sabato 18 gennaio 2014

merde alors! holy shit!

(da facebook)

 la pura Verità a seconda della religione:

Taoismo - capita che c'è della merda
Buddhismo - se capita della merda, essa non è realmente merda
Islam - se capita della merda, è volere di Allah
Cattolicesimo - se capita della merda te la sei meritata
Protestantesimo - datti da fare duramente o capiterà della merda
materialismo - chi muore col massimo di merda vince!
ateismo - non posso credere a questa merda!
ebraismo - perché questa merda capita sempre a noi?
Rastafari - e fumiamoci 'sta merda!


Spesso si ricorre a ciò che è più deprecabile utilizzandolo come interiezione; così si espresse per stizza il generale Cambronne quando dovette arrendersi. Un tempo in francese merde si pronunciava a volte per evitare di nominare il nome di Dio invano in una espressione che avrebbe dovuto essere "Mère de Dieu" (pure in italiano si usa "Madonna!" quale interiezione), e quindi ci si fermava prima omettendo il Dieu. In italiano si intende riferirsi a una situazione deprecabile = trovarsi in una situazione di merda… oppure dicendo: una persona di merda, un luogo di merda, eccetera.
Ed è così pure in altre lingue come appunto con l'inglese shit. Si ricorre a shit per riferirsi a una schifezza, a qualcosa di sporco, maleodorante, abietto, deprecabile, ributtante, intollerabile…. a tutto ciò che è orrendo, nauseabondo…. Il massimo del negativo.
L''espressione forte corrispondente a Holy shit cioè letteralmente "santa merda", in italiano corrente potrebbe equivalere a rovescio alla dissimulata bestemmia "porco zio"...

giovedì 16 gennaio 2014

plenilunio d'inverno

Gente! amici e lettori, oggi è il plenilunio d'inverno, e merita uscire a guardare in su, per vedere nel cielo stellato notturno troneggiare una bella Luna splendente.
Quando la luna è piena vuol dire che siamo in un momento di passaggio. Inizia ora la transizione dal segno del capricorno a quello dell'acquario, il quale partirà dal giorno 20. Intanto le ore di luce si allungano e il nuovo anno incomincia davvero, ... già si può intravedere all'orizzonte persino qualche piccolo segnale della rinascita della natura che presto avverrà… Come si diceva un tempo: "gennaio ingenera, febbraio intenera, e marzo imboccia" ….
Forse bisognerà patire ancora un pochino di freddo, ma la trottola dell'asse terrestre oramai inizia inesorabilmente a spostarsi per poi inclinare l'emisfero nord un poco di più verso l'astro del Sole.
Un altro detto era: "un gennaio bello, bel anno reca"….. e a quanto sembra quest'anno il novilunio del 2 gennaio ha aperto un periodo di belle giornate (almeno qui dove mi trovo ora io) che potrebbero far ben sperare… (dicono: "gennaio=ovaio").


Invio un saluto a mia nonna materna, morta settant'anni fa, che fu allieva del grande astronomo Camille Flammarion, e per più di dodici anni (dal 1931 alla sua morte) instancabile conferenziera al Civico Planetario di Milano, aperto l'anno prima, chiamata  dal suo amico Ulrico Hoepli.
Notti come questa hanno una loro aura di sacralità. Vi invito a leggere la poesia che ho riportato nel novembre del '12 su questo stesso mio Blog.
Fatevi attrarre dalla luna piena, oggi non fa quel gelo che le ha affibbiato il nomignolo di "luna dei lupi", ci si può soffermare tranquillamente a guardare in alto e prendere la pallida "tintarella di luna" lasciandosi investire dal suo fascio di luce. 
Stasera guardatevi film 'lunari' come "Le notti della luna piena" (Les nuits de la pleine lune), o "Stregata dalla Luna" (Moonstruck), e dormendo lasciatevi trasportare da dolci sogni, lasciatevi condurre per dolci viaggi sotto la guida di Morfeo.

Salvatore Di Giacomo scriveva di fronte a un incanto come questo:

Nu pianefforte 'e notte
sona luntanamente,
e 'a museca se sente
pe ll'aria suspirà.

È ll'una: dorme 'o vico
ncopp' a nonna nonna
'e nu mutivo antico
'e tanto tiempo fa.

Dio, quanta stelle 'n cielo!
Che luna! e c'aria doce!
Quanto na bella voce
vurria sentì cantà! 

