sabato 7 dicembre 2013

Mandela e la cultura bantu

CONSIDERAZIONI IN RICORDO DI MANDELA (95 anni)

Mandela indubbiamente incarna la figura dell'eroe liberatore, e del padre della patria. E' stato e resterà una icona, un punto di riferimento ideale, un personaggio esemplare per molti versi. Ma anche lui è diventato quel che abbiamo conosciuto in questi ultimi 30 anni, così riverito con affetto, lo è diventato nel corso della sua lunga vita, delle esperienze attraverso cui è passato, e su cui ha riflettuto. Nessuno nella realtà nasce eroe o santo, la vita ha senso proprio in quanto è un divenire, un percorso, un percorso che si spera possa essere evolutivo. Ma oggi è ora di rivederlo a tutto tondo, nella sua interezza, con uno sguardo non "più mitizzante", come accade e come è sempre accaduto post-mortem, ma finalmente più vero, umano, per guardare a un personaggio ricco di complessità e anche di contraddizioni. Ora egli è morto, o come si dice nella tradizione del popolo xhosa: wayibeka inqawa, "he has layed down his pipe", ha deposto la sua pipa (quella che si fuma in compagnia), quindi non è più "oltraggioso" o irriverente nei suoi confronti parlare anche di certi aspetti della sua storia passata...
Sono dunque andato a rileggermi alcuni episodi della sua vita che avevo letto in occasione del mio viaggio del 2008 in Sudafrica.


All'interno della grande e variegata etnia Bantu vi sono nella parte orientale della Provincia del Capo, gli Xhosa (che alla fine del regime dell' Apartheid sarebbero circa 8 milioni in Sudafrica). Questi erano stati in parte confinati nei due "Bantustans" (o Homeland) del Transkei e del Ciskei, regioni "autonome" africane sui due lati del fiume Kei (in realtà erano delle specie di "riserve" coatte per gli "indigeni"). 



Il futuro Presidente nacque e crebbe a Qunu nel Transkei, nella tribù dei Thembu, grande clan famigliare legato alla Corte del trono tradizionale africano della regione. Nipote del rispettato Capo Mandela, e figlio di un benestante padrone di mandrie con quattro mogli, il Nostro fu chiamato da piccolo, Rolihlahla, (che può venir tradotto come "rompiscatole" o "piantagrane", o "attaccabrighe", o "guastafeste"), e poi alle scuole elementari dei missionari metodisti gli venne assegnato dalle autorità scolastiche il nome, secondo loro più "rispettabile", di Nelson (come il famoso ammiraglio inglese). Mandela poi scriverà nei suoi ricordi: «Vedevo che nella pratica [...] l'ambiente educativo delle scuole missionarie era molto più aperto di quanto non lo fossero le scuole governative». Come adulto fu chiamato a partire dai 16 anni Dalibhunga. Ma se ne andò dal villaggio natale per sottrarsi al matrimonio combinato col consenso di sua madre dagli anziani della assemblea tribale,

confermando così il suo appellativo di Rolihlahla, e andò a vivere nella grande metropoli dello Stato boero (afrikaner) del Transvaal, a Johannesburg, dove si impegnò negli studi. Fu il primo xhosa ad iscriversi all'università (ebbe tra i compagni di classe anche due ebrei, Joe Slovo e Harry Shwarz, molto contrari al diffuso antisemitismo e al segregazionismo, e un meticcio, Walter Sisulu, presso cui alloggiava), e poi fu il primo nero in Sudafrica ad aprire uno studio legale. Sposò la figlia del cugino di Sisulu. Subito dopo si dedicò ad attività di opposizione al governo segregazionista del Transvaal che discriminava neri, coloured, meticci, e persone non di origine europea (indiani e asiatici). Poi con l'irrigidimento della repressione da parte del regime di estrema destra nazionalista e razzista al potere in Sudafrica, fondò con altri l'organizzazione clandestina Umkhonto we Sizwe, "Punta di lancia della nazione", quale braccio armato del partito African National Congress, allora dichiarato illegale. Fin da bambino era stato educato anche a divenire un buon guerriero xhosa: “Imparai a lottare col bastone e divenni esperto nelle mosse: paravo i colpi dell’avversario, accennavo una finta in una direzione per poi colpire nell’altra, mi disimpegnavo dall’avversario con un abile lavoro di piedi”. L'organizzazione di Umkhonto ha compiuto azioni di sabotaggio del regime segregazionista, e di attacco a postazioni militari o di polizia o a centri di interesse strategico per il governo, o sedi di partiti pro-aparthied, che provocò morti e feriti (un'altra occasione per farsi affibbiare il nomignolo di gran rompiscatole, in questo caso da parte dei bianchi razzisti al potere…). "I have a dream" diceva. Fu imprigionato e restò per 27 anni in carcere (con Sisulu e atri compagni). Ma da lì divenne la guida ideale dei diseredati per la conquista del rispetto dei diritti umani, e sentì tutto il peso della responsabilità dovuta alla sua immagine a livello popolare, in cui provò "il senso del potere che deriva dall'avere la Ragione e la Giustizia dalla propria parte".
Dopo il massacro di neri a Sharpeville (1960) non riuscì a vedere altra uscita che la guerriglia urbana.
Ancora nel giugno 1980 riuscì a scrivere alla African National Congress clandestina: « Unitevi! Mobilitatevi! Lottate! Con l'incudine delle azioni di massa e il martello della lotta armata dobbiamo annientare l'apartheid! »



