stessi
europei (se solo pensiamo in un caso alla tragedia dei colonialismi, e nell’altro caso
alla tragedia dei totalitarismi, e ai disastri bellici), per infine pervenire a una
visione più rispettosa, più paritaria, più globale e più sfaccettata
delle civiltà e delle  varie culture umane, ad apprezzare cioè la
ricchezza della molteplicità.
Lo scotto del contatto traumatizzante è anche foriero di indurre ad una “pericolosa” (?) relativizzazione dei concetti stessi di bellezza, di arte, di buona educazione, eccetera. Certe opere esposte al pubblico, sono prodotti poveri, cioè in materiale povero, non nobile, non di qualità,  sono a volte anche opere grezze non solo di fattura, e però indubitabilmente espressive, e proprio per questo a volte scioccanti. Quello che esse inducono è l’inizio di un nuovo atteggiamento, di un porsi diverso nei loro confronti, che ci ha fatto intravedere nella apparente primitività di questi “prodotti di artigianato”, testimonianze di una cultura lontana e altrui, una certa bellezza “diversa”. Il che ha destato meraviglia.
Ad es. dal 1966/68 in nord America si iniziò a poter dire black is beautiful, “nero è bello”, o a valorizzare in contesti europei il fascino di figure simboliche come l’Orfeo negro, o la grande madre nera, la regina nera, la Vergine nera, ecc., e queste espressioni nuove, erano persino gridate come espressione di una forte rivendicazione di valori propri, di un’altra etica, e insieme di un’altra estetica. Erano non solo slogan urlati, ma tentativi di imporre anche dentro l’altero e orgoglioso Occidente uno sguardo diverso, in questo caso ad es. sui neri, sulla loro storia, sulle loro culture (si parlò di “negritude”). Ma al momento solo strati culturali sensibili e aperti  colsero subito l’importanza di questi segnali per una autoeducazione a una visione più ampia e come stimolo ad una ricerca di una nuova scala valoriale per la propria stessa società di riferimento.
Quindi per quanto un oggetto possa sembrare inerme, esso nella sua peculiare fenomenologia agisce sul “pubblico” sguardo e su ciò di cui si fa ricettore.

Ma questi sguardi incrociati con i loro reciproci influssi ed effetti,
intrecciano delle reti complesse. Ad es. gli antropologi americani Richard e
Sally Price ne hanno esaminato attentamente le varie sfumature in
ricerche dedicate a queste problematiche, in particolare nel 1986 con
una ricerca nel e sul “mondo dell’arte”, cioè tra i vari gruppi sociali che
si occupano in questo caso di “arte primitiva”, come i responsabili
dei musei, i collezionisti, i mercanti di opere d’arte, gli studiosi
di etnologia e etnografia, o gli studiosi di cultura materiale.

In generale è emerso un atteggiamento composito, fatto di una certa
“aria di sufficienza”, e persino di dispregio, a volte al limite del
razzismo, misto ad una conoscenza da esperti che rivelava che si
trattava di persone appassionate per questo genere di opere, che le
acquistavano, le conservavano, le esponevano, le vendevano, e le
collezionavano… In moltissimi casi non si erano peritati di conoscere, 
non si erano dati la pena di indagare chi fossero mai
gli autori delle opere che venivano loro tra le mani, né a volte quale
fosse il loro significato, o l’uso che se ne faceva nel contesto di origine.
Ad esempio Michel Leiris
riferiva in sue  relazioni come durante la famosa spedizione etnografica di
Marcel Griaule del 1931 in cui lui e il suo gruppo di studiosi attraversarono tutto il continente nero da
Dakar a Gibuti, avevano con estrema disinvoltura sottratto di nascosto
vari pezzi, poi catalogati presso il
Musée de l’Homme al Trocadero a
Parigi, perché gli interessati non volevano né darli loro, né venderli
ad alcun prezzo, anzi “si rifiutavano ostinatamente di cederli”.
Persone dunque in grado di apprezzare altamente l’aspetto estetico di
tali opere, ma forse null’altro, oltre al loro valore dal punto di
vista documentario (oppure al loro valore sui mercati europei e
nordamericani)[2].