(… )
Ll'anema mia surtanto
rummane a sta fenesta.
Aspetta ancora. E resta,
ncantannese, a pensà.

Un pianoforte di notte/ suona di lontano,/ e una musica si sente/ per l'aria sospirar./ E' l'una: dorme il vicolo/ su questa ninna-nanna/ di un motivo antico/ di tanto tempo fa./ Dio! quante stelle in cielo!/ Che luna! e c'è aria dolce!/ Quanto una bella voce/ vorrei sentir cantare.../ (…) L'anima mia soltanto/ rimane a questa finestra./ Indugia ancora. E resta,/ incantandosi, a pensare.

mercoledì 15 gennaio 2014

…ma chi è "strano"? e per chi?…. l'ospite? per l'ospitante?

E' stato stampato il secondo romanzo per ragazzi di Ghila. 
Pubblicato dalla casa editrice Gruppo Albatros - Il Filo, di Roma. Si intitola "Lo strano ospite straniero", e ha una Postfazione scritta da Anita Gramigna  professoressa di pedagogia all'università di Ferrara (corso di laurea in scienze filosofiche e dell'educazione).
A fine febbraio verrà messo in vendita nelle maggiori librerie (distribuito dalla PDE s.p.a.), ma lo si può già ordinare o prenotare (anche direttamente alla casa editrice, dal bookstore del sito: www.gruppoalbatrosilfilo.it oppure via mail a  ordini@ilfiloonline.it).


Si tratta di un simpatico invito a riflettere su concetti quali: identità e diversità, o alterità, o differenza, intesi sopratutto sul piano culturale. Per cui vi sono una serie di vicende narrate in modo leggero e scherzoso, che ci provocano, spingendoci come lettori ad assumere uno sguardo nuovo e più accogliente verso ciò che ci può risultare ad un primo approccio come "strano" e inconsueto. E pure per farci compiere, non solo una modifica di alcuni schemi precostituiti e di alcuni pregiudizi nei confronti di chi proviene da contesti sociali e culturali diversi da quelli cui siamo fin troppo abituati, ma anche un ripensamento e una riconsiderazione di non poche rigidità da cui noi stessi siamo pervasi, e che si innescano quando qualcuno infrange moduli e comportamenti dati per "normali" ...
Il romanzo stimola il lettore a compiere una autoanalisi critica e spassionata di tutto ciò che in un contesto conformistico viene dato per ovvio e scontato, e che è invece culturalmente caratterizzato. Lo shock provocato dal trovarsi a condividere le giornate con persone che non si comportano "come si deve", e non agiscono né pensano seguendo paradigmi acquisiti come quelli che consideriamo "giusti" (solamente perché ci è stato detto da sempre che "si fa così" e non diversamente, e che solo in un certo modo "si fa bene"), senza pensare che semplicemente si tratta di mentalità differenti che ci portano a vedere il mondo e il sistema di relazioni sociali entro gli schemi culturali vigenti nel contesto in cui ciascuno si trova ad essere inserito.

E' il diario di una bambina che comprende che tutto ciò che non è fatto o detto con cattive intenzioni, può venire tranquillamente accettato, e che anzi lo scoprire modalità di pensiero e di comportamento differenti ci può essere di aiuto per allargare i nostri orizzonti, smussare le rigidità dei richiami ad una supposta "normalità" di valore universale, e per maturare una più articolata comprensione della varietà di questo mondo in cui viviamo, senza che vi siano i "giusti" da un lato e gli "sbagliati" da un altro, o i "superiori" e gli "inferiori", ma con semplicità e buon umore cercare di essere più aperti e badare ai valori essenziali anziché a formalismi fuori tempo.
Il testo è corredato da gradevoli illustrazioni dovute a Simone Pinter e a Daria Rosi.
La storia si ricollega per alcuni versi a certi temi svolti nei tre racconti che Ghila aveva inserito all' interno del volume "Il viandante e lo sciamano", un diario di un viaggio sulle Ande dell' Ecuador da poco pubblicato dalla Este-edition di Ferrara (libri@este-edition.com).
In questo caso però non si tratta né di un viaggio in paesi lontani, né di un viaggio nel tempo (cfr. il primo romanzo di Ghila per le edizioni Edicolors, Genova. Vedi notizia nei post più sotto 16 nov. 2013), ma di un "viaggio" che questa volta si svolge tutto a casa della ragazzina protagonista…

