giovedì 27 marzo 2014

Walden

Qualcosa sul grande Padre di tutti gli spiriti avventurosi e amanti della natura e dei paesaggi vergini e incontaminati. Intendo Henry D. Thoreau (1817-62), autore di "Walden or Life in the Woods".

“Andai nei boschi perchè desideravo vivere con consapevolezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici; ( … ), volevo conoscerla con l’esperienza, e poterne dare un vero ragguaglio ”. (vedi foto più sotto. Da Walden, ovvero vita nei boschi (1854), di Henry D. Thoreau,  trad. it. edizioni Rizzoli, 1964, Bur, 1988, pagine 152-153.)
Thoreau ad un certo punto della sua vita decise nel 1845 di lasciare la sua città e andare a vivere nella natura incontaminata dell'America dei suoi tempi, per condurre una esistenza più salutare e gratificante. Si inoltrò nel territorio e si stabilì sulle rive del lago Walden Pond, dove si costruì una piccola casetta di legno isolata da tutti, nella quale visse per più di un anno e mezzo.
Si dedicò alla orticoltura e a piccole attività agricole per garantirsi il sostentamento, e così si immerse in un contesto di estrema semplicità, sostanzialmente autarchico, con tempi lenti e imparando a godere di grandiosi paesaggi e di piccole ma gratificanti soddisfazioni che lo tennero lontano dalle convenzioni  e dai ruoli della vita cittadina e della società frenetica e artefatta che vi domina. Il sopracitato libro, è il diario del suo eremitaggio, in cui durante i suoi raccoglimenti silenziosi in meditazione racconta le sue esperienze e le sue avventure in giro per la foresta e per territori sconfinati, incontrando solo alcuni rari e semplici esseri umani che vi si potevano incrociare. Sostanzialmente visse a contatto con gli alberi, gli animali, la terra, il cielo e pochi libri.
A proposito di narrazioni di viaggio, nei suoi scritti raccolti sotto al titolo di Reform Papers (ed. W.Glick, Princeton, 1973), scriveva: "Gli uomini di lettere, i direttori di giornale, e i critici pensano di saper scrivere perché hanno studiato Grammatica e Retorica, ma si sbagliano di grosso. L'arte della composizione è semplice come una esplosione (…) e i suoi pezzi forti implicano una forza ben più grande dietro di sé" pp. 150-1.
Il filosofo e poeta R.W. Emerson scrisse nei suoi Essays, del 1841, a proposito del senso che può dare alla nostra esistenza un contatto stretto con l'ambiente naturale: " L'Uomo possiede la dignità della vita che gli pulsa attorno, nella chimica, l'albero, l'animale, le involontarie funzioni del suo stesso corpo; tuttavia esita quando tenta di lanciarsi in questo cerchio incantato dove tutto è compiuto senza alcuna degradazione ". Molto probabilmente il trentenne Thoreau fu affascinato da testi come questo, e si volle appunto lanciare senza esitazioni.

Nathaniel Hawthorne scrisse di Thoreau (secondo quanto riporta E.Mather nel suo libro su N.H.): "…non è una persona facile. Di fronte a lui (a Thoreau) ci si vergogna del fatto stesso di avere dei soldi, di possedere magari due giacche, e persino di aver scritto un libro che viene comprato da molti…. a tal punto il suo stesso modo di vivere è critico di ogni altro modo di vita generalmente approvato."
Piero Sanavio (nella introduzione alla edizione sopra citata di "Walden") riporta anche una interessante riflessione radicale di Thoreau da un suo altro libro, "Le foreste del Maine" (tr.it. Milano, 1999): "L'angloamericano può tagliare tutta questa ondeggiante foresta e fare sui suoi resti un discorso politico (…) ma non può parlare con lo spirito dell'albero che abbatte, non sa leggere la poesia e la mitologia che, mentre lui avanza, recedono. Da ignorante qual'è, egli cancella Tavole mitologiche per stampare i suoi manifesti e volantini con l'ingiunzione a partecipare alla riunione municipale"…

Senz'altro ci ricorda il film "Into the Wild" (di Sean Penn, 2007), tratto dal romanzo-documento di J.Krakauer, "Nelle terre estreme" (tr.it. Rizzoli, 1997, poi Corbaccio) che è appunto il rapporto su una vicenda vera, finita malamente, descritta nel diario del giovane Christopher McCandless, e riportata come metafora del difficile e distorto rapporto della nostra società industriale con la natura.


venerdì 21 marzo 2014

le Ande dell'Ecuador

Al ritorno da Roma ho ripreso ad occuparmi di rivedere e ritoccare il mio vecchio diario di viaggio sulle Ande del Perù, di dieci anni fa, che avevo messo su questo blog
http://viaggiareperculture.blogspot.it/2011/07/diario-di-viaggio-in-peru-aprile-2004.html
per rivederlo e ritoccarlo ed ampliarlo (per poi forse pubblicarlo a fine anno con Este-Edition).

