venerdì 12 maggio 2017

una intervista sul viaggiare

Tre anni fa Erica Guzzo era venuta a farmi una intervista sul viaggiare, che penso possa interessare anche ai miei lettori abituali del Blog, perciò ve la propongo in lettura (ho lasciato il linguaggio parlato, così come risulta dalla registrazione).


"La prima domanda è forse banale: 
Che cosa significa per lei viaggiare e perché si è dedicato al tema del viaggio?"

Beh, il perché richiederebbe una risposta lunga e personale, quindi per ora la lasciamo da parte, tra parentesi, la riprendo più avanti (e comunque delle risposte le puoi trovare nei post che ho messo sul mio Blog). Invece quanto a "cos'è il viaggio?", che è una domanda per nulla banale ma immensa, posso cominciare a dire qualche cosa. Il viaggio, per me, oltre che un piacere, e forse anche una necessità, che risponde ad una curiosità di fondo, lo vedo molto sotto l'aspetto proprio di una metafora, una metafora della vita. Il viaggio per me che amo viaggiare, è una parte importante qualitativamente della vita, e un po' la riassume, perché in fondo quando si va altrove, un po' bisogna come ricomincaiare da capo, in quanto non conosci niente e nessuno, non capisci, non sai parlare, sei disorientato… E quindi in breve un po' richiama un certo percorso già compiuto nell'infanzia, perché è in quel primo tempo che incominci a fare delle esperienze, ad imparare dalle tue esperienze, e intanto ti metti in relazione con l'ambiente, con il paesaggio, con le persone che hai vicino, ha dunque un modo di procedere abbastanza simile a quello di quando inizi a vivere… 
Come metafora funziona molto bene, e anche come metafora dell'educazione, perché in fondo l' educazione è fatta così: devi cominciare a far passare dei messaggi al destinatario del tuo intervento educativo, soprattutto tramite il fare esperienze, in modo che queste lo facciano crescere, maturare, messaggi verbali o non-verbali che siano significativi, che lo aiutino in definitiva a fare il suo percorso … e così è anche il viaggio, se lo vediamo dal punto di vista di un percorso di auto-formazione. 
Io ho cominciato a viaggiare con mio padre, fin da quando ero bambino, perché anche lui era appassionato di viaggi; e fino ad un certo punto molte curiosità erano state soddisfatte dai libri, dallo studio, oppure dal piacere di andare al cinema, di guardare la televisione, le immagini, i documentari, le fotografie, ma poi ad un certo punto per me c'è stata una cesura molto grande tra la fine della scuola e l'università, perché io l'università l'ho vissuta come una cosa diversa dalla scuola, non in continuità con quella. Con l'università un pochino potevo già pilotare io la mia autoformazione, grazie a quel minimo che ti davano di possibilità di tracciare un tuo piano di studi. Allora era il 1968/69 e dunque in quell'anno, di libertà nel poter scegliere il curriculum di esami, ne avevamo conquistate molte di libertà di scelta, di più di quelle che gli studenti hanno ora, e poi all' università statale di Milano, che era già allora una grande università, c'era di conseguenza una gran varietà di possibili scelte… e quindi potevi costruire il tuo progetto, poi potevi modificarlo più avanti, e questa è stata una grande conquista del '68 per gli studenti (e infatti poi sono riusciti a cancellarla pian pianino…). Quindi potevi metterti alla prova, ad es. potevi pensare di metterci, che so, sociologia della tal cosa, e poi magari andando a lezione ti accorgevi che non era proprio quello che ti aspettavi. E allora la potevi cambiare… Quando ho provato questa libertà di costruirmi in autonomia il mio piano di studi, il distacco dal mondo degli obblighi scolastici è stato grande, è stata una grande eccitazione, perché io ero molto curioso di tante cose e le ho studiate con piacere anche proprio perché le avevo scelte … Però poi ho anche pensato: va bene, ma tutto questo durerà poco… e dopo? cosa farò? chi sono? chi vorrei diventare? e ho cominciato a pensare: in seguito bisognerà che ci pensi io stesso alla mia formazione. Dopo non vorrei certo dover prendere un'altra laurea per soddisfare altre curiosità… una basta! E così ho cominciato ad avere questo pensiero, che poi era in sintonia con il '68, cioè di prendere in mano da sè il proprio percorso formativo. Quindi appunto mi dicevo: è finita la scuola, le materie da approfondire me le scelgo io, per quanto posso, e un domani che non sarò più qui, mi costruirò io il mio percorso. E certamente il viaggiare era qualcosa che poteva soddisfare tante curiosità, perché nel viaggio c'è dentro di tutto… 
Poi il viaggiare, quando cominci a praticarlo, ti fa rendere conto che siamo molto ignoranti, perché anche all'università veniamo a sapere poco della storia degli altri, delle altre culture, religioni, eccetera, pochissimo. E inoltre non puoi leggere una quantità enorme di libri e vederti migliaia di film, eccetera, insomma c'è un limite… e quindi se vuoi sapere qualcosa del mondo, allora vai là, vai a vederlo. Laggiù in certi Paesi però non è facile capire, per cui comunque devi leggere, informarti già prima, insomma il viaggio non lo ho mai concepito solo come puro momento di vacanza. Un po' può essere anche questo, ma in realtà tante volte ritornavo da un viaggio, stanco, o non riposato, ma ero molto contento, soddisfatto, o meglio stimolato. 
Questo dei primi grandi viaggi all'avventura è stato un periodo molto bello della mia vita. Quindi prima di partire leggevo tanto, mi documentavo, mi preparavo su quel che mi avrebbe aspettato, e poi dopo magari rileggevo quello che avevo già letto, capendolo meglio …e così. Quindi ecco, un po' il viaggio lo vedo come metafora della formazione, anzi come un percorso vero e proprio di auto-formazione, più che una metafora… Dunque direi: come metafora della vita, e anche come un percorso di auto-formazione, e poi anche una metafora dell'educazione, come dicevo prima.

"Per quanto riguarda l'andare altrove, viaggiare, che  importanza ha il mezzo di trasporto con cui fare il viaggio, a parte il fatto che si debba andare in aereo per raggiungere i luoghi di interesse, ma l'andare a piedi, o in macchina, in bus, in treno … che importanza ha? quale mezzo preferisce?"
Dunque prima per necessità, ma poi dopo perché ho visto che era molto meglio, il viaggiare lenti è il vero modo di viaggiare (e adesso anche perché non sono più giovane). Prima per necessità perché non avevo i soldi per fare diversamente, e un pochino anche la scelta della destinazione era dovuta a quello. Ma un pochino solo, nel senso che se il paese è lontano e costa molto l'aereo… Ma se un paese lontano può essere forse anche un paese dove tutto costa molto poco, e allora recuperi quello che hai speso per l'aereo, ma per recuperarlo ci devi stare  a lungo. Cioè se tu vai in un posto per 10 giorni e ti è costato 600 € il volo, sono già 60€ al giorno che ti costa il semplice fatto di poter essere là, anche se là poi per soggiornare e per viaggiare spendi pochissimo, se invece ci stai 30 giorni allora il volo incide per soli 20€ al giorno, se stai 60 giorni la quota per il volo aereo è mediamente di 10€ al giorno, questo soltanto per il trasporto, quindi nel computo il costo del volo incide percentualmente molto su un viaggio in Paesi a buon prezzo, a meno che non ti fermi più a lungo. E se dunque il  biglietto aereo è comunque oneroso, conviene scegliere come destinazione un Paese "povero".
Quindi all'inizio è stata un pochino la necessità ad orientarmi, dato che non avevo che pochi soldi. Le energie certo non mi mancavano essendo giovane, e anzi con l'entusiasmo le energie aumentano, e spendere poco vuol dire poi viaggiare all’interno del Paese coi mezzi locali, che in Paesi poveri sono dei mezzi scassati, lenti, oppure può significare andare molto a piedi, prendere treni, o altri mezzi pubblici in classe popolare… 
Dopo, questa scelta che era stata basata sulla necessità, mi ha fatto capire che comunque quello era anche il modo migliore, perché se vai in un autobus comprando il biglietto che costa di meno, sarà un pullman popolare, e così vedi come è la gente, stai con loro, sei nella vita vera del posto, se vai in treno vai in terza classe (in tutti i paesi poveri del mondo hanno almeno tre classi se non di più), e vedi davvero la realtà così com'è…