Per cui, come nota Sally Price in quel suo studio, i musei, o i negozi d’oggetti d’arte, 
o le gallerie, non avevano l’abitudine a contestualizzare gli oggetti di
cui si occupavano, e non fornivano alcun dato sugli artisti autori, e
spesso nemmeno sull’epoca di fattura, né sulle società e le culture di
provenienza, sugli scopi per cui erano stati prodotti, né sul loro
utilizzo, o sui significati loro attribuiti nell’universo simbolico di
appartenenza. Queste cose sono poi parzialmente cambiate nel corso dei
successivi decenni, e lentamente si sono trasformate le modalità
espositive e museali; anche se sovente oggi si tratta di schede troppo
dettagliate per un pubblico di visitatori, e manca una attenzione alla
importanza della comunicazione in un contesto che dovrebbe anche saper
trasmettere cultura.
Quindi ora le opere sono più e meglio
contestualizzate, nei musei e nelle esposizioni temporanee, ma ancora
non tra i mercanti d’arte e tra gli stessi collezionisti. Per cui
oggigiorno esistono in occidente molte ricche collezioni private in
cui gli oggetti sono esposti e valorizzati esclusivamente per la loro
qualità estetica (ovviamente ci sono molte collezioni private in cui
gli oggetti sono esposti e valorizzati esclusivamente per il loro
valore di mercato e quindi di status).

In questi casi lo sguardo dei “civilizzati” sull’opera d’arte
“primitiva” resta uno sguardo che  per il fatto che ignora i contesti
e gli autori, ma non solo per questo, è molto differente dallo sguardo
consueto sulle opere d’arte occidentali o delle grandi civiltà
“riconosciute” tali anche dal visitatore comune. Ed è condizionato e a
volte “piegato” su preconcetti e pregiudizi di valore relativi alla
primitività dell’oggetto, visto piuttosto o come dotato
intrinsecamente di un grande fascino estetico, dai connotati un po’
misteriosi e quasi “magici”, o considerato piuttosto come un
“reperto”, un documento di cultura materiale, genericamente
attribuibile a un contesto “selvaggio” o vagamente “mitico”, di
naturalità espressiva e di ingenua creatività spontanea. E comunque
posto sotto uno sguardo che “ignorando” ogni referibilità, distorce e
adatta il manufatto e le sue forme ad un proprio immaginario
personale, che ha valore solo in misura dei sentimenti e delle emozioni che
suscita.
L’opera di “relativizzazione” estetica cui accennavo più sopra, dunque fa sì che quella che sarebbe stata, sino a non molto tempo addietro, una “brutta” maschera, tragica nei suoi tratti magari rozzi, materiale povero, capelli di stoppia mal incollati, ecc…. si riesce a capire, a comprendere ora, nella misura in cui si riesce a cogliere che “il bello” non è più solo quello di Winkelmann, o di Canova…
Ed è proprio così che con il tempo si stimola anche un bisogno di autoanalisi introspettiva, e si induce una trasformazione e una crescita culturale e spirituale.
Quando si opera un ingresso in una alterità di riconosciuto alto valore culturale, ad esempio in un contesto che coinvolge valori estetici, questo passo assume una forte valenza educativa.
Già negli anni Cinquanta ad es. al Musée de l’Homme fondato negli aa. Venti da Paul Rivet al Trocadero, ci portavano le scolaresche, e i ragazzini spesso ridevano di fronte a certi pezzi esposti, e si divertivano schiamazzando. Per cui c’è bisogno di un lungo, lento e non facile percorso di educazione all’intercultura, per giungere a che il grande pubblico possa apprezzare esempi di estetiche altre. Va educata la capacità di guardare, di osservare, vanno forniti i requisiti culturali necessari a capire, per riuscire infine a superare un facile e superficiale esotismo. Ci vuole una certa qualità di cultura. Ancora nel recente passato dunque queste opere non erano contestualizzate nemmeno in esposizioni ricche di opere di buon livello, perché molti ritenevano che semplicemente trattando delle “civiltà superiori”, si trattasse della storia umana, e che quindi un certo modo di passare dal mondo primitivo a quello civile, fosse di validità universale. Mentre ad es. proprio queste  opere d’arte africane, amerindie, o asiatiche cui mi riferivo più sopra, ci mostravano che non era così, che in quei casi ci si trovava di fronte ad un’altra cultura, ad altri percorsi, che pur sono parte del mondo contemporaneo.
Quindi è estremamente rilevante che vi sia una appropriata opera di contestualizzazione culturale, e storica-geografica nell’azione di accompagnamento alla comprensione delle culture altrui, perché abbia un effetto educativo.