 Intanto come avevo già segnalato, il libro col diario di viaggio sulle Ande dell'Ecuador sta andando bene, è già esaurita la prima tiratura, ed ha fatto una prima e poi una seconda ristampa. (vedi i post di febbraio). (nota posteriore: ora purtroppo il volume è esaurito, si può trovare usato su e-Bay)
Dopo il successo della presentazione alla libreria Ibs di Ferrara, ne parlerò di nuovo, martedì 8 aprile al Dipartimento di studi umanistici di Ferrara, e lunedì 5 maggio alla Utef, l'università ferrarese per la formazione permanente degli adulti, in via Borsari 46, in aula D/5 al polo chimico-bio-medico nel pomeriggio. chiunque può venire sarà il benvenuto.

Vi anticipo due immagini di ragazze andine della provincia attorno al grande monte Chimborazo, della nazione indigena Puruhà (che è quella stessa dell'amico Pumaquero), di lingua kichwa. Immagini che già da sole ci dicono molto sui popoli andini.





cui aggiungo un ragazzino, forse un lustrascarpe, e poi dei bambini di Saraguro:



queste ultime due sono foto da: www.otonga.org

R o m a

cari amici, siamo stati 5 giorni a Roma, che è sempre bellissima e piena di cose da vedere, anche se il traffico è congestionatissimo e le distanze sono grandi. Prima di poter essere ospitati da nostri amici, abbiamo passato la prima notte in un bed&breackfast famigliare di fianco al parco di villa Ada, di nome "Anni50", in zona via Salaria (e lì abbiamo anche incrociato Paolo Villaggio). La mattina dopo Ghila è andata per farsi fare delle interviste per una trasmissione radio ("la luna e i falò") e per un canale televisivo Sky sul suo ultimo romanzo (ispirato all'amico Pumaquero). Poi ci siamo trasferiti da una nostra cara amica che sta a due passi da San Pietro. Abbiamo visitato sia monumenti antichi, come l' Ara Pacis (molto interessante ed esteticamente bella), che luoghi della Roma dell'Alto Medio Evo, cioè due chiese fondate nel 4° secolo, e con affreschi dell' VIII e IX sec. e con parti sotterranee con resti importanti (tra cui un bassorilievo relativo al culto di Mitra, e un bel sarcofago con la leggenda di Fedra). In una c'era la tomba di San Cirillo, e quella di San Clemente, con affreschi raffiguranti l'imperatrice Teodora, e la leggenda di Alessio. Insomma pezzi rari e di grande suggestione. Nella chiesetta dei Quattro Coronati, c'era anche un bel coro di suore di clausura. Dopo un giro sul colle del Celio, e alla chiesa di s.Giovanni e Paolo, abbiamo gironzolato in centro storico. E in precedenza avevamo rivisto la fontana di Trevi, anche lì assistendo -in una chiesetta in via dell'umiltà- ad un coro di monache. Infine siamo andati a Campo dei fiori, e poi a piazza Navona. Era primavera avanzata, con fiori, bel sole e cielo azzurro e una bella arietta. Insomma Roma non delude mai.



mercoledì 12 marzo 2014

il grande poeta Gioacchino Belli

il grande Gioacchino Belli (1791-1863), noto poeta in dialetto romanesco , scrisse questo sonetto:

C'era 'na vorta un Re, che dar palazzo
mannò fora a li popoli st'editto:
io so' io, e vvoi nun zete un cazzo,
Sori Vassalli bbugiaroni, e zzitto!
io fo dritto lo storto, e storto er dritto;
pozzo vendeve a tutti a un tanto er mazzo;
io si vv'impicco nun ve fo strapazzo
ché la vita e la roba io ve l'affitto.
Chi abbita a 'sto monno senza er titolo
o dde Papa o dde Re o dd'Imperatore,
cuello nun pô avé mmai voce 'n capitolo.
Co st'editto annò er boja pe' curiero
a interrogà la ggente in zur tenore
e arrisposero tutti: è vero! è vero!