Quindi ho capito che il viaggiare lentamente (ovverosia con i mezzi di trasporto più a buon prezzo) ti da il tempo di metabolizzare un po' quello che ti sta succedendo, di entrare in situazione, perché ci vai per conto tuo, quindi non sei intruppato in un gruppo di agenzia turistica, perché se sei dentro a un gruppo di turisti, c'è come una bolla che ti separa dal mondo in cui ti trovi, e parli italiano, o inglese, e non riesci a comunicare con l'ambiente, non sei dentro in alcuna situazione, viene tutto falsato… E quindi il viaggiare lentamente e "da soli", ovvero appunto senza attorno un contesto organizzato, un gruppo, vorrà dire: affìdati a quel che provi, … se un posto ti piace tanto, ti fermi, se invece un posto a te non dice gran ché, allora riparti. E' un po' come per il piano di studi libero……!

"... programmarlo all'inizio, ma non troppo"
Sì, un viaggio "fai-da-te" te lo devi un po' programmare, ma non troppo, di solito io faccio sempre così... Beh adesso è tutto molto molto facile, perché c'è il computer, e c'è internet, mentre prima non c'era niente di tutto ciò. Insomma io faccio sempre così: una volta che ho in mano il biglietto aereo prenoto la prima notte o le prime due (una volta si faceva per telefono, ora per mail). Perché se per es. arrivo ad un'ora tarda, o di mattina molto presto, in questo caso il non aver prenotato può diventare un problema, oppure se il volo è lungo forse sono sballato dal cambiamento di fuso orario, ecc. quindi all'inizio ho bisogno di avere garantito un punto fermo e sicuro. E così al limite prenoto anche per l'ultima notte, per quando ritornerò, dato che dovrò prendere l'aereo e non posso perderlo, lo faccio subito per sentirmi più tranquillo. E basta. Poi dopo vedrai man mano, insomma …la cosa viene da sè … te la devi prendere con calma anche nel senso dello spirito del viaggio, è meglio restar tranquilli (forse certi problemi ti agiteranno un po') ma è importante non preoccuparti troppo, i problemi imprevisti che possono insorgere si risolveranno … e insomma forse sono stato anche fortunato, ma mi è sempre andato tutto abbastanza bene. 
Adesso poi tutto è cambiato molto, non solo grazie a internet, ma anche in peggio: c'è il turismo di massa, la globalizzazione, per cui da un lato è tutto più facilitato, ma è anche più difficile trovare dei posti dove non ci sia troppo turismo di gruppi intruppati, dove puoi entrare in situazione con il contesto, eccetera. E allora, adesso in particolare che posso (essendo in pensione), vado in bassa stagione, così non ci sono turisti, e si trova sempre un alloggio, un albergo, non c'è problema per trovare da dormire… (a parte che certe volte da giovani avevamo anche dormito senza albergo). Poi c'è stato un periodo in cui abbiamo scoperto il piacere di chiedere ospitalità, ed entrare nelle case, anche quello è molto bello, attraverso reti di ospitalità (a quei tempi per es. c'erano associazioni tipo "Servas-porte aperte", ma ora c'è il "coach surfing" via internet)… Insomma l'importante è fare tutto con calma, in questo poi ho avuto un grande aiuto, che è stata anche una grande lezione di filosofia di vita, nel fatto che nostra figlia avendo alcuni problemi motorî va lentamente; questa è stata una grande opportunità per abituarci a rallentare, ha aiutato ad accontentarsi e godere di quel che si può avere entro quei limiti. Per questa giornata ci accontentiamo di questo, e ce lo assaporiamo, perché di più non si può fare, e allora ti siedi su un muretto, su un marciapiede, o in un bar, e intanto ti guardi intorno, osservi… E adesso che siamo anziani anche noi due ci stanchiamo più facilmente. Ma è diventata anche una abitudine, per scelta.

"Anche perché a volte è meglio fermarsi un ora in più in un posto per capirlo di più…in profondità, invece di fare tutto di corsa a tappe forzate e non aver capito niente…"
Sì assolutamente, anche perché in certi luoghi con culture diverse, tu sei una "mosca bianca" e ti si vede a dieci metri di distanza… sei tutto bianco! (ovvero rosa)…non ti puoi camuffare e far finta di non essere uno straniero, … e allora dopo un po' che ti sei seduto lì in quel bar, e tutti ti guardano e a volte vengono anche a romperti le scatole, accade che poi dopo un po' si abituano, e entri a far parte dell'arredamento, del paesaggio, e la vita riprende come è ed è sempre stata… e puoi stare ad osservare lo spettacolo.

"Si inverte il ruolo per cui quello che vedi come uno straniero nel tuo luogo, diventa semplicemente quello più bianco anziché quello nero… e credo che sia molto educativo sperimentare questo …"
Proprio. E poi all'inizio, cioè quando era più raro viaggiare per conto proprio in certi Paesi, c'erano magari certi inconvenienti dovuti alla scarsità di strutture ricettive, ma anche certi vantaggi tra cui quello per cui se si era in posti con poco turismo, e molti dei locali non sapevano l'inglese o una lingua europea, e allora ti dovevi arrangiare tu a imparare qualche parola (mentre ora c'è sempre qualcuno che per fare affari sa almeno delle paroline per venderti delle cose…), insomma venti o quaranta parole era meglio impararle… prima di tutto i numeri, per poter contrattare i prezzi, e poi quanto basta per chiedere informazioni, e per dire grazie e salutare, eccetera... Insomma dovevi darti da fare magari per imparare altri alfabeti, almeno per saper leggere le insegne, i cartelli, se no eri proprio messo malissimo… perché anni fa in certi Paesi appunto non c’erano indicazioni e scritte in inglese o almeno nel nostro alfabeto… 
E poi in certe situazioni, se ti mettevi a parlare in inglese … cioè se mostri che non fai neanche quel piccolo sforzo per dire buongiorno, scusi, o grazie, … Anzi lo potremmo meglio dire all'inverso: se mostri che stai facendo, magari malamente, quello sforzo, qualcuno ha magari un po' più simpatia, vieni più apprezzato … Se no sei subito etichettato negativamente, e ti guardano pensando solo: vediamo quanti soldi riesco a spillargli… 

"Allora, vediamo… un'altra domanda è questa: La narrazione di un viaggio è uno spunto ed un itinerario educativo da proporre, per quali motivi (oltre a quelli personali)?"
Tu che cosa ne pensi?
 "Credo di sì, cioè credo che un testo narrativo, come un diario di viaggio, com’è ad esempio il suo, se lo si legge, racconta della partenza, dell’arrivo, della sensazione di sorpresa, ovvero quella di  trovare cose che non ci si aspettava di trovare, non programmate... è tutto un “movimento” interiore e di conseguenza educativo. Educativo perché s’imparano cose nuove e, quelle date per scontate, non sono poi, a ben vedere, così scontate... si “ritorna” sempre, in qualche modo, cambiati. Il viaggio quindi come ha detto è una  metafora…"

Del viaggio come metafora si sono interessati molti autori, ad esempio Joseph Campbell, oppure -per l’aspetto narrativo della fiaba del folklore- anche V. Propp (un po’ la metodologia è quella che ha pur usato anche Campbell). Il dato importante è che Propp ha individuato delle ricorrenze, delle similitudini un po’ in tutte le fiabe, cioè in quell’immensa varietà di narrazioni quali esse sono, si ritrovano alcuni punti cardinali che ricorrono sempre. Per Campbell in “L’eroe dai mille volti”, il suo primo libro, del 1949, l'eroe è appunto il soggetto protagonista che si mette varie maschere, nel senso che può essere Ulisse o l’antico sumero Gilgamesh o Simbad… però ci sono sempre dei punti che ritornano, che si ripresentano.
Questo per dire che mentre fai un viaggio un po’ ti rendi conto che  per davvero succede così. C'è una sorta di schema, o paradigma soggiacente.