Intanto crescevano gli scontri fisici a volte molto forti tra partiti e fazioni avverse all'interno dello schieramento africano, ad es. tra il partito Inkatha dell'etnia Zulu, guidata dal principe Buthelezi, e l'ANC; oppure tra l' AZAPO composta da gruppi giovanili estremisti, e il Fronte democratico unito, guidato da monsignor Tutu e dal pastore Boesak con conseguenti feriti e anche morti, in una sorta di incipiente guerra civile tra oppositori dell'apartheid, tra gruppi politici, e tra etnie, e anche tra neri. Mandela ne era preoccupato e anche allarmato. Disse: "non sono un santo, a meno che non si pensi che un santo è un peccatore che continua a mettersi alla prova".
Nel frattempo è divenuto assai critico anche nei confronti di un uso indiscriminato della violenza nella lotta contro il razzismo dei bianchi al potere, sia pure da parte di combattenti per la libertà e l'eguaglianza, sopratutto in seguito a una ondata di vari attentati terroristici compiuti da gruppi estremisti anti-apartheid che giunsero anche a mettere bombe in locali e luoghi pubblici frequentati da ambienti segregazionisti bianchi (attentati e bombe che in un decennio causarono in totale 130 morti, di cui trenta erano membri dell'esercito o di forze di polizia, ma cento civili, cioè 40 bianchi e 60 africani che semplicemente si trovavano nei pressi). A volte l'antirazzismo portò alcune persone ad una forma di razzismo alla rovescia!... In Occidente (essendo egli allora percepito come il simbolo della battaglia violenta antigovernativa) il presidente americano Reagan e la primo ministro britannica Margaret Thatcher fecero inserire il suo nominativo nelle liste dei terroristi non graditi sul territorio nazionale (inclusione tutt'ora esistente, nonostante i tentativi poi fatti da Condoleeza Rice, segretario di Stato di Bush, per cancellarlo).

Dunque in questa fase, Mandela modificò il proprio sogno giovanile, e dal 1985 si dedicò a promuovere dal carcere un dialogo interraziale con l'obiettivo dell'instaurazione della democrazia. Con ciò creando irritazione in certi leaders più rivoluzionari, tra cui anche in Winnie Nomzano Madikizela, leader della Lega delle Donne, e allora seconda moglie di Mandela (che aveva divorziato dalla prima la quale, divenuta poi testimone di Geova, disapprovò i metodi violenti di lotta politica...), e in diversi seguaci dell' ala "dura" del movimento di liberazione, che propendeva per l' azione armata guerrigliera, e che erano anche ammiratori di Mugabe, il leader del vicino Zimbabwe ( e perciò Mandela venne ritenuto anche da loro un vero Rolihlahla….).

(Poi una decina di anni dopo si verrà a sapere che anche alcuni partigiani anti-apartheid, giunsero persino a praticare la tortura fino al decesso, per riuscire ad estorcere informazioni ai loro prigionieri.)

Quando uscì dal carcere nel 1990 pronunciò uno storico discorso in cui disse:«Amici, compagni e compatrioti sudafricani. Vi saluto in nome della pace, della democrazia e della libertà per tutti. In tutti questi anni mi sono battuto contro il predominio dei bianchi, così come mi batto contro un predominio dei neri. Ho perseguito l'ideale di una società libera e democratica, in cui tutti possano vivere insieme in armonia e con pari opportunità. È un ideale per il quale spero di continuare a vivere fino a conseguirlo. Ma per il quale, se necessario, sono pronto a morire».