(da giovedì mattina a lunedì sera io annalisa e ghila saremo a Roma)

giovedì 27 febbraio 2014

:-) ancora sul libro (5)

ciao a voi, volevo solo esternare una soddisfazione: il libro "il viandante e lo sciamano" ha già esaurito la prima tiratura, e la seconda ed ora è in stampa una terza. 

Come già vi dicevo contiene tra l'altro i resoconti di interessantissimi colloqui avuti in Ecuador sul tema della cultura tradizionale andina, che si è in parte mantenuta e perpetuata nel tempo, tramandata dagli indios nonostante l'imperante cultura ispanica. 
Si riferisce dell'incontro con Pintag Saransig (che ci ha condotti a visitare i luoghi sacri indigeni nell'area di Otavàlo), con padre Onore, professore di entomologia (che ci ha dato un'idea dei gravi problemi economici-sociali ed ambientali del Paese), con il preside di scuola Quizhpe e la sua famiglia del popolo di Saraguro, col dottor Salazar (che ci ha illustrato i problemi politici e istituzionali delle minoranze in questo frangente storico), con l'amico Pumaquero (che ci ha fatto comprendere la cultura e la spiritualità della popolazione di lingua kichwa), con il fondatore di una scuola libertaria, il direttore prof.Vacacela, e con altri interessanti personaggi incontrati viaggiando nell'area delle Ande.
il preside Quizhpe e la moglie, con Ghila

a cena a casa loro

Il libro lo si trova nelle principali librerie, o si può anche acquistarlo direttamente alla sede delle edizioni in via Mazzini 47 a Ferrara (tel. 0532 206734) , oppure lo si può ordinare per mail (libri@este-edition.com), o farselo mandare a casa per posta con pagamento contrassegno alla ricevuta (costa 15€). Vedi la presentazione in quattro post di febbraio in questo blog.



Purtroppo, per vari motivi, non vi sono che solo poche immagini, perciò vi segnalo che eventualmente altre foto le potete vedere sulla mia homepage :

http://utenti.unife.it/carlo.pancera/mywebalbum/index.html
o anche  http://utenti.unife.it/carlo.pancera/testi/altri.htm
cliccando su "Reportage fotografico"

(oppure ve ne sono alcune anche sulla mia pagina Facebook).

il viandante e lo sciamano 4

concludo la trascrizione della registrazione fatta durante il dibattito alla libreria Ibs l'altra sera.


la Reggitora della grande casa contadina, la Mamà di Pintag

sèguito del mio intervento:
Questa cultura kichwa del Nord delle Ande, è veramente altra rispetto alla nostra, è veramente complessa e quindi difficile da penetrare. Anche in questo caso mi ero posto dei problemi all'inizio della stesura del testo: come faccio a incominciare a parlare di una cosa che probabilmente chi legge non conosce per nulla, non ne sa assolutamente niente? dovrei cominciare a spiegare tante cose, a partire dal fatto che le persone con cui si parla spesso non sanno lo spagnolo, se non lo stretto necessario, o lo sanno malamente. Qui si parla il kichwa, che è la variante settentrionale del quechua, c'è tutta una storia che percorre tutta la Modernità, l'Età Moderna, dato che queste popolazioni furono sottomesse dai conquistatori, eccetera eccetera, sarebbe troppo, non avrebbe senso… L'unica via è fare entrare, fare entrare in una atmosfera, introdurre nel senso etimologico del termine, iniziare a questo mondo altro e alla sua forma mentis. Ecco che arrivo al tema accennato da Anita Gramigna nel suo intervento di apertura e nella sua domanda sulla questione dell'onirico. Ecco in effetti si può incominciare a introdurre il lettore, comunicando delle sensazioni, delle emozioni, una atmosfera, rendere partecipi (nella misura in cui io posso essere capace dato che non sono certo uno scrittore, tutt'altro) con queste modalità, avviare una compartecipazione empatica pian pianino, man mano che si va sempre più a fondo dentro a questo percorso in un contesto culturale "altro",

e sopratutto far capire la differenza che c'è nel guardare ciò che ci circonda a seconda di qual'è lo schema, il paradigma in campo, quale è la forma mentis da cui si guarda. Io mi sono accorto che queste sono state proprio le prime esperienze introduttive che abbiamo fatto. E quello che guardandomi attorno a me sembrava di vedere, non era propriamente quel che c'era da vedere, chi ci accompagnava ci ha aiutato a vedere coi loro occhi, ed è allora che ho scoperto un mondo che mi stava attorno. Ho scoperto appunto che non avevo visto le cose che pur avevo guardato, e dunque qua c'è un po' il tema dell'onirico su cui mi sollecitavi.