Si veda il libro nel sito della Casa Editrice: http://www.ilfiloonline.it/index.php?page=shop.product_details&flypage=flypage.tpl&product_id=274457694&category_id=7&option=com_virtuemart&Itemid=239&vmcchk=1
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Ghila è stata venerdì 14 marzo a Roma presso la sede del gruppo Albatros, dove l'avevano convocata per registrare una intervista radiofonica e una per un canale televisivo.
La prima sarà trasmessa giovedì 1° maggio prossimo a Radio Galileo (www.radiogalileo.it) nel corso della rubrica "La luna e i falò", alle ore 19,30 e 21.30, e replicata poi domenica 4 maggio mattina alle 10.20.
Le altre si potranno vedere sul canale "Viva l'Italia Channel", sul numero 879 della piattaforma di SKY, nella trasmissione "Se scrivendo…", nei giorni 11, 16, e 23 luglio.

lunedì 13 gennaio 2014

Route Sixty-six


Sto continuando nel mio viaggio personale, che forse a tratti rivela quasi un bisogno di compiere più che viaggi di distrazione, piuttosto pellegrinaggi in luoghi e tra gente da cui poter imparare, apprendere nuovi o diversi modelli di vita. In un certo senso sono ancora On the Road, anche se non ho una precisa Road Map che mi accompagni. 
Sì, a suo tempo ho letto "Pellegrinaggio alle sorgenti" di Lanza del Vasto, come ho letto pure Kerouac, e Pirsig, e Terzani, e mi riprometto di leggere nelle prossime settimane l'ultimo libro del ghanese Caesar Alimsinya Atuire (cfr. http://www.luomoconlavaligia.it/il-viaggio-della-vita.html), e tanti tanti altri sul tema, ma non credo che ci sarà mai alcun punto finale, nel senso di conclusivo, e se anche mi dovessi fermare, continuerei a viaggiare nella mia stanza.
E' come per la "mitica" US Route 66, che anche se di fatto non esiste ufficialmente più, non è propriamente più una strada che va da Chicago a Los Angeles, è comunque presente con i cartelli che indicano il vecchio storico tracciato, poiché è divenuta un simbolo. Come lo è in altro modo il "camino de Santiago", o il leggendario Hippie Trail ...
Così pure il mio carattere errabondo, la mia propensione all'erranza, al gironzolare, o flâner, o wandering, è un moto senza meta, in cui ogni luogo e momento, in virtù della serendipity può divenire inaspettatamente l'obiettivo del pellegrinaggio e assumere un suo significato importante per me, ma forse anche comunicabile, per cui può meritare renderne compartecipi altri amici anch'essi in viaggio.

P.S.: sì effettivamente fra una settimana, esattamente il 20, compirò 66 anni… ed è per questo che ho messo questo post.

fantasmi dal passato

Ci sarebbero ancora tante altre cose da scrivere sulla storia di Mandela, per es. su quanto la libertà dei sudafricani neri sia in effetti debitrice ai cubani (con la tremenda ma decisiva guerra d'Angola...), eccetera, ma vedo che sono cose troppo "vecchie" che non hanno interessato molto i miei lettori.    
Quindi ora per commentare la morte di Sharon otto anni dopo il suo ictus che troncò il suo operato per addivenire ad un accordo tra israeliani e palestinesi, e quindi per far sgombrare un buon numero di insediamenti israeliani dai territori palestinesi, non mi soffermerò di nuovo su vecchi fatti. Riporto solo un post da un Blog in cui si precisavano alcuni dati relativi all'evento per il quale Sharon è rimasto un personaggio noto anche tra chi poco si interessa di quei luoghi lontani, cioè dati relativi alle stragi di Sabra e Chatila in Libano nel 1982 in seguito alla locale guerra civile e al successivo intervento israeliano… Collochiamo mentalmente il periodo, e pensiamo a cosa era politicamente il mondo arabo, e a cosa è stato negli anni successivi (dall'Algeria, alla Libia, al Sudan, al povero Libano, o all'Iraq, ecc.). Oramai, dopo le insurrezioni della cosiddetta "primavera araba" del 2011, finalmente abbiamo appreso quel che erano in realtà certi regimi di certi paesi, e non abbiamo più gli occhiali colorati davanti agli occhi che ci fanno vedere le cose del colore che vogliono, e quindi penso che potremo procedere ad una certa revisione di immagine, e a ciò si aggiungano a conferma le realtà politiche odierne di quella regione geografica, che hanno gravemente travisato le iniziali aspirazioni popolari…(senza dimenticare l'odierna tragedia apocalittica del popolo siriano...).
Comunque sia, sia ben chiaro che a me Sharon non piaceva proprio (forse avrei preferito piuttosto che continuasse a vivere Rabin …), né mi piace il "neoliberista" Netanyahu e il suo governo di destra. Ma, come sappiamo molto bene, la democrazia elettorale in regimi multipartitici ha alcuni possibili inconvenienti, tra cui che la gente si lasci imbambolare da certi "ducetti"…