Se per traslato riportiamo questa problematica anche alla questione dello
sviluppo “moderno” dei paesi occidentali, cioè di quella modalità di sviluppo che ha portato i paesi occidentali ad entrare nella cosiddetta “modernità”, ritroviamo una perfetta aderenza a quanto  dicevamo prima.
In linea di continuità dunque con le ultime riflessioni dell’amico
Antonio Valleriani, per cui egli diceva che ci sono state pur delle
modalità diverse in questo generale percorso verso la mondializzazione, a
proposito dello sviluppo e della modernità in vari paesi post
coloniali o comunque “periferici”  rispetto alla centralità
dell’ Occidente globalizzatore.
In accordo con la sua visione complessiva non solo dunque non vi è una via
(sola) alla modernità, ma vi sono state una pluralità di vie lungo le
quali i differenti paesi (e le loro culture) hanno sperimentato –e dibattuto- la questione dello sviluppo (3). 


Formazione è sempre sinonimo di tras-formazione, e ciò massimamente nelle culture, nelle mentalità, nelle sensibilità estetiche, eccetera. Può dunque essere importante oltre che interessante esplicitare il ruolo che l’estetica, svolge in un percorso di educazione interculturale e all’intercultura.
Il seguire e comprendere più in generale il complesso pluralismo di vie che a livello globale è stato percorso dalle differenti civiltà e culture è di grande stimolo per avviare un processo di autoformazione. 
Quindi una visione “barocca”, come direbbe Valleriani, che ci mostra un complesso e intricato intreccio di molti percorsi  e di molte modalità e concezioni, che a
volte si intersecano e si contagiano e cambiano tra loro, ma a volte
che si sovrappongono soltanto (e anche si respingono vicendevolmente).
Sembra di ammirare un
retablo
hispanico del Seicento. Seguirne i percorsi errabondi è estremamente significativo e rivelatore, una ottima chiave di volta per aprirci la comprensione o almeno una maggiore evidenza ed esplicitazione delle questioni coinvolte in questo apparentemente informe conglomerato.
In questo quadro si pongono in atto gli sguardi reciproci di cui sopra, ed i loro conseguenti effetti di realtà…


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[1] Tendenza ad esaltare con simpatia la mentalità e le forme
artistiche del mondo primitivo, derivata dal mito rousseauiano del
“buon selvaggio”, che A.Lovejoy (
The Great Chain of Being, 1933,
trad.it. La grande catena dell'Essere, Feltrinelli, Milano, 1966)
attribuisce a chi vi vede il modello originario di vita “naturale”
dell’umanità.
[2] S. Price, Primitive Art in Civilized Places, The University of
Chicago Press, 1989, trad. fr. Arts primitifs; regards civilisés,
Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts, Paris, 1995, con prefazione
di Federico Zeri, poi edizione rivista e accresciuta, con prefazione
di Maurice Godelier (208 pagg.), Paris, 2006, p.10.

(3) cfr. in: Ermeneutica dell’educazione, a c.di A.Gramigna e C.Pancera, ed.Unicopli, Milano, 2012 ( il mio saggio “Il cammino si fa nell’andare”); ma anche nell'Introduzione a: Poietica dell’educazione,  Este-Editions, Ferrara, 2012; o il mio libro Le maschere e gli specchi,  F.Angeli editore, Milano, 2011

mercoledì 17 agosto 2011

I viaggi con le parole: chi ci ha capito qualcosa, scagli la prima mail!