Anita: La narrazione è anche una forma del pensiero, è uno "stratagemma" per realizzare la conoscenza… quindi ha un valore pedagogico immenso, al di là dei contenuti che contiene. Ora, diceva prima Carlo giustamente, tutto è collegato, e questo libro nelle sue varie parti compie dei richiami tra esse continuamente, nel ricercare una unitarietà nella differenza, perché è un libro densamente estetico, non solo e non tanto perché insegue il principio della bellezza, che è anche presente questo, ed è un "bel libro", sia per come è scritto, sia perché è piacevole, e quindi insegue in questo senso un principio di bellezza e di piacere. Ma è estetico anche dal punto di vista di una sensibilità relazionale, poiché a noi piace una cosa quando ne cogliamo l'armonia o la disarmonia tra le sue varie parti, altrimenti non capiamo nulla.

E quindi è una estetica quella del libro, che utilizzando la metafora, e le immagini, come compare sopratutto nel linguaggio di Ghila ma anche quello di Carlo, è una estetica che introduce -attraverso anche il linguaggio del sogno e dell'onirico, del sogno come desiderio, del sogno ad occhi aperti, ma anche del sogno sognato, relativo a quelle immagini strane che circolano nella nostra mente quando dormiamo- è una estetica che preannuncia la spiritualità. Quindi questo testo con i suoi vari linguaggi ci pone di fronte al tema della religione, della trascendenza, della spiritualità. Con soluzioni assolutamente differenti, ed è questo il bello del libro anche, non ci da solo una visione, unica.
Ecco è di questo che vorrei che ora Ghila ci parlasse, soprattutto in riferimento al tema del "Grande Albero", che cos'è il grande albero? che senso ha?

Ghila: E' proprio una delle cose più importanti che ho scoperto durante questo viaggio, perché una delle grandi differenze sta proprio nell'approccio alla spiritualità rispetto a quello che abbiamo noi in occidente. Approccio che mi è sembrato molti più aperto a diverse concezioni e aspetti della stessa religiosità. Approccio che ho vissuto in modo molto intimo. Mentre ero lì innanzitutto questa loro spiritualità l'ho sentita, senza dover aggiungere delle parole di spiegazione, e questo forse è ciò che ho cercato di trasmettere in quel racconto, "Il Grande Albero"(pagg.50-53). Ed è poi anche quella caratteristica che diceva prima papà: il sentire. E questa è l'impressione che spero che il racconto produca. Per cui nell'esperienza che ho fatto con il grande albero, che poi come le altre, per me in quanto autrice di narrativa sono dei pretesti. L'esperienza diretta, specifica del viaggio non è precisamente quel che mi interessa raccontare. Piuttosto, appunto con la metafora, quel che vi è di più generale, se così si può dire, di più significativo. Quindi poi non importa tanto capire a quale personaggio specifico ci si riferisca, anche se può avere i suoi aspetti anche divertenti capire le caratteristiche di ogni personaggio. Per quanto riguarda ad es. il grande albero, lì si tratta di una spiritualità che io ho sentito venire allo stesso tempo da fuori e da dentro, nel senso che sono le "cose" anche che ti parlano, le cose con cui noi in questo mondo solitamente non ci rapportiamo molto… quindi l'incontro vero e proprio con un albero come essere, è come nell'incontrare una persona. Ci sono anche parti narrative nel pezzo diaristico perché riportano anche storie tradizionali, leggende, che mi sembra tutte o quasi raccontino che gli elementi della natura, gli alberi, le montagne, parlano, interagiscono, hanno una essenza, un'anima, per cui questa è anche una dimensione educativa. La mia sensazione è questa. Io sono stata educata in questo viaggio e in tutti gli altri che ho fatto, dalle cose, non solo dalle parole delle persone e dalle relazioni con le persone, ma per me, come lo è per loro, ad es. il grande albero è davvero un Maestro, che mi ha insegnato qualcosa, comunicandomela ad un altro livello rispetto alle parole. 