Per es. per quanto riguarda il paradigma di J.Campbell  [vedi nel Post di un mese fa: http://viaggiareperculture.blogspot.it/2017/04/preannuncio-delluscita-del-mio-ultimo.html ]
In primis la difficoltà è quella di partire, non solo come dicevi che lo è per te, cioè per mancanza di ferie, ma perché ci vuole del coraggio. Per questo essere in due tante volte aiuta, partire con un compagno o un amico, ad esempio. Da soli non è sempre facile, per quanto nei miei viaggi io abbia incontrato tante ragazze e ragazzi che erano di fatto da soli, e non succede proprio nulla di speciale. Nel senso che a chiunque può succedere qualche cosa in qualsiasi Paese, anche nel proprio ...

"Certo. Si tratta di “varcare la soglia”, aprire la porta e lasciarsela alle spalle …"
J.Campbell è proprio questo che dice, cioè che si sente come “un richiamo”, o una voce, per dirla in un altro modo. Si sente cioè questo stimolo, un desiderio che nasce da un sentimento di mancanza. “Sento che proprio mi manca il fare quell'esperienza”. Per es. “mi piacerebbe proprio conoscere quella cultura, mi incuriosisce vedere quel posto o quella gente”. E perché mi manca il fare dei viaggi? È difficile da spiegare, ma allo stesso tempo, sento che per me sarebbe importante colmare questa “mancanza”. Questo stimolo è ciò che Campbell denomina la voce che ti richiama. Ci vuole, allo stesso tempo, una motivazione forte per mettersi in viaggio veramente. Partire, lasciare tutto e andare -per così dire- all’avventura dove non ci sono sicurezze. Per questo, molti viaggiano con le agenzie organizzate, proprio perché danno loro la tranquillità che cercano: si sa dove si va, cosa si fa, si viene accompagnati ... ma così si perde molto, si sprecano delle belle opportunità di conoscenza … nei gruppi intruppati si resta sempre "tra noi", non si entra in contatto, in connessione.
Una volta partito, incontrerai sempre dei problemi, e anche già subito all’ arrivo. Perché, come dicevi prima anche tu, non è sempre come ti aspettavi che fosse. E questo fatto è un grande stimolo a riflettere, pensare, elaborare... : “E allora adesso che sono qui, cosa ha senso che faccia?”. Si deve avere sempre come riferimento la motivazione, ricordarsela sempre (per es. sono venuto per vedere una architettura diversa, ascoltare una musica diversa, o per visitare il tal posto, o conoscere un contesto, o  per incontrare un certo personaggio, ...), cosicché anche se succede qualche cosa di sgradevole si può proseguire il viaggio, diventa un episodio e non la “fine del mondo”. La motivazione come ho detto deve essere molto forte, così ti addentri, e aperta la prima porta scopri, come nel romanzo di Hermann Hesse, Il lupo della steppa, che devi diventare un po’come quel lupo che si aggira nella steppa, con le sue capacità da lupo ma anche con certe difficoltà, 

 ... Un personaggio che il protagonista di H.Hesse incontra per caso -ma Cambpell direbbe che non è mai un caso- e varie volte, è in quel romanzo uno che distribuisce volantini (o che il protagonista vede già appiccicati ai muri…) che invitano ad andare a vedere il Teatro Magico. Il "lupo" si incuriosisce tanto che andrà a vedere questo teatrino, e aprendo la porta trova che c'è c’è un lunghissimo corridoio con tantissime porte... Arrivato sino a lì, decide di aprire la prima porta e lì gli si apre un mondo … ovvero lì c’è una situazione particolare dove succedono delle cose, poi vede che c’è anche una finestra dalla quale si affaccia e guarda fuori. Da qui, capisce che ad ogni porta ci sarà anche un’altra finestra che dà su un altro scenario e così via. Alla fine arriva in un posto allucinante, ovvero una sorta di  "Luna Park" dove ci sono tanti specchi... e vede se stesso, se stesso in ogni situazione che ha appena passato, in ciascuna delle porte. Quindi rivede le sue emozioni, le sue tensioni... le sue espressioni. Rivive e vede tanti possibili se stesso: di quando si è spaventato, di quando ha avuto coraggio ecc... 

E' comunque un bellissimo romanzo, come tutti quelli di Hermann Hesse.

Sì, l’ho letto circa quindici anni fa e confesso che  lo ricordo molto vagamente.
Se lo rileggi, la prima cosa che scoprirai è che è un altro libro rispetto a quel che ricordi.
Immagino che sia così. Proprio ieri sera ho ripreso in mano "Alce Nero parla", letto alle superiori, quindi, un bel po’ di tempo fa, e già dalle prime dieci righe ho avuto questa sensazione.
Infatti è così, se ci ripensi, nel senso che in tutti i momenti, anche in questo, noi non siamo mai pienamente consapevoli del significato di quello che sta accadendo. Ma poi, facendo certe esperienze, trovandosi in certe situazioni, può capitare che arrivi la scintilla e ripensi, comprendi. 

Un po’ come hai detto tu, di aver letto Alce Nero parla, ma di non averlo forse capito fino in fondo alla prima lettura… Invece, questa cosa, come altre, ti ha messo dentro un semino che ha lavorato da solo e che sta germinando (vedi p.es. J.Hillman). Ad un certo punto ti chiedi: “Come mai ho queste curiosità, queste passioni?”. Forse anche perché ho fatto certe letture, ho incontrato certe persone, perché sono successi determinati eventi, che, al momento non sembrava fossero gran cosa, ma invece sono stati “capitali” per la tua vita...
A cui non avevo dato la giusta  importanza?
Sì forse, tutto dipende poi a che punto sei nel "viaggio della tua vita", no? Ogni cosa ha i suoi tempi. Ci vuole tempo. Bisogna lasciare tempo al tempo, per poter vedere quello che si sta facendo, attribuirgli un significato, e facendo autoanalisi del significato che si è dato ad un evento, a seconda di come lo si è vissuto. Perché un conto è la vita che uno fa, che può essere anche filmata da fuori, e un conto è "il vissuto", cioè come, in quel momento lì,  hai visto quelle cose, con che sentimenti e emozioni o retropensieri, che relazione  hai istituito tra te e quegli eventi e incontri. Il vissuto è la cosa più importante, ma anche la cosa più evanescente, più labile. Bisogna ritornare tante volte sul proprio vissuto per capire se stessi. Il viaggio aiuta molto a capire se stessi, se uno ha però chiara questa intenzione. Cioè, se già parte con questa chiarezza: sto per avere una sequenza di prossimi vissuti, che senso gli darò? Ti puoi anche studiare, fare un piccolo sdoppiamento tipo nel teatrino di cui parlavamo prima. Delle varie tue possibili latenti personalità che possono emergere a seconda delle situazioni o rimanere nell'ombra. Quindi ti puoi studiare e capire, e magari cercare di cambiare, anche... Se parti pensando che forse questo viaggio ti cambierà, allora forse questo viaggio ti cambierà per davvero, sennò …tutto scorre (pànta rèi dicevano gli antichi greci)… e dopo un po' quanta acqua è passata sotto i ponti?