Vi racconto questa: se non avete visto "Kaspar Hauser", un film di Werner Herzog, andatelo a vedere (tutti i suoi film sarebbero da vedere). Lo hanno proiettato lo scorso settembre al festival di Modena. Dunque di questo povero Kaspar (personaggio realmente esistito) si sa che fu tenuto nascosto, chiuso in una stanza-prigione in cima a una torretta fin dalla nascita, nel 1812, alimentato nottetempo dal guardiano della torre che metteva nella cella pane e acqua. Dunque questo povero essere crebbe senza aver mai visto essere umano e quindi senza parlare nè conoscere alcunchè. Forse c'era dietro un motivo politico di carattere dinastico, ma non si sa nulla con certezza. E sopravvisse così fino a quando un mattino presto il guardiano entrò, lo vestì di tutto punto, e lo portò in città, a Francoforte, dove lo abbandonò nella piazza centrale, nel 1828. 
Dopo che un pio buonuomo e la sua modesta famiglia lo adottarono, imparò pian piano tutto quanto, quasi fosse un novello Adamo nato adulto. 
Ma ecco che arriva quel che volevo riferirvi: 
Fu oggetto di curiosità da parte dell'intellettualità del tempo, il giovane Wagner lo conobbe, e fu poi accolto in casa come un figlio da Daumer un noto professore, poichè sembrava non apprendesse più gran ché stando nella misera casa del bracciante. A questo punto c'è un episodio in cui Kaspar disse che quando gli dicono che imparare molte parole serve a capire di più, lui dice che ancora non ha capito se veramente capisce più ora di prima..... E mi ricordo che quando vidi questa scena (il film è del 1974), mi aveva inquietato, e del resto è certamente inquietante ogni riferimento alla eventuale inutilità di quelle modalità di conoscenza cui siamo abituati...Ma, in verità lui dice che non capisce se.... non afferma che sia inutile. 
Ce ne riferisce le vicende il diario di A. von Feuerbach, un giurista riformatore (il padre del filosofo) che seguì da vicino tutte le sue vicissitudini con grande interesse intellettuale e facendogli da "protettore". E quindi forse è questo dotto Feuerbach che "non capisce se", perchè si era un po' scoraggiato, quando tutti i suoi tentativi di insegnare a Kaspar nuove cose ad un certo punto gli parvero inutili. Di qui in effetti si svilupperanno poi interessantissime e importanti riflessioni e sperimentazioni della nascente disciplina della pedagogia speciale. E' possibile saltare delle importanti fasi evolutive infantili e iniziare a socializzare e conoscere il mondo e il mondo delle relazioni a partire da una età anagrafica adulta?? 
Ma tornando al nostro diarista, forse intese così il senso della risposta e lo mise in bocca al povero Kaspar che magari si era espresso in modo più confuso... problemi di interpretazione, ma anche (per quanto riguarda il diario) di affidabilità della fonte documentaria, eccetera, ma insomma poi qui si andrebbe inevitabilmente nell'ermeneutica. 
Ma il problema resta, ed è ancora intrigante... La parola, la peculiare relazione del suo contenuto con l'oggetto di riferimento, l'uso della parola nell'oralità, e ancora il valore comunicativo del linguaggio corporeo e mimico, non ultimo la comunicazione nel silenzio, eccetera, cose su cui ora certo non ci soffermiamo. 
Kaspar continuò a nutrirsi di pane ed acqua come era abituato, né digeriva null'altro, pane che si guadagnava costruendo piccoli manufatti di cartone. Poi, morto il suo "protettore" Feuerbach, si interessò di lui Lord Stanhope, ma appena compiuta la maggiore età, Kaspar fu ucciso per avvelenamento nel 1833. Figuratevi la sensibilità romantica tedesca, e non solo, quanto si infiammò e come si impossessò di questa straordinaria vicenda... molti furono gli articoli pubblicati su gazzette e riviste, e soprattutto molto si parlò di lui nelle riunioni nei fumoirs e nei salotti; su Kaspar fu poi scritto anche un romanzo nei primi del novecento, di J.Wassermann. 
E ora come rimaniamo con quel dubbio di cui sopra ? si potrebbe per es. aprire un bel blog al riguardo. Allora diciamo così: chi è veramente convinto che più parole ha imparato e più ci ha capito sul mondo e sull'uomo, costui lanci la prima mail (a carlo_pancera@libero.it), e che io, reo di scetticismo, sia sommerso da una, cento, mille mail di impenitenti ottimisti.... Evviva il buon Kaspar ! 

lunedì 8 agosto 2011

il viaggio è iniziato con Adamo&Eva


VIVA I NOSTRI PADRI ADAMO ED EVA !