L'editore Roversi chiede al pubblico se vogliono fare un intervallo per porre delle domande, ma le persone dicono di proseguire pure, quindi ridà la parola alla prof.sa Gramigna.
Anita: vorrei dare una chiave di lettura prima di ripassare il microfono a Carlo: ma riguardo a te -che sei stato tra l'altro anche il mio maestro- c'è in te una "spiritualità laica", non è vero? che qui è quella di chi scrive. E questa è una cosa molto interessante, una spiritualità, una sensibilità che si incontra, si  confronta, rimane spiazzata, si riconfronta, si ricodifica, e trova una sua cifra… Questo ritengo sia molto interessante.

riprendo io: Leggerei una paginetta per rispondere. Dunque qua (a pag.100) ci troviamo con una persona di campagna, che ci ha ricevuto nella sua casona dove vive con la sua grande famiglia allargata nel paesino di Peguche, e che ci era stata consigliata perché appunto ci avrebbe potuto introdurre alla spiritualità andina e portarci a visitare luoghi significativi. Questa persona si chiama Pintag Saransig, quindi come vedete il nome non è molto latino, qui sono quasi tutti di lingua kichwa, ma sa parlare bene spagnolo essendo uno dei pochi indios laureati, allora lui ci dice: domani vi porto a vedere un albero… Un albero, perché quell'albero è particolare. Andremo prima a comprare le offerte da portargli, poi chiederemo il permesso all'albero di poterci sedere a terra in cerchio attorno a lui, e mediteremo.
"Dunque, dopo un po' di strada sterrata su per una collina…." (leggo le pagg. 100-101, §.9, "l'albero sacro", vedi anche la foto di p. 151) dove si riporta sia la leggenda della principessa Nina Paccha e del suo innamorato che infine diventa albero, e anche il mito dei due monti che si fronteggiano, si guardano e si sentono attratti l'un l'altro.


Ecco in questa prima visita io ho capito alcune cose importanti: che non avevo capito niente, e ho capito anche che cosa avevo sbagliato, che cosa non ero stato in grado di vedere, e infine quale era il senso di essere lì. Perché "ovviamente" io inizialmente che cosa avevo guardato? questa bella collina col suo bel prato, da cui si gode un panorama bellissimo, poi ho guardato com'era bello il laghetto, con le donne che lavavano i panni, e poi le due montagne, e magari mi è anche interessato venire a sapere che quello era alto 4600 metri (cioè come il nostro Monte Rosa), e l'altro niente di meno che 4940 (più del Monte Bianco), wow!, …. ma tutto ciò non ci dice niente!, non significa nulla, perché questo è un luogo sacro… e allora che cosa eravamo venuti qua a fare? e sono proprio questi racconti, questi miti, queste leggende, queste favole, che popolano il luogo, che pullulano tutt'attorno, che danno un senso al luogo, alle cose che vedi, sono dei riferimenti, conferiscono un ordine al Mondo. Danno un significato anche al fatto che tu sei arrivato fin là, e allora là cominci a capire… allora puoi comprendere che questo albero è sacro, che è un testimone, che questo luogo è il Padre di tutto quel popolo (gli Otavàlo),  che il laghetto ha profondità abissali, e la montagna nasconde tesori nel suo interno che è fuori dal tempo, e quindi cominci a sentire circolare queste comunicazioni. Ecco di nuovo il tema dell'onirico…..
Vi rinvio ad una favola degli indios del luogo, relativa al laghetto: ...nei tempi primordiali "viveva un gigante così alto che scopava i ciuffi delle nuvole con i capelli, per cui era convinto che non avrebbe mai trovato un lago in cui fare il bagno. Quando vide lo Imba cocha non gli diede alcuna importanza, ma tanto per accertarsi entrò coi piedi nelle sue acque. Non solo procedette per tastare il fondo, che non trovò,ma tutto il suo corpo stava sprofondando in acqua . Resosi conto di quel che avrebbe potuto accadere, cercò un appiglio, e si afferrò a una roccia vicina alla cima del monte Taita Imbabura, e lo fece con tal forza che un dito perforò la vetta, come si può ancora adesso constatare. Perciò si racconta che questo monte soffra ogni tanto di mal di testa; in quei momenti si lega la fronte con un fazzoletto di nuvole, e quando il dolore cessa il fazzoletto vola via col vento, e si può vedere tutta la luce attraverso la magica finestra, con uno sfondo di cielo azzurro, e un passato che si perde all'infinito". (cfr. p. 175, nota 48).