La cosa che mi sono sempre chiesta, visto che non ne ho mai fatti di viaggi con questo tipo di consapevolezza, il cambiamento lo si percepisce nel mentre si sta andando, o al ritorno? Ovvero dov’è che si percepisce, se si percepisce?
Innanzitutto, per es. per J.Campbell non finisce: cioè egli non concepisce che il cambiamento finisca con la fine del viaggio, perché non avrebbe senso, o meglio perché non gli hai dato ancora tutto il senso che gli si può dare. Molto importante è il momento del ritorno.

Anche se a volte, io personalmente, mi sono chiesto “ Mi piace così tanto qui e sto così bene, perché ritornare?”, e in tanti casi non mi è molto chiaro il perché si ritorna comunque. Anche perché, facendo certi viaggi, trovi tante persone che hanno scelto di non tornare. Se viaggi in un certo modo, incontri certe persone. A seconda di come viaggi, diversi saranno gli incontri. Ecco che è molto importante  andare in piccoli “alberghetti” – che poi è anche un modo per risparmiare – ossia in posti dove hai la possibilità di incontrare certe persone, mentre sarebbe difficile incontrarli in un bell’albergo a cinque stelle, dove ne incontri delle altre … persone di altre tipologie, di altra mentalità.
Ma ritornando al viaggio, "nel mentre" si è spesso poco consapevoli, per questo insisto sul fatto che bisogna sempre tener in mente la propria motivazione, la possibilità di fare autoanalisi, per sostanziare l’autoformazione come progetto, tenendo ben desta la coscienza, ma mentre sei in situazione non si è forse mai del tutto consapevoli. È appunto come un "semino" che poi germina... Ci vuole del tempo, e, il ritorno, e quindi poi il ricordo, ti rimanda al punto di partenza, di quando si è creata una certa situazione, la rivedi come immagine e resusciti i sentimenti che le si associano, con i quali hai vissuto quel momento. Però è anche evidente che tu non sei forse più lo stesso di quando sei partito. Da qui,  cominci a rielaborare, a rimuginare, un po’ come fanno i cammelli... e segui questo lavorìo interiore.

Quindi, le esperienze si devono in qualche modo sedimentare? Un po’ come quando si studia? O come quando si guarda un film e nei giorni successivi lo si ripensa, anche un libro...
E appunto, la grande differenza, quella che abbiamo accennato prima, che scopri in un libro se lo rileggi in una fase successiva, in un tempo ulteriore, anche ravvicinato. Lo stesso vale per un film, anche se lo rivedi subito per la seconda volta, e se poi lo vedi magari quattro volte...
Sono quattro “viaggi” diversi.
Sì, dato che inizi ad osservare altre cose, particolari a cui prima non avevi prestato attenzione perché eri focalizzato sull'essenziale, sugli elementi centrali o più emergenti...


Come anche la lettura di un diario di viaggio, per esempio il suo. A proposito di questo libro, "il Viandante e lo Sciamano", vorrei fare una riflessione sulle figure che intitolano il libro, o meglio sull’importanza degli incontri con figure simili. Ovverosia su cosa significa mettersi nei panni di un viandante, nel momento in cui si intraprende un viaggio, sia dell’incontro con viandanti maestri sciamani e così via … 
A te piace vedere i film? La cinematografia?
Sì certo.
Ce ne sono molti che trattano del viaggiare. In particolare mi viene ora in mente un vecchio film di Luis Buñuel, sul cammino di Santiago.
“La via lattea” ?
Sì. Questo film quando lo ho visto è stato magico e misterioso, ci vuole un po’ a capire cosa succede in quel film, e nella vita è proprio così.

In più, se, le persone che incontri, provi a guardarle come delle figure simboliche per una loro particolare luce negli occhi o espressione, così come per una loro frase, detta magari in un particolare momento… insomma, per qualcosa che, per te, sia stata significativa per il tuo vissuto, allora queste persone possono diventare (almeno in parte) simboliche, appunto, quello che hanno detto o fatto diventa per te come un messaggio, e le valorizzi in questo modo. Per cui, questo, ti può aiutare a comprendere e dare un senso a quello che sta succedendo. Sempre chiedendoti come la stai vivendo. Un po’ aiuta anche prendersi del tempo e scrivere un diario, prima di crollare alla sera dalla stanchezza. È come un momento di ricapitolazione, e lo devi fare ogni sera, perché ti fa capire quanto è successo  durante il giorno, e quanti input ti sono arrivati e  stanno ancora lavorando. Per cui, se lo fai ogni sera fai a tempo a segnarli, anche con dei semplici appunti,  come promemoria, in modo da poterli far resuscitare una volta a casa ritornando nuovamente in quella situazione. Ma, al ritorno, ci vuole tanto tempo, per rielaborare e per rivedere, di più ancora se fai delle fotografie e delle registrazioni. Adesso abbiamo tutti il cellulare che registra ... Ma ci vuole tempo!
E, la "madre" di tutte queste situazioni è l’Odissea, quella storia che lui stesso racconta alla sua compagna Penelope (ma vieni a sapere che è così solamente alla fine).


Nel raccontarlo, l'eroe rivede questo viaggio che potremmo dire un viaggio “a rovescio”, perché non è il viaggio verso la mèta ma è il viaggio di ritorno a casa. Un viaggio avventuroso sul tema del ritorno, non è altro che questo: è un interrogarsi da parte del protagonista sul perché si era soffermato da Calipso, sul perché Circe lo avrebbe ammaliato, e perché poi  invece, sentendosi prigioniero, ha fatto di tutto per sfuggire da quella situazione... E, quindi,  tutti i viaggiatori che ritornano, sono un po’ come Ulisse. Poi, la fine nell’Odissea, per me, non è un bel finale, in quanto la compagna è contenta che Ulisse sia tornato dopo aver attraversato tanti ostacoli, ma lui, appena finito il racconto, vorrebbe ripartire, e  proprio per questo l’avevo sempre visto come un finale un po' amaro e malinconico. Ma poi a ben vedere invece ora lo capisco, perché è il racconto che valorizza il significato di tutto quel che l'eroe ha passato. Perché, intanto, Ulisse si rende conto soprattutto che, se non lo raccontasse, il suo viaggio sarebbe incompleto, ci sarebbe una mancanza. Sarebbe monco, perché si deve sempre condividere ciò che ci succede. Poi, si rende anche conto di quanto il viaggio gli abbia dato, e di quanto lui sia veramente cambiato. Non solo perché erano passati degli anni, tanti che la moglie faticava addirittura a riconoscerlo, ma perché in fondo lui era proprio un altro, si era trasformato. È da rileggere l’Odissea, è molto bella, significativa, densa di significati.

Quindi l’importanza di raccontare sempre del viaggio fatto, perché così lo si dota di senso? 
Sì… In proposito, e anche visto che  questo mio libro e diario di viaggio in Ecuador (“Il viandante e lo sciamano”), nel suo piccolo ha avuto un certo successo, sto per pubblicarne un altro, sempre relativo ad un viaggio sulle Ande, ma quelle del Perù (“Con lo sguardo del condor”, dello stesso editore).