Mandela in quel periodo, tra la sua gente e in generale tra la popolazione africana (e in tutto il Sudafrica) era già da tempo riverito e chiamato "Madiba", cioè con il tradizionale titolo onorifico e di rispetto che è dovuto ai capi, ai saggi, e alle personalità eminenti Xhosa.
Gli Xhosa, sono in Sudafrica il popolo con più lunga tradizione sindacale e politica, sin dall' '800 (l' ANC fu fondato nel 1912), e sono un popolo di antica cultura (che parla una ancestrale lingua del ceppo khoiSan, contenente lo schiocco dei cosiddetti "click").
Si vedano a quest'ultimo proposito i tre post in questo Blog, relativi al mio viaggio in Sudafrica e in Swaziland nel 2008:
http://viaggiareperculture.blogspot.it/2011/11/lantichissimo-popolo-dei-san-sud-africa.html


Esiste una visione, o concezione, del mondo specifica di tutti i popoli Bantu, che è stata illustrata e interpretata dal padre francescano Placide Tempels, Bantoe Filosofie, pubblicato ad Anversa in fiammingo dalla Reale Accademia Belga delle scienze nel 1946 (trad.it. edizioni Medusa, Milano, 2005), e poi dal poeta e studioso tedesco di letterature comparate Janheinz Jahn, Muntu, Düsselforf, 1958 (trad. it. Einaudi editore, Torino, 1961, con pref. di Ernesto De Martino, poi "La civiltà africana moderna", 1976, capitolo IV), nonché dall' etnologo italiano Vittorio Lanternari, Movimenti di libertà e salvezza dei popoli oppressi, Feltrinelli, Milano, 1960, poi Editori Riuniti, 2003).

Mandela si è spesso riferito a quella Weltanschauung o visione dell'Uomo e del Mondo, una concezione per cui tutti i membri dell'Umanità sono simili e collegati tra loro, tutti se rimangono modesti, onesti e impegnati per la collettività possono realizzare i valori dell'umano, come per es. anche nel suo discorso per l'insediamento come primo Presidente nero del nuovo Sudafrica nel 1994, quando disse tra l'altro:

"La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati, la nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite. E' la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più … ci domandiamo: chi sono io per essere brillante, pieno di talenti, favoloso? In realtà chi sei tu per non esserlo? Siamo figli di Dio, il nostro giocare in piccolo non serve al mondo. E non c'è nulla di illuminato nello sminuire se stessi, così che gli altri non si sentano insicuri attorno a noi. Siamo tutti nati per risplendere, come fanno i bambini, siamo nati per rendere manifesta la gloria divina che è dentro di noi. () Se tu consenti alla tua luce di splendere, inconsciamente dai agli altri il permesso di fare lo stesso".
Discorso che terminò con "God bless Africa", Dio benedica l'Africa. (Mandela era sempre rimasto un cristiano metodista).



Tornando ai temi che accennavo più sopra, dicevo che dovremmo ricordarci, in occasione della sua scomparsa, di fare un riepilogo di tutta la sua vita (come fece lui stesso nella sua autobiografia: Long Walk to Freedom, "Il lungo cammino verso la libertà", trad.it. Feltrinelli, 1995), e non di limitarci soltanto ad osannarlo (giustamente) come uomo di pace per la straordinaria iniziativa di istituire un Tribunale di Verità e Riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission, TRC), e per aver lavorato a raggiungere un accordo col riformatore De Klerk, ma rammentandoci anche del periodo precedente. 

Passati i sessant'anni d'età Mandela disse: "noi avevamo la ragione dalla nostra parte, ma non la forza, e mi rendevo conto che una nostra vittoria sul piano militare era un sogno lontano, se non impossibile". Compì non solo un atto di realismo, ma anche una conversione spirituale straordinaria che allora non fu compresa fino in fondo da tutti i suoi compagni e ammiratori, avvicinandosi maggiormente all'autentico messaggio spirituale di Gandhi (che aveva vissuto in Sudafrica, nel Natal, aprendo uno studio legale e lottando contro la segregazione e per i diritti umani per vent'anni), un messaggio di pace, giustizia e nonviolenza, portato avanti soltanto per mezzo della obiezione di coscienza, della non-cooperazione, di scioperi, di pubblici digiuni, e della disobbedienza civile, e che da sempre Mandela aveva ammirato, pur essendosi orientato metodologicamente in modo diverso. Gandhi propugnava ahimsa e satyagraha, cioè nonviolenza e verità con fermezza; e diceva che "l'odio genera sempre solo altro odio", dando luogo ad una spirale inarrestabile e infinita. Senz'altro a suo tempo ebbe un positivo influsso su di lui anche il premio Nobel per la pace, Albert Lutuli, ma soprattutto l'amico il vescovo anglicano nero Desmod Tutu che viveva anch'egli a Soweto, vicino alla casa dei Mandela. In effetti Madiba riprese e rilanciò l'espressione di Tutu: "Rainbow Nation", nazione arcobaleno, riferita all'intera popolazione del Sudafrica. 