L'editore Roversi chiede ora alla prof.sa Gramigna di concludere la serata con un ultimo suo intervento.
Anita: Il libro dovete leggerlo per togliervi le curiosità che ora sono sorte ascoltando questa bella lettura, e per il desiderio che forse è sorto di venire a contatto con punti di vista altri. Vorrei dirvi qual'è a mio parere un'altra "cifra" di questo volume così affascinante, proprio sulla suggestione delle cose che prima diceva Ghila e che poi ha spiegato anche Carlo: questo libro, prima di spiegare delle cose (prima sia in senso temporale che in senso logico), ci insegna comprendere, per questo è un libro umile, vuole comprendere prima che spiegare, il che è a mio avviso il miglior modo di fare educazione -e io credo che questo sia un elemento importante di riflessività della Pedagogia-. E poi un altro elemento di grandissimo interesse dentro a questa cifra che caratterizza a mio parere il volume, è che ci insegna a comprendere ma prima ancora che comprendere, a sentire che le cose, tutte le cose, hanno una loro energia, ed è per questo che l'albero è considerato sacro, perché partecipa di una energia vitale che è la stessa energia che anima la nostra esistenza, i nostri sogni, pensieri, desideri, timori (e anche i nostri incubi), ed è per questo che tutto è legato…. E volevo aggiungere anche che il libro è intensamente estetico, perché riflette e induce una sensibilità relazionale. Alla fine di questo libro saremo persone differenti.
fiera del bestiame

martedì 25 febbraio 2014

viandante e sciamano 3

Proseguo nel riportarvi quanto venne detto l'altro giorno alla libreria IBS in occasione della presentazione del libro.


intervento mio:
Buonasera e grazie per essere venuti. Anch'io non vi parlerò degli aspetti di carattere pedagogico e didattico, che non penso si addicano alla situazione. In effetti io suppongo che vi possano essere piuttosto altri motivi per cui la maggior parte di voi è venuta qua stasera. Secondo me i motivi sono essenzialmente due (e se poi vorrete smentirmi sarà interessante chiacchierarne) il primo motivo è il titolo, che è stata una trovata straordinaria di Ghila, ed è -come si diceva- preso dal titolo di uno dei suoi racconti qui inclusi. In effetti è attraente e accattivante un titolo come "il viandante e lo sciamano" perché coniuga la dimensione del viaggio, che in questo modo, con il termine "viandante", già subito diventa qualcosa che non è semplicemente relativa a compiere un viaggio o ad andare a visitare un altro Paese, perché il viandante è colui che, lentamente quanto è necessario, è lì per cercare di cogliere qualcosa, per osservare, è lì per fare una sua esperienza, è lì per trovare qualcosa che sta cercando, non è lì solo per vacanza o turismo …  e poi lo sciamano... e questo termine agganciato a viandante, ci da subito quella dimensione dell' alterità, dell'esotico, della lontananza, ci da subito la percezione di una distanza e differenza culturale, e allora forse a qualcuno è sorta la curiosità di voler sapere qualcosa su questo sciamano o ha pensato che forse questo libro ci dice qualcosa su chi sono gli sciamani ….

E l'altro motivo forse può essere che tra voi ci sono persone appassionate di conoscenze su culture diverse, oppure appassionate appunto di viaggi, e che vorrebbero sentire raccontare di paesi e popoli lontani, e sono rimaste attratte anche dal sottotitolo "diario di viaggio e formazione tra le Ande dell'Ecuador", e in effetti io vorrei qui parlarvi piuttosto di queste cose. Anche se -come giustamente ricordava l'editore Riccardo Roversi aprendo la serata- tutto è partito da una proposta da parte di Anita Gramigna che mi sollecitò a cercare di riflettere su quanto un testo narrativo, inteso in senso ampio, possa essere utilizzato in un corso universitario di pedagogia, riferendosi nello specifico a questo mio racconto di viaggio. 