Si tratta di un viaggio precedente?
Sì, e anche in questo in particolare, quando incomincia il viaggio comincia anche la scrittura del diario del viaggio, quindi c’è questo specchio che accompagna tutto il viaggio, quello di me stesso stesso che scrive del viaggio che sta facendo. Poi proprio rileggendo il diario di questo viaggio del 2004 (quindi di diversi anni fa)

anche per ritoccarlo, modificarlo e integrarlo, mi sono reso conto che, intanto trovavo che è un o' come quel rileggere un libro (di cui parlavamo prima), da cui emergono sempre delle cose nuove, e poi ho scoperto che c’era questo viaggio parallelo narrativo, della narrazione, ovvero che in quel momento lo stavo raccontando a me stesso!… e in quest’ottica non lo avevo mi pensato. Ci devo riflettere un altro po’, perché credo che sia una cosa interessante… 
È comunque importante scriverlo in itinere il diario, altrimenti tutto quel che abbiamo pensato e considerato durante la giornata svanisce, un po’ come accade nel tentare di trascrivere i propri sogni…

Intende di scriverli subito appena svegli, altrimenti poi svaniscono?
Sì perché nel momento in cui ti rendi conto che il sogno era importante già cominci a chiederti com’era… per inquadrare bene le scene, gli eventi, e il motivo per cui ritieni che sia importante ...  e in questo modo, già con ciò stesso … lo deformi, lo razionalizzi… lo incapsuli in schemi logici…
...e sfuma…
Sì, è così. Quindi,  bisognerebbe proprio scriverli subito di getto i propri sentimenti, le proprie emozioni, e le proprie associazioni d'idee, ecc.

Per quanto riguarda la figura dello Sciamano?
Intanto, questo è un titolo veramente fortunato che ha aiutato molto il libro, perché è bello, è un bellissimo titolo.
confermo. 
Un titolo che non ho scelto del tutto io, ma mia figlia, è infatti lo stesso titolo di un suo racconto che si trova all’interno del libro, un racconto proprio un po’onirico. Il titolo che avevo pensato inizialmente, risultava invece un po’ troppo lungo, mentre questo è molto più attraente.

Penso infatti che il titolo sia un po’ una sintesi del libro.
Certo, perché il viandante e lo sciamano diventano appunto delle figure simboliche. In questo caso, divento io stesso "il viandante"… (che poi in realtà eravamo in tre, e quindi è uno e trino questo viandante…). E Manuel Pumaquero è "lo sciamano" (anche se lui questa definizione la rifiuta, non vuole essere chiamato in questo modo, ma per noi un po’ lui lo era). Cioè come dicevo prima: se tu già hai un po’ questo sguardo che fa attenzione al momento simbolico, ti aiuta a capire meglio le cose. Incontrato Manuel -con il quale poi siamo diventati amici- abbiamo anche pensato “Ma questo è uno sciamano”. Poi, a volte, ci si aspetta che uno sciamano sia chissà che cosa, perché si è condizionati dall' immaginario sociale:  per esempio, è l'eremita che va in cima alla montagna, il saggio seduto con lo sguardo verso l'infinito… ma invece nella realtà vera non è così. Comunque per noi "lo sciamano" era proprio lui, era Pumaquero.

Nel diario sono sempre menzionati il cibo, le bevande, e, ho notato anche le abitudini alimentari di Manuel Pumaquero. Quindi, un primo incontro per comprendere l’Altro, può avvenire anche grazie alla semplice condivisione di un pranzo, come di una cena? Da qui, ho allacciato una frase che a me piace molto di Bruce Chatwin, ripresa da “L’anatomia dell’irrequietezza” ossia: “«Diversivo. Distrazione. Fantasia. Cambiamento di moda, di cibo, amore e paesaggio. Ne abbiamo bisogno come l’aria che respiriamo. Senza cambiamento corpo e cervello marciscono». …Cosa ne pensa? 

È proprio così per tanti motivi. Il primo perché appunto si fa esperienza, e si conosce una cultura. In sostanza, quello che mi interessa, come al resto dei viaggiatori è conoscere una cultura e ovviamente anche un Paese, e per conoscerli li devi conoscere attraverso tutti i cinque sensi contemporaneamente. Quindi, il primo, come fanno i bambini, è l’assaggiare, e apprezzare questa grande sapienza della rielaborazione degli alimenti che produce la terra, per farne del cibo. 

Penso sia anche la possibilità di scoprire profumi e  sapori diversi.
Si scoprono sapori e profumi che ti danno, appunto, il senso dell’alterità. Pasolini aveva intitolato il suo diario di viaggio in India “L’odore dell’India”, ed è così, io la prima volta non ci avevo pensato, ma se si ha la possibilità, come me, di andare in India più volte, quando ci ritorni pensi  proprio: “Ah sì, ecco siamo in India! C’è questa puzza- profumo…!”, si sente molto per es. l’odore di fiori marci... moltissimo, in quell'aria caldo-umida soffocante.


Questi sono tutti elementi che ti fanno percepire fisicamente l’alterità. E poi c’è anche la condivisione, la curiosità appunto di sapere come il cibo è stato elaborato, perché è un modo di spiegare le stranezze, quelle che a  prima vista non capisci, che ti fanno chiedere di cosa effettivamente è composto quel piatto, perché dentro ci sono ingredienti che qui da noi magari non si trovano. Adesso però, con la globalizzazione questo è già più raro, perché ormai trovi quasi tutto dappertutto. Negli anni Settanta questo fenomeno era molto meno diffuso.

Sì, ma è anche vero che, a volte, quello che ti vendono non è proprio simile al cibo del luogo indicato, per esempio, al ristorante cinese in Italia non si mangiano le stesse identiche cose che effettivamente andresti a mangiare in Cina, non sempre.
 Sì, proprio così. Poi un’altra cosa: c’è sempre un sentimento misto, ossia di curiosità con il piacere e la soddisfazione di provare cose nuove, ma c'è anche un po’di tensione per il fatto che ci si avventura nel mangiare qualcosa che può farti star male (p.es. formiche o cavallette ...). Non si sa mai dopo, cosa ne penserà il tuo stomaco… lui ragiona diversamente! [sorriso]. Per chi viaggia in paesi tropicali i problemi sono di questo tipo, non si è abituati a quel tipo di alimentazione, ai germi, per cui tutti i viaggiatori ci soffrono almeno un po'. Ma poi ci si consola per questo, ...ma neanche tanto!… [risata]. Insomma, dicevo che non riconosci quel tipo di legumi, non conosci quella frutta, non sai che sapore ha, e altre cose così, eccetera...

Non c’è familiarità.
 No, non c’è familiarità, ma va bene, anzi sei andato lì proprio per entrare nell' alterità, con un po’ di “coraggio” si assaggia, non succede nulla. I fastidi allo stomaco o altri problemi passano, se poi ci stai tanto in un Paese, se cioè il viaggio è lungo e sei costretto a fermarti per un giorno per riposare e ristabilirsi, in percentuale non è che ci perdi poi così tanto. Quindi vale sempre per il discorso che facevo prima. Guai, invece, a non provare… se non si assaggia, non si conosce.

 Una delle mie domande, di cui lei ha già anticipato un po’ la risposta, era  proprio sull’importanza dei sensi in un viaggio.
 Sono fondamentali. Bisogna porsi molto in ascolto, poi guardare ed osservare anche… Se leggi il romanzo di  Robert Pirsig, che secondo me ti potrebbe piacere anche se è un po’ lungo, “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”, del 1974,

ci sono delle pagine molto interessanti, è un racconto autobiografico. In breve, in questo viaggio -concepito come un vero e proprio viaggio iniziatico- Pirsig vorrebbe insegnare al figlio Chris (di undici anni) che ha portato con sé, a cogliere, la bellezza, il significato delle piccole cose, ma il ragazzo ha altri interessi, altre cose in mente… alla sua età poi! Non gli importa del “senso del viaggio”. Il padre, invece, insiste nelle sue intenzioni, perché ci tiene tantissimo, lo vuole educare all’osservazione e, per questo, viene percepito dal figlio un po’ come un rompiscatole. Ma il testo è denso di considerazioni interessanti.
Ed è vero che in un percorso di formazione è molto importante educare la capacità di osservazione, affinarla, perché è molto utile. Il che vale anche per un percorso di autoformazione, bisogna allenarsi, addestrarsi ad essere pronti nell'osservare e a saper osservare. Devi saper cogliere dei segni, dei cenni, per poi ripensarli e collegarli. Essere in due, per esempio, è altrettanto utile, importante e bello, per la possibile condivisione. “Ma hai visto anche tu ?..… o, hai notato quel tipo che…?” eccetera… si commenta, e intanto ci si può chiarire a vicenda. Ognuno, infatti, ha un suo modo di interpretare le cose, e, quindi, ci si può confrontare.  Ma se sei da solo non puoi farlo, io ho fatto anche dei viaggi da solo, mi sono piaciuti, certo, ma ho sentito la mancanza della condivisione. Non mi basta fare come Ulisse che racconta alla fine...