Disse Oscar Wilde: 
"stiamo tutti con i piedi nella melma, 
eppur c'è qualcuno che leva lo sguardo a mirar le stelle!"
(è quella sua famosa frase che è riportata anche sotto il monumento che assai tardivamente hanno eretto a Londra al buon vecchio Oscar).

E allora vorrei ricordare alcune cose che diceva Mark Twain, a questo proposito: 
Dio Padre fece l'essere umano dalla melma per poi abbandonarlo nel bel serraglio dell'Eden, dove la creatura alzò disperati appelli per avere una degna compagnìa. Appena ottenuto lo sdoppiamento, assieme i due presero subito l'assai ardita decisione di volersi nutrire direttamente all'albero della conoscenza, senza più le Sue mediazioni... (e allora in mezzo ai suoi frutti fece capolino il "portatore di luce", Lucifero). Comunque, il frutto fu bello e buono e dolce...e se lo gustarono in piena vista lì nel bel mezzo del giardino. Ma per questo fatale "errore" forse da ingenuotti, si ritrovarono a dover stare coi piedi nel fango e a guadagnarsi la vita con sudore e lacrime. L'affrontarono con coraggio e anche con l'orgoglio di esserne capaci. Ma se qualcuno dei loro discendenti ancora tira su la testa, e leva lo sguardo a mirar le stelle, ricordi che è grazie a quel fatidico primo tentativo di indipendenza mentale pagato a così caro prezzo, che siamo esseri con libero arbitrio.
Non renderlo vano !
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commento:

Qui sopra ho un po' parafrasato le "lettere dall'Eden" e il "diario di Eva" di M. Twain, che erano tutta una ironia amara sulla vita, e poi ho pensato:
Mah, siamo poi proprio sicuri che esista una cosa tipo il "libero arbitrio" di cui noi saremmo detentori, e per giunta i soli tra tutti i viventi...?
Ma mi ha consolato il ricordo di un'altra bella lapidaria frase di un altro grande maestro, George Bernard Shaw : 
“E’ impossibile risolvere i problemi del mondo con gli scettici ed i cinici, i cui orizzonti sono limitati dalle dure realtà. Abbiamo bisogno di uomini e donne capaci di sognare cose forse mai esistite……. e quindi domandarsi: perché no?”  

E va bene, mi son detto, allora: noi siamo i soli viventi con libero arbitrio!, ...e perchè no? 

E ho aggiunto (in questo mio dialogo interiore che ora qui esterno e condivido con voi): ...e comunque è senz'altro bello e positivo questo messaggio e il proclamarlo è una buona spinta, che sprona a cercare di realizzare sempre la nostra indipendenza mentale, eccetera eccetera

Ecco, vedi che di nuovo ho subito pensato da quello scettico che sono, che però in fondo questa è soltanto una bella -e forse utile- menzogna?!
E invece è giusto dirsi "perchè no?", sì è proprio giusto! 

E allora però diciamoci, un po' kantianamente, ma con convinzione:

Coraggio, viviamo comunque come se lo fossimo ! [liberi àrbitri]
consapevolmente e con tutto l’impegno che ne consegue 