Però appunto non vorrei ora soffermarmi su queste questioni, perché credo che non sia questa la sede né il pubblico, in quanto stasera credo che le persone siano venute qui più che altro per quei motivi che accennavo all'inizio.
Però poi in realtà tutto si lega, altrimenti cosa c'entrerebbe il viandante, cioè uno che lascia il luogo in cui si trova, in cui vive, lascia il contesto che gli è consueto, in cui a fatica, crescendo, ha imparato a muoversi, a capire il senso delle cose, su cui ha imparato a riflettere…. Poiché il viandante è questo, è uno che lascia il suo mondo, appositamente per andare a cercare qualche cosa che sia fuori dai consueti schemi; e poi che cosa c'entrerebbe appunto lo sciamano se non proprio alludendo al fatto che (e questo è anche un primo dato che mi sento di dare per rispondere all'interrogativo di prima: che cosa si intende qui con sciamano?)  è un personaggio che vive la totalità, cioè che è profondamente coinvolto in una visione in cui tutto è legato, una cosmovisione. Anche se poi forse si potrebbe dire che aver scelto questa denominazione per riferirsi ad una varietà di personaggi locali diversi tra loro con cui siamo entrati in relazione e dialogo, è un po' arbitrario, anche se si trattava di personaggi straordinari (ma che non sempre gradirebbero essere etichettati in questo modo…) che sicuramente però condividono questo elemento del concepire il Tutto come composto da strette reti di relazioni e in costante reciproca interconnessione.
Pumaquero

Ora veniamo al tema del viaggio, perché sicuramente qui si tratta specificamente del tema del viaggiare! Questo che è qui raccontato, è un viaggio che si è ovviamente svolto in un luogo, in un Paese lontano, ma che è stato sopratutto un viaggio in una cultura, compiuto per cercare di entrarci dentro. E comunque ovviamente si è svolto anche andando a vedere e visitare quel che là c'è da visitare, e a guardare i paesaggi straordinari che ci sono da guardare, ma soprattutto era inteso per cercare di introdursi dentro ad un mondo, ad una cultura, che in questo caso (e questo era uno degli interrogativi prima di partire, quando ancora si trattava di scegliere dove andare: che cosa andiamo a fare laggiù? perché andare proprio là? cosa vogliamo fare, cosa vorremmo cercare?), in questo caso erano gli indios andini. Loro non gradiscono in realtà essere ancora chiamati così, ed anche questo è un primo punto, una prima informazione, o scoperta… piuttosto preferiscono essere chiamati indigeni, o aborigeni, o indoamericani, in particolare indigeni delle Ande. E dunque siamo partiti nella supposizione-speranza che ancora si potesse trovare viva la cultura andina autoctona. Era una scommessa. In altri paesi in cui abbiamo viaggiato, e girato, in vari continenti, il processo di… chiamiamola "modernizzazione" in atto, o comunque di omologazione sul piano culturale, che sta avanzando con gran forza, prospetta un futuro non lontano, un po' troppo poco differenziato a livello planetario, un po' troppo "omogeneizzato" rispetto al modello occidentale che funge da grande livellatore delle differenze esteriori. E invece in questo caso si è rivelato un viaggio veramente fruttuoso, perché abbiamo potuto incontrare delle persone, e visitare i posti che queste persone ritenevano essere quelli più significativi per comprendere quella cultura specificamente andina che ancora sopravvive, e quindi posso dire che "il viandante" ha trovato il suo percorso. Con Anita già abbiamo curato assieme la pubblicazione, tra le altre, di un testo, "Ermeneutica dell'educazione" (Unicopli editrice), in cui nel mio contributo, mi rifaccio a quella famosa poesia di Machado in cui si dice che "il cammino si fa nell'andare", cioè che un percorso significativo per la nostra maturazione interiore è un qualcosa che si vien facendo nel momento in cui ci si mette in cammino, e che si costruisce man mano che si procede. 

Ecco, allora in questo caso, così appunto è successo Per cui che cosa contiene questo libro? contiene un diario, dei racconti e suggerimenti o suggestioni per facilitare una operazione ermeneutica. Un diario di viaggio, sì è certamente scritto in modo non saggistico, però la sua modalità non è propriamente narrativa in senso pieno, intesa come il romanzesco, come fiction, e non è neanche narrativa nel senso in cui lo sono veramente i tre racconti di Ghila, che appunto sono dei racconti nel senso più pieno della parola, per cui lei ha preso stimolo, ha preso spunto per svolgere liberamente una sua narrazione. Mentre un diario di viaggio è anche una cronaca in cui, come in questo caso, si racconta quello che effettivamente è successo, quello in cui ci si è imbattuti, quel che si è incontrato, e quel che ci si è realmente detti con le persone con cui si sono scambiati alcuni elementi profondi, di valore, di significanza culturale, che meritano di essere riportati e ricordati. 
Allora avevo un pochino il timore che un diario come quello che ho scritto in quel viaggio potesse essere un qualcosa di un po' troppo specifico, e fosse di interesse quasi esclusivamente per viaggiatori, mentre invece Anita mi ha incoraggiato dicendomi che non era solamente così… e che poteva benissimo essere  compreso come un viaggio di conoscenza e di formazione. Aveva apprezzato il fatto che è denso di informazioni fornite in modo discorsivo e scorrevole, che con questo approccio, introducono ad una maggiore conoscenza di quella cultura, e denso di riflessioni su quella spiritualità che riteneva profonde e stimolanti.
Dunque in effetti, se a qualcuno ora può esser sorta la curiosità di leggerlo, ebbene le "chiavi di lettura" cui appunto accennava anche Anita prima, sono per me principalmente i simboli e la metafora. Un po' tutto quello che lì racconto, non solo è effettivamente accaduto, ed è rispondente a quello che abbiamo fatto e detto, ma prende maggior senso se letto in quanto metafora di qualcosa di più ampio e profondo,
la Tawa Chakana, o croce scalinata andina