Non basta raccontare dell’esperienza una volta che si è tornati a casa?
 Non basta, bisogna in itinere raccontare e raccontarsi quello che ci sorprende e discuterne. E ad es. scrivere degli appunti sull'esperienza mentre la si sta facendo.

Poi, lei parla di affinare la capacità di osservazione, si può in questo caso considerare questa capacità come una sensibilità estetica? Quella di saper cogliere le relazioni tra le cose? Cioè, di quando si osserva qualcosa e ci sembra bella proprio perché ne riusciamo a cogliere l’armonia d’insieme? E, ancora, non solo guardare passivamente, o imparare che quel posto, per esempio, si chiama in un certo modo e basta. Cambiare punto di vista e fare cioè dei collegamenti diversi, nuovi…potrebbe essere?
 Sì ovviamente. Poi c’è un elemento ulteriore. Mi ero reso conto, ad esempio, andando in Turchia nell’ Anatolia orientale nel 1971, o in India nel '78, ma anche in certi Paesi arabi, che noi siamo sempre fortemente condizionati dalla scuola, o insomma comunque dalle conoscenze che si hanno, o non si hanno. Quando, in quei Paesi, ci si trova di fronte a un'opera d'arte, o  a un monumento, a un palazzo, per noi potrebbe essere del 1600 come di mille anni fa…non si sa nemmeno come collocarlo. Poi ci sono parecchie cose che per noi risultano assai strane, nel senso che ci possono essere presentate come “belle”, mentre a volte a noi non sembra così evidente, non riusciamo a coglierla quella bellezza... E, mentre si sta osservando si comprende che effettivamente non possediamo nessuno strumento per capire ciò che ci sta davanti. In più, siccome molte culture non hanno il senso della Storia (almeno quello che abbiamo noi occidentali), concepiscono di costruire qualcosa oggi con lo stesso stile del XIII sec. o del III. Ma questo, noi che la osserviamo non possiamo saperlo, non ce ne rendiamo conto. E' qualcosa che noi non facciamo, non costruiamo oggi un palazzo nuovo con lo stile del 1600 ... Se vediamo qualcosa che ha quello stile e che però sembra nuovo, pensiamo che magari è restaurato ma di sicuro è di quell’epoca là. Il più delle volte, inoltre non si conoscono i loro diversi stili, non si sa nulla della loro storia dell'arte, si è dei totali ignoranti, allora ci si sente veramente spiazzati nel dare un giudizio. E, magari, non resta che prendere per buone, così a pelle, delle impressioni superficiali, e chiedersi semplicemente se “mi piace o non mi piace?”. In questo modo, cambia anche il concetto di bello e di brutto. Per questo secondo me, quando si è in un altro paese, si deve cercare di chiedere e anche di parlare con abitanti del luogo. Spesso capita, quando abbiamo di fronte un oggetto, un’opera o altro, di dargli poca importanza, o addirittura può anche sembrarci “brutta”, mentre invece scopriamo che agli occhi di una persona autoctona risulta bellissimo il tal oggetto e importante da notare il tal particolare. Perché questo? Perché quella persona probabilmente ci vede degli aspetti che noi non riusciamo a percepire, che non cogliamo, perché non fanno parte della nostra cultura.

C’è magari una storia di fondo, o magari quella cosa evoca qualcosa d’altro che è importante per quella persona di quella cultura.
 Normalmente è così. Le moschee nei Paesi arabi, per esempio, a me  sembrano tutte molto simili… non ci vedo gran differenza tra una di secoli fa e una nuova. A Casablanca c’è quella nuova grande moschea stupenda tutta di marmo, sul mare, costruita proprio sull'oceano, che tra l’altro è la più grande moschea d’Occidente (cioè del Maghreb), ma pur essendo di qualche anno fa, è in stile tradizionale, e sembra comunque simile a molte altre. Anche in questo caso, non saprei spiegare perché a differenza di molte altre, questa per me è bella, l’ho vista veramente molto molto bella, sono rimasto spiazzato.

E questo, vale per tutti i nostri sensi. Ad esempio per quanto riguarda “l’ascoltare”, la musica di certi paesi ad es. dei paesi arabi, è veramente esotica (non parliamo poi della musica cinese o giapponese). Inoltre per l'ascoltare i discorsi,  se si è in un paese in cui non si capisce la lingua autoctona si può solo, ricorrere all'inglese… anche se l’inglese è già un linguaggio molto mediato (ad es. in India dove pure è una lingua ufficiale). Oppure, in certi altri paesi, con lo spagnolo… lingua che, forse si impara più facilmente, rispetto ad altre, anche per chi, come te, dice di non esserci portato... e si può così riuscire ad ascoltare e capire, se per esempio si è in pullman, i dialoghi della famigliola seduta accanto, oppure al bar... e questo è un gran vantaggio per capire una popolazione.

Un esempio relativo al “tatto”?
 Vediamo...in certi altri Paesi ci sono effettivamente delle cose che non sapresti dire di cosa sono fatte, perché esistono dei materiali che vanno dai diversi tipi bambù o canne di palude laccate e lucide, che sono proprio insolite, a volte sembrano di plastica... per dire che anche toccando appunto non sempre riconosci il materiale.

Non è familiare.
 No, per niente. E poi anche la flora può essere diversa, ci sono piante molto strane... se, per esempio, vai in Australia, tutto ciò che appartiene al mondo naturale è diverso, addirittura non c’è gran ché da visitare, nel senso che il Paese non ha storia ed è tutto moderno… ma c’è la natura che, come dicevo è molto diversa, gli animali e le piante sono differenti, è stranissimo... anche il cielo e in particolare di notte le costellazioni..., mentre il resto è tutto recente.