Quindi il suo fu un ripensamento, frutto di una riflessione profonda e sofferta. Un riorientamento, per compiere quella scelta strategica che gli valse poi nel '93 il premio Nobel per la pace. (Ma in questi giorni ricordiamoci pure che il premio venne dato anche a De Klerk, poiché un accordo di pace si fa sempre solo in due ...). 



Anche a Desmond Tutu nel 1984 era stato conferito il premio Nobel per la pace. Comunque si deve soprattutto a Mandela se non si giunse in Sudafrica a quell'irreparabile bagno di sangue che tutti temevano (che sarebbe stato oltre un certo segno irreversibile), e se si riuscì a far condividere a grandissima parte della popolazione il sogno di un "paese arcobaleno", multietnico e pacifico.  E anche l'obiettivo di giungere alla ammissione delle proprie colpe da parte degli individui coinvolti nei soprusi e negli scontri di tutti gli schieramenti contendenti, per cui attraverso la ammissione di responsabilità e la accettazione di verità scomode tenute nascoste o giustificate, cercare di avviare un processo di rinnovamento e rinascita spirituale e poi soprattutto di riconciliazione tra le parti. Mandela disse: "La gente coraggiosa non ha paura di perdonare, per amore della ricerca della pace" ("courageous people do not fear forgiving, for the sake of peace").

La terza moglie di Mandela (dopo il divorzio dalla estremista Winnie) è Graça Simbine (la vedova del primo presidente del Mozambico indipendente, Samora Machel) anche lei cristiana metodista. Vennero sposati in chiesa dall'amico il vescovo D. Tutu.

Mi sono fermato a riflettere su come possa sentirsi un uomo che ha organizzato attentati con esplosivi, e che poi diviene un pacifista… In questo caso il riferimento a certi valori della cultura bantu può forse averlo aiutato. Ma personalmente mi riesce difficile capire come far convivere quelle due anime ...
Un "rivolgimento" dunque radicale e straordinario, che per certi versi assomiglia a quello compiuto da Gerry Adams, leader del Sinn Fein, il partito separatista dei cattolici nordirlandesi, braccio politico dell' IRA. L'altro giorno guardavo il filmato su una sua lunga intervista relativa a questi temi, trasmesso da Sky Arte (per chi l'abbia perso verrà replicato martedì 17 alle 5 pm). Come può un politico che avesse anche solo ispirato e giustificato attentati con l'uso di esplosivi in luoghi pubblici, rivolgersi poi al messaggio di pace e nonviolenza (in questo caso quello di Gesù), e dichiararsi però non disposto a rigettare ciò che aveva deliberatamente compiuto nel suo passato?  
… Ma ripensavo anche al nostro Adriano Sofri...
Ripensavo al film di Gillo Pontecorvo sulla "battaglia di Algeri" e ai metodi della lotta anti-francese. Ripensavo al premio Nobel per la pace dato a Y. Rabin e a Y. Arafat nel '94, due grandi combattenti che seppero infine giungere a uno storico accordo (applicato ben poco).
Ripensavo a tante e tante altre situazioni tragiche di conflitto violento, dalla ex-Yugoslavia, alla Cecenia, alla Georgia, eccetera eccetera.

Può di per  il fatto di combattere contro soprusi e dittature, il fatto di combattere per la libertà, l'eguaglianza, il rispetto dei diritti umani, per la giustizia, per la pace, può essere sufficiente per ammettere nel profondo della coscienza umana l'atto di praticare la guerra e dunque la violenza? di combattere con le armi, di lanciare bombe, ecc…? insomma è il vecchio dilemma: il fine giustifica i mezzi? o questi dovrebbero essere sempre strettamente coerenti con i princìpi e i fini?

