giovedì 27 febbraio 2014

il viandante e lo sciamano 4

concludo la trascrizione della registrazione fatta durante il dibattito alla libreria Ibs l'altra sera.


la Reggitora della grande casa contadina, la Mamà di Pintag

sèguito del mio intervento:
Questa cultura kichwa del Nord delle Ande, è veramente altra rispetto alla nostra, è veramente complessa e quindi difficile da penetrare. Anche in questo caso mi ero posto dei problemi all'inizio della stesura del testo: come faccio a incominciare a parlare di una cosa che probabilmente chi legge non conosce per nulla, non ne sa assolutamente niente? dovrei cominciare a spiegare tante cose, a partire dal fatto che le persone con cui si parla spesso non sanno lo spagnolo, se non lo stretto necessario, o lo sanno malamente. Qui si parla il kichwa, che è la variante settentrionale del quechua, c'è tutta una storia che percorre tutta la Modernità, l'Età Moderna, dato che queste popolazioni furono sottomesse dai conquistatori, eccetera eccetera, sarebbe troppo, non avrebbe senso… L'unica via è fare entrare, fare entrare in una atmosfera, introdurre nel senso etimologico del termine, iniziare a questo mondo altro e alla sua forma mentis. Ecco che arrivo al tema accennato da Anita Gramigna nel suo intervento di apertura e nella sua domanda sulla questione dell'onirico. Ecco in effetti si può incominciare a introdurre il lettore, comunicando delle sensazioni, delle emozioni, una atmosfera, rendere partecipi (nella misura in cui io posso essere capace dato che non sono certo uno scrittore, tutt'altro) con queste modalità, avviare una compartecipazione empatica pian pianino, man mano che si va sempre più a fondo dentro a questo percorso in un contesto culturale "altro",

e sopratutto far capire la differenza che c'è nel guardare ciò che ci circonda a seconda di qual'è lo schema, il paradigma in campo, quale è la forma mentis da cui si guarda. Io mi sono accorto che queste sono state proprio le prime esperienze introduttive che abbiamo fatto. E quello che guardandomi attorno a me sembrava di vedere, non era propriamente quel che c'era da vedere, chi ci accompagnava ci ha aiutato a vedere coi loro occhi, ed è allora che ho scoperto un mondo che mi stava attorno. Ho scoperto appunto che non avevo visto le cose che pur avevo guardato, e dunque qua c'è un po' il tema dell'onirico su cui mi sollecitavi.

Anita: La narrazione è anche una forma del pensiero, è uno "stratagemma" per realizzare la conoscenza… quindi ha un valore pedagogico immenso, al di là dei contenuti che contiene. Ora, diceva prima Carlo giustamente, tutto è collegato, e questo libro nelle sue varie parti compie dei richiami tra esse continuamente, nel ricercare una unitarietà nella differenza, perché è un libro densamente estetico, non solo e non tanto perché insegue il principio della bellezza, che è anche presente questo, ed è un "bel libro", sia per come è scritto, sia perché è piacevole, e quindi insegue in questo senso un principio di bellezza e di piacere. Ma è estetico anche dal punto di vista di una sensibilità relazionale, poiché a noi piace una cosa quando ne cogliamo l'armonia o la disarmonia tra le sue varie parti, altrimenti non capiamo nulla.

E quindi è una estetica quella del libro, che utilizzando la metafora, e le immagini, come compare sopratutto nel linguaggio di Ghila ma anche quello di Carlo, è una estetica che introduce -attraverso anche il linguaggio del sogno e dell'onirico, del sogno come desiderio, del sogno ad occhi aperti, ma anche del sogno sognato, relativo a quelle immagini strane che circolano nella nostra mente quando dormiamo- è una estetica che preannuncia la spiritualità. Quindi questo testo con i suoi vari linguaggi ci pone di fronte al tema della religione, della trascendenza, della spiritualità. Con soluzioni assolutamente differenti, ed è questo il bello del libro anche, non ci da solo una visione, unica.
Ecco è di questo che vorrei che ora Ghila ci parlasse, soprattutto in riferimento al tema del "Grande Albero", che cos'è il grande albero? che senso ha?