Per cui, per chi è ancora incuriosito da vecchi fatti storici, ecco il post sul Blog di una certa Barbara:
"Se dico Sabra e Chatila tutti sapete di che cosa sto parlando, vero? Magari non sapete che a perpetrarla sono stati i cristiani maroniti guidati da Ely Hobeika e credete che siano stati gli israeliani. Magari non sapete che delle tre commissioni d’inchiesta (del governo libanese, della Croce Rossa, del governo israeliano) quella israeliana è stata la più severa. Magari non sapete che 400.000 israeliani (circa il 10% dell’intera popolazione israeliana dell’epoca) sono scesi in piazza per protestare contro la sia pure indiretta responsabilità israeliana e non un solo arabo è sceso in piazza per protestare contro la diretta responsabilità dei maroniti al soldo della Siria. Forse non sapete che Sharon, a causa della strage di Sabra e Chatila, è stato allontanato dalla politica attiva e ne è rimasto fuori per quasi un ventennio mentre Ely Hobeika, per merito della strage di Sabra e Chatila, è stato premiato con un importante ministero. Forse non sapete che Robert Hatem, guardia del corpo di Hobeika, ha scritto un libro intitolato From Israel to Damascus in cui rivela tutti i retroscena sull’azione e sui mandanti e che il libro è stato bandito dai paesi arabi ed in particolare dal Libano con un’ordinanza del ministro per l’informazione Anwar El Khalil. Forse non sapete queste cose ma sapete comunque, se dico Sabra e Chatila, di che cosa stiamo parlando.
Bene. E se ora dico l’«altra» Sabra e Chatila, quanti di voi mi sanno dire di che cosa stiamo parlando? Perché c’è stata un’altra Sabra e Chatila, di cui nessuno parla mai: lo sapevate? Naturalmente non mi permetto di insinuare che il motivo per cui nessuno ne parla abbia a che fare con la circostanza che Israele questa volta non vi ha avuto niente a che fare: sarebbe stupida dietrologia; forse, anche, sarebbe disonestà intellettuale, come dice ogni tanto qualcuno da queste parti. Sta di fatto che quella volta Israele non c’entrava e che nessuno parla dell’altra Sabra e Chatila. Al punto che anche in internet le notizie sono scarsissime (e ringrazio il prof. Emanuele Ottolenghi che mi ha cortesemente aiutata a trovare alcuni dettagli che mi mancavano per costruire questo post). Informo dunque chi non lo sa e ha voglia di saperlo che le milizie sciite filosiriane di Amal hanno bombardato i campi di Sabra, Chatila e Burj el-Barajneh per tre anni, in quella che è ricordata come la guerra dei campi. Il culmine venne raggiunto nel corso di tre cruentissime battaglie: la prima il 19 maggio 1985, in cui praticamente tutte le case nei campi vennero ridotte in macerie e si riporta che alcuni abitanti si ridussero a mangiare ratti, cani e gatti. Vi furono persino richieste di permessi alle autorità religiose di mangiare i morti (e non ricordiamo, all’epoca, vignette satiriche sui responsabili della fame dei palestinesi). Scrisse il corrispondente di Pity the Nation, Robert Fisk: «La distruzione di Sabra è così grande che fra chi non viveva nel sottosuolo, ben pochi sono sopravvissuti. Il modo in cui Amal e i palestinesi hanno combattuto nei corridoi dell’ospedale per anziani mentre i pazienti erano ancora lì indica che nessuna delle due parti si preoccupa troppo per i civili presi nel fuoco incrociato. Il modo in cui i palestinesi costruiscono le loro case sopra i bunker rende inevitabile la morte di civili. [...] Se chiedete quanti combattenti hanno, rispondono che tutti i palestinesi sono combattenti, uomini, donne e bambini. Ma poi strillano se una donna o un bambino viene ucciso». Si ignora il numero esatto dei morti, ma si ritiene che sia stato molto alto. La seconda cruenta battaglia (preceduta e seguita da altri scontri di minore entità e dall’assedio di Burj el-Barajneh, che impediva agli abitanti di uscire e alle provviste di entrare) si svolse un anno esatto dopo la prima, il 19 maggio 1986 e la terza il 29 settembre 1986. Alla fine della guerra il governo libanese ha riportato che il numero totale di vittime di queste battaglie è stato di 3.781 morti e 6.787 feriti, cui vanno aggiunti circa 2.000 palestinesi uccisi nelle lotte interne fra le varie fazioni, ma si ritiene che il numero reale sia più alto perché migliaia di palestinesi non erano registrati in Libano, e nessun ufficiale poteva entrare nei campi, cosicché non tutte le vittime potevano essere contate.
Può forse valere la pena, visto che siamo in tema, di ricordare anche che cosa ne è stato dei profughi palestinesi nei campi del Libano dopo la fine della guerra civile (guerra, non dimentichiamolo, scatenata dai palestinesi, che ha provocato – si calcola – circa 160.000 morti, la cancellazione di moltissime comunità cristiane e la distruzione della più bella, ricca e civile nazione del Medio Oriente). Ce lo racconta Stefano Liberti in un reportage pubblicato sul Diario di Enrico Deaglio: «Al termine di questa guerra l’agglomerato di Sabra non esisteva più e il governo libanese decise di proibire ogni costruzione al di fuori del perimetro originario di Chatila, impedendo quindi alle migliaia di abitanti delle zone esterne di rimettere in piedi le proprie case. [...] Nel 1996 il governo libanese ha varato un’ulteriore legge che vieta l’ingresso in tutti i campi profughi di qualsiasi materiale da costruzione: mattoni, vetri, cemento. I più disperati si sono ridotti a vivere sotto le macerie o nei garage sotterranei distrutti». Quello instaurato dal governo filosiriano di Beirut nei confronti dei quattrocentomila rifugiati palestinesi è, secondo il Diario, un «regime di apartheid»: ai profughi è proibito di esercitare ben settantacinque tipi di professione («da quella di ingegnere ad altre meno qualificate come lavavetri o muratore») ed è negato il diritto di voto. Pochi mesi fa è stata approvata una legge che permette a tutti gli stranieri di avere proprietà in Libano. Tutti, tranne i palestinesi. «È nel loro interesse – sostengono le autorità di Beirut -, non vogliamo che perdano la spinta a tornare nella loro terra».
Non ricordiamo risoluzioni Onu contro la politica antipalestinese del Libano. Non ricordiamo marce di protesta contro questo regime di apartheid. Non ricordiamo bandiere libanesi bruciate. Non ricordiamo boicottaggi contro università e istituzioni libanesi. Non ricordiamo movimenti studenteschi mobilitati a impedire di parlare a diplomatici o studiosi libanesi. Non ricordiamo mobilitazioni internazionali per impedire a questi palestinesi di morire di fame.
barbara"
da: http://ilblogdibarbara.wordpress.com