Ritornando al suo viaggio in Ecuador, ho trovato molto curioso il fatto di quando racconta che, più volte, le è stato chiesto se avesse dei parenti in quanto  assomigliava molto a qualcuno del posto, scrive che anche in un altro viaggio le è poi capitata la medesima cosa. In una sua nota afferma di vivere questa cosa come una “suggestione di fratellanza” con la gente del posto. Ma la sensazione di sentirsi in qualche modo “riconosciuto” in un luogo a lei poco familiare  le suscita curiosità, sorpresa, cos’altro?
 Non saprei, riconosco di averci ripensato su molto, e sono arrivato un po’ alla conclusione che forse in quel momento stavo cercando degli agganci, delle sicurezze. Pensare che, in fondo, quel mondo non è poi così lontano ed estraneo, là “ci sono persino anch’io”, un altro me, ossia un altro che mi è simile. Si tratta anche un po’ forse di un atteggiamento di ricercare più le similitudini che le differenze, ma non ho, in realtà, ancora ben capito come mai... Però, ho una convinzione, ossia quella che nel corso di migliaia di generazioni, da quando è comparso l’Homo Sapiens Sapiens, e, quindi anche in miliardi di combinazioni possibili, ci deve pur essere stato, come c’è ancora, qualcuno che ci assomiglia: come aspetto o magari anche come carattere, personalità, gusti... ci sarà quasi sicuramente. Io magari sono molto simile al trisavolo di mio nonno!... E, a volte, proprio ti dicono anche cose del tipo: “Ma Carlo assomiglia a quel prozio…” che non ho nemmeno mai visto e conosciuto… E, allora, il ritrovarlo, anziché nel passato, come di solito è, o si pensa che sia…, trovarlo nel presente mi ha fatto uno strano effetto.
Io, mi dicono, assomiglio alla nonna materna 
 Può darsi, perché no? c'è una ereditarietà genetica. Invece, dicevo, ritrovarlo a livello orizzontale di contemporaneità, ti fa, e mi faceva, in quel momento, render conto che, in un certo senso, apparteniamo tutti ad una stessa famiglia, non credi? (Poi magari uno è diventato un po’ più “abbronzato” perché è stato esposto maggiormente al sole… ecc...). Ecco allora, che la suggestione mi era venuta per senso di fratellanza e di unità, oltre che solo  per un bisogno psicologico ... Ma chi lo sa?…
Un po’ come si dice nel teatro o per gli attori del cinema. Quando si ha bisogno di una controfigura, si trova sempre un altro che sembra “gemello”, sembra incredibile, e magari, non lo avresti mai incontrato...  tuttavia, se lo si va a cercare lo si trova. Come nel film “Kundun”, del '97 mi pare,

dove dei lama tibetani, a cui è morto il maestro, vanno alla ricerca, credendo nella reincarnazione, di dove, o meglio, in chi si può essere reincarnato. L’impresa è difficilissima, ma alla fine lo trovano, è un bambino piccolo, di appena due anni, che vive in un remoto e anonimo villaggio della provincia di Amdo in Tibet, di fronte al confine con la Cina, e diventerà il nuovo maestro (il film è ispirato all'autobiografia dell' attuale Dalai Lama).

Poi avrei con me un’altra domanda: viaggio, imprevisto, incertezza ed errore, cos’è che li rende educativi?E poi appunto, errare nel suo significato di errore. Ma prima vorrei chiederle visto che parlavamo poc’anzi di queste figure simboliche, in cui ci scorgiamo qualcosa di “magico”, per un discorso e una propensione tutta personale, interiore, eccetera,  di raccontare, appunto, un evento o un  incontro che per lei è stato straordinario, in cui ha sentito veramente la magia di quel momento, e, nello specifico, per quanto riguarda il suo viaggio tra le Ande dell’Ecuador,  ma anche in  altri se preferisce…
 In quel viaggio specifico, di momenti in cui ho sentito la magia della situazione, ce ne sono stati. Uno di questi è quando la prima delle nostre "guide" autoctone, che si chiama Pintag, ci ha portato... 
All’albero sacro?
 Sì, anche all’albero, ma soprattutto davanti alla "pietra nera", un enorme sassone, proprio nel momento in cui il sole stava per tramontare, tra l’altro, all’equatore tramonta rapidissimo, si passa, in un quarto d’ora, dalla luce del sole alla notte... Ecco, in quel momento lì, mi sono veramente emozionato, perché mentre arrivava rapido il buio si faceva fatica a distinguere l'ambiente circostante, in quanto c’era anche poca illuminazione elettrica, noi siamo quasi sempre per tutto il tempo illuminati, e, quindi, un po’ ci dimentichiamo del buio totale. Ma ad es. se si va su in montagna e c’è proprio buio, non riesci veramente a distinguere quello che c’è attorno. Poi c’era anche una mucca, che mi ha spaventato un po’, perché era scura e nella penombra si vedeva poco, non mi ero accorto della sua presenza, e poi si vedeva giù il ruscello che ancora aveva dei riflessi di luce sull'acqua, o forse erano già quelli della luna,  e sembrava quasi d’argento. E poi ancora, c’era il vento, e gli alberi molto alti  che si muovevano, ma soprattutto questa pietra nera nel silenzio assoluto, mi ha fatto molta impressione.
L’altro momento, invece, l’ho vissuto con Manuel Pumaquero, nel suo Istituto di Studi Tradizionali Andini, dove hanno costruito apposta, per scopi educativi, un labirinto con piante endogene autoctone, e intanto, mentre ci stava parlando, spiegando e descrivendo, effettivamente la sensazione era quella di perdersi, proprio come in un labirinto, tanto che non avrei saputo come tornare indietro. Ci siamo fermati alla fine, davanti ad una tenda, simile a quella degli indiani pellerosse del NordAmerica, la capanna del sudore ( e della meditazione, però in realtà non so bene che altri usi ne facessero), ecco,  anche in quel luogo ho sentito la magia della situazione, anche qui stava sorgendo la luna, la luna piena, e anche quelle stelle strane, che non sono le nostre, e ancora il silenzio assoluto e il buio, mi ha colpito abbastanza. Lì, abbiamo fatto anche meditazione, perché anche loro hanno, nella loro tradizione, che è molto antica, queste pratiche, alcune sono un po’ simili allo yoga, per la posizione a gambe incrociate, la schiena dritta, per cercare di uscire dalla ossessione dei pensieri, fare silenzio nella mente, prendersi tutto il tempo che è necessario per questo, per poi non rendersi più conto di quanto tempo è passato... è stato un momento davvero magico.
Ma poi ci sono momenti di magia molto semplici. Per esempio di quando, nel paese di Saraguro, la famiglia che ci ha accolto in casa, ci ha invitato a un paio di cene loro, molto semplici, si mangiava poco, in piatti di ceramica fatti da loro, con anche cose locali prodotte da loro stessi, cibi molto genuini e molto buoni. Una grande famiglia e tutti in silenzio, anche i bambini che in famiglia, di solito, facevano un gran baccano, a cena si facevano silenziosi. E, gli adulti, con ancora il gran cappello in testa, anche a tavola. Insomma, ciò mi ha fatto rivivere la semplicità di quando ero bambino e andavo in campagna a cena con mio nonno, così anche mi sono ricordato un po’ di quel bellissimo libretto di Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, sulla condivisione del pane ("Il pane di ieri", del 2008).

Quello che un po’ dicevamo prima del cibo, la sua importanza nella condivisione, piccole cose, ma importanti.
 Sì, e anche questo è stato un momento magico, anche se non c’era nulla di particolare da guardare, eravamo in uno stanzone grezzo, in cui c’erano tre tavoli che non si potevano assolutamente unire l’uno all’altro per differenza di forma, ma messi vicini… uno rotondo, uno quadrato... uno seduto qua e uno là, e tutti in silenzio... c’era una atmosfera di calore, di familiarità e condivisione senza parole, mi è piaciuto molto. Per cui magari, a volte, sono cose semplicissime, banalissime, che durano poco, ma che però ti rimangono... che ti ripagano di altri giorni in cui, invece...non so, non ti succede proprio niente e sei stanco per i trasferimenti, i mezzi di trasporto...