Ghila: E' proprio una delle cose più importanti che ho scoperto durante questo viaggio, perché una delle grandi differenze sta proprio nell'approccio alla spiritualità rispetto a quello che abbiamo noi in occidente. Approccio che mi è sembrato molti più aperto a diverse concezioni e aspetti della stessa religiosità. Approccio che ho vissuto in modo molto intimo. Mentre ero lì innanzitutto questa loro spiritualità l'ho sentita, senza dover aggiungere delle parole di spiegazione, e questo forse è ciò che ho cercato di trasmettere in quel racconto, "Il Grande Albero"(pagg.50-53). Ed è poi anche quella caratteristica che diceva prima papà: il sentire. E questa è l'impressione che spero che il racconto produca. Per cui nell'esperienza che ho fatto con il grande albero, che poi come le altre, per me in quanto autrice di narrativa sono dei pretesti. L'esperienza diretta, specifica del viaggio non è precisamente quel che mi interessa raccontare. Piuttosto, appunto con la metafora, quel che vi è di più generale, se così si può dire, di più significativo. Quindi poi non importa tanto capire a quale personaggio specifico ci si riferisca, anche se può avere i suoi aspetti anche divertenti capire le caratteristiche di ogni personaggio. Per quanto riguarda ad es. il grande albero, lì si tratta di una spiritualità che io ho sentito venire allo stesso tempo da fuori e da dentro, nel senso che sono le "cose" anche che ti parlano, le cose con cui noi in questo mondo solitamente non ci rapportiamo molto… quindi l'incontro vero e proprio con un albero come essere, è come nell'incontrare una persona. Ci sono anche parti narrative nel pezzo diaristico perché riportano anche storie tradizionali, leggende, che mi sembra tutte o quasi raccontino che gli elementi della natura, gli alberi, le montagne, parlano, interagiscono, hanno una essenza, un'anima, per cui questa è anche una dimensione educativa. La mia sensazione è questa. Io sono stata educata in questo viaggio e in tutti gli altri che ho fatto, dalle cose, non solo dalle parole delle persone e dalle relazioni con le persone, ma per me, come lo è per loro, ad es. il grande albero è davvero un Maestro, che mi ha insegnato qualcosa, comunicandomela ad un altro livello rispetto alle parole. 

L'editore Roversi chiede al pubblico se vogliono fare un intervallo per porre delle domande, ma le persone dicono di proseguire pure, quindi ridà la parola alla prof.sa Gramigna.
Anita: vorrei dare una chiave di lettura prima di ripassare il microfono a Carlo: ma riguardo a te -che sei stato tra l'altro anche il mio maestro- c'è in te una "spiritualità laica", non è vero? che qui è quella di chi scrive. E questa è una cosa molto interessante, una spiritualità, una sensibilità che si incontra, si  confronta, rimane spiazzata, si riconfronta, si ricodifica, e trova una sua cifra… Questo ritengo sia molto interessante.

riprendo io: Leggerei una paginetta per rispondere. Dunque qua (a pag.100) ci troviamo con una persona di campagna, che ci ha ricevuto nella sua casona dove vive con la sua grande famiglia allargata nel paesino di Peguche, e che ci era stata consigliata perché appunto ci avrebbe potuto introdurre alla spiritualità andina e portarci a visitare luoghi significativi. Questa persona si chiama Pintag Saransig, quindi come vedete il nome non è molto latino, qui sono quasi tutti di lingua kichwa, ma sa parlare bene spagnolo essendo uno dei pochi indios laureati, allora lui ci dice: domani vi porto a vedere un albero… Un albero, perché quell'albero è particolare. Andremo prima a comprare le offerte da portargli, poi chiederemo il permesso all'albero di poterci sedere a terra in cerchio attorno a lui, e mediteremo.
"Dunque, dopo un po' di strada sterrata su per una collina…." (leggo le pagg. 100-101, §.9, "l'albero sacro", vedi anche la foto di p. 151) dove si riporta sia la leggenda della principessa Nina Paccha e del suo innamorato che infine diventa albero, e anche il mito dei due monti che si fronteggiano, si guardano e si sentono attratti l'un l'altro.


