martedì 13 dicembre 2011

il tema del "doppio"

domenica 11 era uscita sul "Corriere della sera" questa recensione di Franco Cordelli dell'opera "Il nipote di Ramaeau" scritta da Denis Diderot tra il 1762 e il '73, trasposta per Teatro da Silvio Orlando, e che ha molto a che fare con le problematiche dell'identità:


Diderot contro il suo doppio

Con "Il nipote di Rameau" di Denis Diderot, adattato per la scena da Edoardo Erba e Silvio Orlando, che ne è interprete e regista, ci troviamo di fronte a tre personaggi in uno: l' autore, l' interprete e l' intermediario. Quest' ultimo nel testo viene designato come Lui ed è il realmente esistito Jean-François, nipote di Jean-Philippe, entrambi musicisti. Ma se Jean-Philippe è Rameau, Jean-François (benché compositore di una Raméide che ebbe una qualche diffusione) non è che il personaggio di Diderot, colui che nel Nipote si autodesigna come Io. Questo Io-Lui è subito di grande interesse: non già termini neutri, pura nomenclatura, ma anticipazione d' un tema del doppio che avrà grande fortuna nell' Ottocento e nel quale Freud vide una traccia dei due «desideri delittuosi» originari nell' uomo. Del racconto di Diderot, cominciato nel 1761 e portato a termine vent' anni dopo, la prima edizione è in lingua tedesca, tradotta nientemeno che da Goethe nel 1805: la copia gliel' aveva data Schiller, che a sua volta l' ebbe da Caterina II (Diderot aveva all' amica inviato il manoscritto). Un altro gigante tedesco che s' interessò del Nipote fu Hegel: egli lesse nelle parole del musicista fallito, nella sua spavalderia, nella sua deliberata volontà di inganno del prossimo «l' impudenza di enunciare questo inganno e dunque la verità suprema», ossia il nocciolo di quella che sarà la sua filosofia, la «negazione della negazione». Ma tutto questo bendidio culturale, che lo stesso Hegel avrebbe definito «fatuità della cultura», in che modo, o in chi, trova espressione? Diderot ci parla della sua abitudine, alle cinque del pomeriggio, di passeggiare verso il Palais Royal e, in caso di pioggia, di rifugiarsi nel caffè della Régence. Mentre guarda la gente giocare a scacchi incontra Jean-François, un avventuriero, un parassita, un cialtrone. I due intraprendono un dialogo. Il filosofo-scrittore ci appare piuttosto controllato, pieno di buon senso. Almeno in confronto al suo interlocutore: il quale è una furia, ne ha per tutto e per tutti, compreso sé stesso. Il «nipote» si dichiara uomo mediocre e discetta sulla questione verità-menzogna, e poi su quella che più gli sta a cuore, che differenza c' è tra il genio e la normalità: ma davvero sarebbe meglio essere uomo di specchiata virtù piuttosto che, come Racine, aver scritto Andromaca ed essere chiacchierato nel tempo suo e in quello venuto dopo? Se tutto fosse eccellente, risponde il saggio filosofo, nulla lo sarebbe. Ma per Jean-François ciò che importa è smascherare la pretesa di eccellenza, di onestà, di modestia: quanto orgoglio ci sia dietro ogni modestia! Egli odia tutti coloro che nascondono ciò che dicono, odia gli ipocriti. Ma amo Molière, aggiunge, perché m' insegna, se fossi un ipocrita, a parlare da ipocrita; e se fossi avaro, non mi nasconderei dietro qualche insignificante gesto di carità. Insomma il nipote di Rameau è il primo demistificatore della storia letteraria, un personaggio che sa distinguere tra la malvagità e il tono con cui essa viene raccontata. Per Diderot è una variante della sua idea fissa: che cos' è il «mostro»? Che cos' è un sordomuto? Che cosa l' eccezione rispetto alla regola? Questo, per venire all' interprete, penso sia ciò che ha attratto Silvio Orlando: una figura che gli offriva l' opportunità di operare variazioni «serie» sul tema della sregolatezza, della buffoneria, dello smisurato: quasi che ciò che aveva accennato nei suoi tanti personaggi potesse venire alla luce, rivelare una parte di sé, un suo vero, occulto sentimento. 
RIPRODUZIONE RISERVATA "Il nipote di Rameau" di Diderot/Orlando,  di Cordelli Franco

1 commento:

  1. Certo che, se ognuno agisse sempre e comunque in virtù del proprio “io ideale”, avremmo una collettività non più sociale; cancelleremmo le conquiste della paideia costate millenni; regrediremmo allo stadio dell’uomo che non concettualizzava ancora l’idea di educazione e viveva nel branco. Agire da “individuo”E essere “uomo” implica essere “saggio”; il saggio può vivere senza le leggi della polis; ma l’anarchia non è per tutti.
    gabriella

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