Da qui, se vuole aggiungere qualche cosa d’altro... qualcosa che le piacerebbe dire...
 Per esempio ieri in un intervento che ho tenuto all’Università di Ferrara avrei voluto dire alcune cose, ma alla fine, come spesso capita, ne sono uscite delle altre, o meglio non c’è stata nel discorso poi l’occasione di parlare -come avevo progettato- delle vie della conoscenza secondo le antiche culture dell’India tradizionale. Ma qui ci allontaniamo dal viaggio nelle Ande.
Sempre un viaggio è...
 Sì, è pur sempre un viaggio. Se il viaggio può essere inteso come un percorso di conoscenza, gli antichi "Veda" dicevano proprio questo, che esistono tre modi di conoscere,  tre vie (marga) per l'illuminazione, cioè  jñana marga, karma marga, e bhakti marga, rispettivamente: con la mente, con il fare, e con la compartecipazione emotiva. In realtà si tratterebbe di un unica triplice via (trimarga),  d' intelletto, di azione, ed empatica. Sono anche emblema di pedagogie distinte.  Se, dunque si segue solo la via detta  Jñana, la via del sapere, è una conoscenza parziale che ti fa effettivamente capire molte cose, ma che è tutta mentale. La seconda via è karma marga, cioè la via della prassi, dell'esperire. Il karma vuol dire il “fare”, quello che succede, e quella legge universale alla quale si attiene, cioè della causa e dell’effetto. Quindi capire attraverso il fare, nel senso anche materiale di fare delle cose significative, e farle insieme, come per es. appunto il fabbricare il cibo.
Anche viaggiare?
 Anche viaggiare, perché appunto stai andando e così stai facendo. In più tutto l’aspetto esperienziale fisico di cui parlavamo prima, toccare, annusare, cioè i sensi ti fanno capire... E poi ancora, le relazioni, i rapporti, intrecciare e far succedere degli eventi è un modo per capire. Esso ci permette di conoscere, come accennavo con il concorso di tutte le nostre facoltà e i nostri sensi, e quindi anche attraverso i sentimenti, di tutto ciò che si associa all'esperire, quindi l'ambiente, la situazione, la relazione… Il primo modo di conoscere sarebbe monco senza quest’altro, se ci fosse solo il sapere della mente non sarebbe sufficiente, idem se ci fosse solo il sapere concreto delle cose, ma sono entrambi indispensabili. Nella nostra cultura  il primo sarebbe di polarità maschile, l’altro invece più femminile, di conseguenza vanno concepiti insieme, si completano, perché altrimenti sarebbero insufficienti. Con questo ci avviciniamo alla terza via. il terzo grande percorso è quello della Bhakti, dell’interiorità, che non è né della mente né del fare, ma delle emozioni e  sentimenti, e inoltre è la strada delle intuizioni, della interiorità, del mondo dei simboli, del fantastico, e della spiritualità, anche, e -se uno ce l’ha- della fede, quella religiosa. Anch’essa è una via di conoscenza, addirittura alcuni dicono che la mistica è la massima possibilità di conoscenza, perché trascende appunto la mente e l’azione, e anche l’intuizione.

E' una via, questa, più sottile, che richiede compartecipazione emotiva, empatia, una comunicazione che passa anche per un linguaggio non verbale, una comunicazione sentimentale, o attraverso i canali dell'arte, che coglie intuitivamente i messaggi dell'inconscio, dell'immaginazione, della vita notturna onirica, che si raggiunge anche attraverso la meditazione nel silenzio, nella concentrazione in sé stessi, o nello slancio di connessione mistica con gli altri (i loro bisogni i loro patimenti), con la bellezza della natura, del creato, e quindi con il divino. Per la filosofia indiana si parla  perciò di una triplice via della conoscenza che è assieme via della prassi, della mente, e dello spirito. Un metodo uno e trino inscindibile. E solo così si conosce, attivando contestualmente e contemporaneamente intrecciate tutte e tre queste modalità, si arriva allora alla vera e piena conoscenza che va oltre la superficie.... In un viaggio si attivano tutte e tre in sinapsi, il viaggio è un’occasione per "sentirle" e per percorrerle tutte e con consapevolezza. (cfr anche un mio Post del 26 aprile '14: http://viaggiareperculture.blogspot.it/2014/04/ le-vie-per-la-conoscenzaconsapevolezza.html )

Si parte con un sapere iniziale, che può essere le conoscenze che già ho o su informazioni ricercate appositamente per quel viaggio, magari leggendo dei libri, delle guide, poi esperisco, faccio esperienza attraverso i vari sensi, in più ci sono le emozioni del caso, i momenti magici e anche quelli spirituali.
 Così anche nell’amore. Puoi venire a sapere qualche cosa su una persona che ancora non conosci dalle parole di un amico che ti dice: “Sai, quella persona ti potrebbe piacere perché...” e così via,  ma la conoscenza, in questo caso rimane astratta, ci si può solo fantasticare. Poi se diventa diretta e concreta ... allora bisogna vedere se scocca un feeling...  insomma qualche cosa che sfugge ai ragionamenti,  allora dopo vuoi approfondire la conoscenza attraverso i sensi, come il tatto, l’odore (però con cautela: anche solo una minima cosa negativa può rovinare l’incanto iniziale),  e poi si vuole fare insieme delle cose, perché questo unisce molto, e ritorniamo alla condivisione. Poi, l’amore è emozione, sentimento, istintualità e fisicità e sessualità, ma anche dolcezza, percezione sottile, insomma: tutto... è la strada per la realizzazione, per raggiungere un senso di pienezza, di soddisfazione, che può regalarti anche momenti di estasi.


Anche in un viaggio c’è tutto questo. C’è un dialogo tra queste parti dell’essere umano.
 Voglio dire che anche l’amore può essere un viaggio... pur senza muoversi. Se il viaggio è la metafora della vita, allora va considerata tale tutta la vita compreso l’amore dei sensi, e fatto come un viaggio nel tempo... e poi magari anche nello spazio (ma nel tempo, per forza si va avanti!). Sì, insomma non c’è bisogno di andare proprio fino in India (o sulle Ande)…

È comunque importante andare, non è che sia tassativo, ma meglio se si va... perché ci si rende conto che il mondo è anche altro, vero?
Sì. Per ognuno è diverso, ognuno appunto poi scopre le sue propensioni. Ad esempio, avendo una casetta in montagna, ho la possibilità di parlare con molte persone per le quali la montagna è tutto... fare una scalata, arrivare sino alla vetta, arrampicarsi, il piacere della conquista e, poi, il panorama immenso, l’aria tersa. Insomma, certi provano proprio un sentimento religioso, o meglio spirituale, per questi luoghi montani. Per cui, anche una gita in montagna, se la prendi come cosa straordinaria, lo diventa... è una cosa straordinaria come del resto tutta la natura. E, ancora, se vai in un posto, meglio se deserto (=voglio dire senza nessuno attorno...) Al mare con l’acqua stupenda, cristallina... beh, non puoi fare a meno di buttarti dentro, di diventarne parte. Poi, in questi posti isolati si può fare anche il bagno nudi: quanto è piacevole il contatto totale con l’acqua...!, in sostanza è una relazione, un patto di condivisione con l’ambiente.
 ...di libertà?
 Di libertà, certo. A questo proposito ora mi sovvengono dei ricordi strabilianti di posti nei quali sono stato, di posti in mezzo alla natura. Ricordo tra i tanti per es. di una gita in barca a vela in Messico, nel 1979, al largo dello Yucatan, di due o tre giorni, c’era un mare stupendo e, arrivati ad una isoletta (tra isla Blanca e Contoy), abbiamo cucinato facendo il fuoco con dei legnetti raccolti sull'isola, e abbiamo mangiato quello che il barcaiolo aveva pescato nel tragitto. Rimanevamo sempre nudi giorno e notte, e non so... c’era un affratellamento tra tutti e otto, una magia nello sdraiarsi a guardar le stelle ... ascoltare certi gridi di uccelli, i tonfi dei pesci che fanno dei salti, e lo sciabordio delle onde, il silenzio totale, certo è una emozione… qualcosa di più intenso che vedere una bella opera d'arte seppur molto bella... (cfr. http://viaggiareperculture.blogspot.it/2012/10/yucatan-3.html ). Quindi, la natura ti dà tantissimo, e se vuoi, la puoi trovare anche a poca distanza da casa… 


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