Ecco in questa prima visita io ho capito alcune cose importanti: che non avevo capito niente, e ho capito anche che cosa avevo sbagliato, che cosa non ero stato in grado di vedere, e infine quale era il senso di essere lì. Perché "ovviamente" io inizialmente che cosa avevo guardato? questa bella collina col suo bel prato, da cui si gode un panorama bellissimo, poi ho guardato com'era bello il laghetto, con le donne che lavavano i panni, e poi le due montagne, e magari mi è anche interessato venire a sapere che quello era alto 4600 metri (cioè come il nostro Monte Rosa), e l'altro niente di meno che 4940 (più del Monte Bianco), wow!, …. ma tutto ciò non ci dice niente!, non significa nulla, perché questo è un luogo sacro… e allora che cosa eravamo venuti qua a fare? e sono proprio questi racconti, questi miti, queste leggende, queste favole, che popolano il luogo, che pullulano tutt'attorno, che danno un senso al luogo, alle cose che vedi, sono dei riferimenti, conferiscono un ordine al Mondo. Danno un significato anche al fatto che tu sei arrivato fin là, e allora là cominci a capire… allora puoi comprendere che questo albero è sacro, che è un testimone, che questo luogo è il Padre di tutto quel popolo (gli Otavàlo),  che il laghetto ha profondità abissali, e la montagna nasconde tesori nel suo interno che è fuori dal tempo, e quindi cominci a sentire circolare queste comunicazioni. Ecco di nuovo il tema dell'onirico…..
Vi rinvio ad una favola degli indios del luogo, relativa al laghetto: ...nei tempi primordiali "viveva un gigante così alto che scopava i ciuffi delle nuvole con i capelli, per cui era convinto che non avrebbe mai trovato un lago in cui fare il bagno. Quando vide lo Imba cocha non gli diede alcuna importanza, ma tanto per accertarsi entrò coi piedi nelle sue acque. Non solo procedette per tastare il fondo, che non trovò,ma tutto il suo corpo stava sprofondando in acqua . Resosi conto di quel che avrebbe potuto accadere, cercò un appiglio, e si afferrò a una roccia vicina alla cima del monte Taita Imbabura, e lo fece con tal forza che un dito perforò la vetta, come si può ancora adesso constatare. Perciò si racconta che questo monte soffra ogni tanto di mal di testa; in quei momenti si lega la fronte con un fazzoletto di nuvole, e quando il dolore cessa il fazzoletto vola via col vento, e si può vedere tutta la luce attraverso la magica finestra, con uno sfondo di cielo azzurro, e un passato che si perde all'infinito". (cfr. p. 175, nota 48).

L'editore Roversi chiede ora alla prof.sa Gramigna di concludere la serata con un ultimo suo intervento.
Anita: Il libro dovete leggerlo per togliervi le curiosità che ora sono sorte ascoltando questa bella lettura, e per il desiderio che forse è sorto di venire a contatto con punti di vista altri. Vorrei dirvi qual'è a mio parere un'altra "cifra" di questo volume così affascinante, proprio sulla suggestione delle cose che prima diceva Ghila e che poi ha spiegato anche Carlo: questo libro, prima di spiegare delle cose (prima sia in senso temporale che in senso logico), ci insegna comprendere, per questo è un libro umile, vuole comprendere prima che spiegare, il che è a mio avviso il miglior modo di fare educazione -e io credo che questo sia un elemento importante di riflessività della Pedagogia-. E poi un altro elemento di grandissimo interesse dentro a questa cifra che caratterizza a mio parere il volume, è che ci insegna a comprendere ma prima ancora che comprendere, a sentire che le cose, tutte le cose, hanno una loro energia, ed è per questo che l'albero è considerato sacro, perché partecipa di una energia vitale che è la stessa energia che anima la nostra esistenza, i nostri sogni, pensieri, desideri, timori (e anche i nostri incubi), ed è per questo che tutto è legato…. E volevo aggiungere anche che il libro è intensamente estetico, perché riflette e induce una sensibilità relazionale. Alla fine di questo libro saremo persone differenti.
fiera del bestiame

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