domenica 7 agosto 2011

dubbi lungo un viaggio nella storia



Altri tempi, altri mondi... Cantava Fabrizio De André: "Re Carlo tornava dalla guerra, lo accoglie la sua terra cingendolo d' allòr (ta-taratà, taratà)", e tutti andavano ad applaudirlo durante il percorso, e i nobili lo attendevano a palazzo, ma lui si attardò per fare l'amore con una avvenente fanciulla. Ve lo immaginereste oggi ? Scenario improbabile. Mi viene in mente che era lo storico Lucien Febvre che riferiva di un episodio, ricostruito durante le sue ricerche d'archivio (che riguardavano per la precisione non re Carlo VIII di Valois, ma Francesco I, re di Francia tra il 1515 e 1547), in cui appunto si racconta che il re sta tornando da una guerra, ma prima di giungere a corte, si ferma dalla sua amata e vi passa la notte. Ma poi, sgaiattolando fuori dall'alcova (ecco due parole ora in disuso) al mattino presto, per rientrare per tempo al centro del potere, dove lo attendevano ansiosamente, si ritrovò a passare dinnanzi ad una chiesetta di campagna proprio mentre suonavano le campane e, commosso, si attardò in devoto raccoglimento. Quindi spronò il destriero -altra parola in disuso- e si precipitò a palazzo. E infine, si suppone, rientrerà anche nella sua dimensione domestica e familiare, dove ad attenderlo potrebbe esserci pure la sorella, Margherita di Navarra, autrice di un Heptamerone, una raccolta di novelle licenziose, e anche dello "Specchio di un'anima peccatrice", una raccolta di poesie di religiosa contrizione...  (era una ammiratrice di Erasmo).
Ma ve lo immaginate nei nostri tempi? Ora questa sequenza, percorsa con la più candida naturalezza non sarebbe facilmente accettabile, nè immaginabile. Dopo la svolta cartesiana che ancora impronta la cultura occidentale, questa scenetta del racconto di Febvre, sarebbe difficilmente proponibile se non nell'ambito della fiction per fare spettacolo.  E inoltre abbiamo alle spalle un paio di secoli di moralismo chiesastico bigotto e intransigente, almeno dall'epoca della restaurazione del 1815 in avanti. Oggi queste commistioni suscitano scandalo, o si è ferventi devoti o si è licenziosi, o si è dediti alla politica e all'esercizio del potere, o si ha del tempo da perdere per dedicarlo a frivolezze amorose... 
Oppure no? non vi sembra che sia così? che la nostra mentalità sia improntata a categorizzazioni così schematiche? e se invece ora in questa nostra fase di crisi morale, quel lontano modo di vivere la vita, precartesiano, e addirittura pre-tridentino, potesse essere invece di nuovo concepibile? Forse, sgretolatasi per implosione l'epoca degli ideologismi, forse potremmo figurarci un passare con nonchalance (parola in disuso) in modo piuttosto naif da un comportamento all'altro, da un impersonare figure appartenenti a ruoli così differenti? il guerriero combattente che stermina sereno e inflessibile i nemici, il valoroso ammirato come eroe, il "romantico" che prima che dalla moglie, corre subito dall'amata, il devoto che si raccoglie in preghiera, il politico che presiede le riunioni, il buon capofamiglia esemplare...(che non si scorda della sua creativa sorella scrittrice che lui tanto apprezza per i suoi bei libri)... E tutti questi passaggi li compie senza pudori o vergogne, senza concepire pentimento, senza essere criticato dall' opinione popolare o esposto a pubblico ludibrio (parola fortunatamente in disuso) dai severi e arcigni censori curiali del momento. Insomma senza vedervi alcuna incoerenza, considerando che siano piani che non hanno nulla a che spartire tra loro, non intersecantesi, oppure che hanno si a che fare tra loro, ma non come potremmo concepirlo noi persone del XXI secolo.
Si potrebbe oggi ripensare a uno scenario simile, in cui praticare con lo stesso sincero trasporto "l'amor sacro e l'amor profano" (espressioni pure queste andate in disuso, tranne che in un'altra famosa canzone di De André)? Non credo, mi pare che qui si tocchi palpabilmente quanto tempo ci separa da allora, e che la storia sia appunto sinonimo di cambiamento. Possiamo oggi concepire questi comportamenti come non necessariamente reciprocamente escludentesi, non intimamente contradditòri ? difficilmente forse. L'età del cosiddetto Rinascimento è per molti versi lontanissima.