perché? perché il viandante (che non ero solo io, ma in realtà eravamo in tre: io, Annalisa e Ghila, era un "viandante trino"…) sta facendo un percorso tutto suo. Cioè quello è non solo il diario di cose viste e fatte, ma in realtà lo è di ciò che accadeva man mano che vedevo, vedevamo, e facevo determinate cose e incontravo certe persone, che dice quel che ciò suscitava in me, in noi, allora è anche un po' una auto-analisi in un ceto senso. Cosa sono andato lì a fare? di cosa sono andato in cerca? sono sufficientemente aperto e disponibile a lasciarmi cambiare da tutto ciò? è sufficiente che io voglia, che io parta con questo intento (e dico proprio intento anziché solo intenzione) di compiere un percorso che alla fine mi abbia fatto diventare un po' diverso, un po' altro, più comprensivo rispetto a quando sono partito. E' sufficiente? oppure come si fa? come si fa a farsi implicare, a farsi coinvolgere? E mi sono rifatto alla interpretazione che Josef Campbell da del "viaggio dell'eroe".
E allora in questo senso mi sembra che questo libro possa anche avere interesse in campo formativo, essendo stato questo un percorso di formazione, proprio come è detto nel sottotitolo. Di formazione perché? che cos'è la formazione? è qualcosa che si innesca nella misura in cui ci si mette alla prova di fronte a ciò che è imprevisto o che comunque è altro rispetto al consueto. E quindi lo specchiarsi in un'altra cultura, l'andare a cercare (se posso esprimermi in questo modo) il massimo della differenza, ha senso proprio per il confrontarsi con quella. Ed è difficile. Poi si mettono dentro nel nostro mondo interiore dei semi che magari germoglieranno molto lentamente col tempo. E per quanto si faccia un viaggio lento, comunque non è detto che si comprenda veramente quel che sta smuovendosi dentro man mano che le cose accadono, spesso ce ne si rende conto dopo il ritorno, con lo sguardo del poi, con gli occhi del dopo…
al mercato degli animali e del bestiame fuori Otavalo

Ma, come dicevo, è anche leggibile semplicemente come un diario di viaggio convenzionale, nel senso che se voi vi siete incuriositi di voler sapere qualcosa su che cos'è la cultura india delle Ande, qua trovate degli spunti, degli stimoli. E allora torno però di nuovo alla problematica pedagogica: che cosa incide di più in un lettore, un fruitore, un auditore, se vogliamo comunicare per esempio, appunto, come "è fatta" una cultura "altra"? un'opera saggistica, che in seguito a una grande riflessione, ad una analisi, ad un tentativo di sistematizzazione di dati, condensa e dice subito e a chiare lettere qual'è la valutazione che l'autore è arrivato a formulare su quella data ricerca da lui compiuta? oppure -per essere meno autoritaristici- un racconto, un racconto di un percorso, riferito in modo discorsivo? perché appunto qui io più che altro racconto di discorsi che abbiamo fatto con queste varie persone. E poi si lascia a ciascuno valutare, si mostrano determinate situazioni che si possono ritenere paradigmatiche o comunque significative, che possano costituire degli inputs, possano costituire degli stimoli, possano sorprendere magari, possano "stranire" in un certo senso, e si lascia a chi ne sta fruendo la libertà di rielaborare ciò che vuole raccogliere, e dunque -non solo rispettando il suo percorso, che è sempre individuale, così come è individuale il mio- rispettando il percorso di ciascuno, fornire gli strumenti perché si possa compiere la propria rielaborazione, che è quella che per noi dota di senso il discorso complessivo.



(continua)