Certo possiamo ad es. ammirare la figura di Che Guevara per tanti suoi aspetti positivi, ma non possiamo comunque scordare che fu un guerrigliero armato, così come possiamo aver avuto simpatia anni addietro per i preti della teologia della liberazione che si unirono alla guerriglia in Colombia, come Camilo Torres, e in altri paesi del Sudamerica (Salvador, Nicaragua, Perù ecc..), ma senza dimenticare che guerriglia vuol dire sparare a qualcuno, magari a un giovane soldato coscritto nell'esercito, e ucciderlo perché incarna il nemico della libertà, della pace, della democrazia...
Le guerre purtroppo hanno una loro logica ferrea e inesorabile, non posso non ricordare la canzone di De André sul povero Piero...

Mandela è un uomo che ha visto le aberrazioni a cui si può giungere se si imbocca la strada della forza e della violenza, e ha avuto il coraggio e la capacità di voltare pagina, e di rispondere negativamente alle domande di cui sopra. Ed ha professato questa convinzione, almeno a partire dai 63-65 anni, non solo nella sua condizione di carcerato, e di vittima del razzismo, ma ha continuato a farlo anche nella sua posizione di leader, di guida di tutto il popolo sudafricano, e poi anche di Presidente del suo Paese, e capo del governo (per cinque anni dal '94 al '99). In questo è veramente straordinario.
Madiba ad un certo punto della sua vita disse (riferendosi probabilmente ad un noto slogan rivoluzionario): "perché essere liberi non è solo liberarsi dalle proprie catene, ma vivere in un modo che rispetti e valorizzi la libertà anche degli altri"

Perciò secondo la tradizione bantu degli Xhosa in questi giorni si canta e si balla, e al passaggio del suo feretro la gente applaude e sorride per festeggiarlo. Gli Imbongi, i cantori della tradizione orale xhosa, declamano le sue lodi in modo poetico, e l'arcivescovo Tutu nonostante i suoi 82 anni ha danzato in pubblico alla cerimonia funebre.

Alla fine della sua autobiografia "Long Walk to Freedom" Madiba scrisse: " Quando sono uscito dalla prigione la mia missione era di liberare sia gli oppressi che l'oppressore. Qualcuno dice che lo scopo è stato raggiunto. Ma io so che non è questo il caso. La verità è che non siamo ancora liberi, abbiamo solo conquistato la libertà di esserlo, il diritto a non venire oppressi. Non abbiamo ancora compiuto l'ultimo passo del nostro viaggio, ma il primo di un lungo e anche più difficile cammino. Per essere liberi non basta rompere le catene, ma vivere in un modo che rispetti e accresca la libertà degli altri. Il vero test della nostra fedeltà alla libertà è solo all'inizio Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà. Ho cercato di non vacillare, e ho compiuto anche dei passi falsi. Ma ho scoperto il segreto che dopo aver scalato un colle, si capisce che ce ne sono ancora molti altri da scalare. Mi sono preso un momento di sosta per dare un'occhiata al panorama che mi circonda, per riguardare indietro al cammino che ho fatto. Ma posso riposare solo per un momento, perché con la libertà vengono anche le responsabilità, e mi preoccupo di non indugiare perché il mio lungo cammino non è ancora finito."

giovedì 5 dicembre 2013

un viaggio nella città dell'Aurora

mercoledì 4 dic. "La Repubblica" ha pubblicato nel suo inserto settimanale "RViaggi", un articolo su Pondicherry, ex colonia francese nel sud dell'India, alle pagine 48-49, in cui si parla anche di Auroville, la città dell'utopia ecosostenibile. Se quei cenni, necessariamente molto rapidi e sintetici, del giornalista Videtti, vi hanno destato qualche curiosità, vi consiglio di andarvi a leggere anche quel che ne scrissi io dopo una visita di qualche giorno. Cercate all'inizio di questo blog, il diario del mio terzo viaggio in India nell'estate 2006, che ho postato il 26/07/2011: http://viaggiareperculture.blogspot.it/ 2011/07/diario-di-viaggio-nellindia-del-sud.html
viaggio durante il quale ho visitato vari centri spirituali diversi tra loro, facendo dei confronti, e dove ai paragrafi dal 12 al 16 racconto appunto di Auroville. E' un po' come la Città del Sole di Campanella, e si chiama così perché fa riferimento all'aurora di una umanità nuova, e al nome di Aurobindo.
Sarebbe un magnifico e interessante viaggio invernale, là trovereste l'estate (e una bella spiaggiona) e anche una piccola comunità di italiani che ci vivono, da cui potrete farvi descrivere e spiegare meglio i dettagli su quel grande progetto urbanistico e ideale, e sui presupposti spirituali di fratellanza che lo ispirano. Ci sono anche dintorni molto belli. Ne vale davvero la pena.