Dove voglio arrivare? non certo a riproporre un buon guerriero cristiano che fa "giustizia" degli infedeli fanatici sterminandoli con tutta indifferenza... nè voglio fare l'apologia della bigamia o poligamia (o viceversa della poliandria)... vorrei solo capire se questa fase di crisi di valori, di cui tanto si parla come di una fase forse di transizione, potrà mai sfociare in una aurora di un rinnovamento delle mentalità diffuse in campo etico, e in che direzione. Oggi mi pare che un apparente rinnovamento sia dato da un diffuso consumismo e egocentrismo da un lato, e da un sempre più forte influsso di mentalità di provenienza nordamericana che stanno condizionando i nostri comportamenti e i nostri riferimenti culturali. A questo, di fatto, si riduce la decantata nuova grande complessità multiforme della contemporaneità, almeno in questi àmbiti (ma già così non sarebbe comunque cosa da poco per le discontinuità e le contraddizioni che potrebbe produrre...).
Precisato che ritengo che a casa sua ogni adulto che sia a posto col pagamento delle tasse, e nel rispetto delle leggi vigenti, possa comportarsi nei rapporti tra liberi maggiorenni, e nell'ambito dell'espressione dei suoi sentimenti "privati", come gli pare, a patto che non rechi danno ad altri, e trovi consenziente chi con lui condivida certe scelte e liberamente vi si associ. E precisato che ritengo che oggi nessuna autorità possa ergersi a censore e direttore dei comportamenti della generalità della popolazione specialmente per quanto concerne la sfera dell' "intimo" (e insomma per esser chiaro penso soprattutto ai sacerdotali censori della Curia). 
Volevo qui solo far notare che le mentalità cambiano, si trasformano incessantemente, e che anche nel nostro passato collettivo abita la diversità, non c'è bisogno di contrapporsi a diversità esterne, ricordiamoci che essa abita dentro di noi. La storia è storia delle diversità che si susseguono e si intrecciano combinandosi continuamente e variamente. Possiamo misurare la distanza tra noi e i nostri progenitori e avi, proprio da questi cambiamenti e discontinuità che sono avvenuti nella continuità di quel minimo comune denominatore che si chiama civiltà occidentale. Ma la ritroviamo anche solo nel confronto tra le ultime tre generazioni, e quindi degli ultimi quarant'anni. La diversità dunque anche in campo etico abita nella nostra stessa storia, la ritroviamo nel divenire dei significati e del senso attribuiti alle cose e agli atti del vivere quotidiano.
Ma oggi mi pare che persista - con tenace vischiosità e forza di permanenza - una abitudine a giudicare cartesianamente, a voler classificare, ad incasellare, a definire, a generalizzare, e a giudicare con un eccesso di senso di superiorità (quasi che noi fossimo i figli di un percorso culturale lineare e coerente) un qualunque "berbero" che passi sotto casa, o (come dicono i francesi) che apra una botteguccia di alimentari e generi vari dietro l'angolo della strada, le berbère du coin (come il personaggio recitato da Omar Sharif nel bel film "Monsieur Ibrahim"). E questo senza in realtà sapere nulla nè di lui nè della sua specifica cultura, ma soprattutto nemmeno di noi stessi e della nostra storia, cioè di come si sia formata la nostra stessa identità collettiva, questa cosa strana e assai complessa... che oggi sta cambiando velocemente connotati sotto i nostri stessi occhi.
Mi sono spiegato? o forse voi che leggete pensavate che mi riferissi al giro di minorenni che ruota attorno al nostro facoltosissimo cavaliere (alcuni dicono senza motivi apparenti di interesse materiale, ma solo per amoroso interesse verso l'idolatrato cavaliere), il quale a chi lo critica per questo, risponde "sono affari miei" ? oppure pensavate che mi riferissi alla dilagante amoralità che concepisce come distinte e disgiunte le sfere dell'esercizio della sessualità e quelle dei legami amorosi, per cui appunto consuma il sesso senza amore, ovvero concepisce anche l'intimità senza affettività, e questo gran bordello, ovvero questo individualismo totalmente egocentrato lo chiama "il nuovo che avanza" in barba ai moralisti della vecchia morale bigotta oramai effettivamente morta e sepolta ?