sabato 7 dicembre 2013

Mandela e la cultura bantu

CONSIDERAZIONI IN RICORDO DI MANDELA (95 anni)

Mandela indubbiamente incarna la figura dell'eroe liberatore, e del padre della patria. E' stato e resterà una icona, un punto di riferimento ideale, un personaggio esemplare per molti versi. Ma anche lui è diventato quel che abbiamo conosciuto in questi ultimi 30 anni, così riverito con affetto, lo è diventato nel corso della sua lunga vita, delle esperienze attraverso cui è passato, e su cui ha riflettuto. Nessuno nella realtà nasce eroe o santo, la vita ha senso proprio in quanto è un divenire, un percorso, un percorso che si spera possa essere evolutivo. Ma oggi è ora di rivederlo a tutto tondo, nella sua interezza, con uno sguardo non "più mitizzante", come accade e come è sempre accaduto post-mortem, ma finalmente più vero, umano, per guardare a un personaggio ricco di complessità e anche di contraddizioni. Ora egli è morto, o come si dice nella tradizione del popolo xhosa: wayibeka inqawa, "he has layed down his pipe", ha deposto la sua pipa (quella che si fuma in compagnia), quindi non è più "oltraggioso" o irriverente nei suoi confronti parlare anche di certi aspetti della sua storia passata...
Sono dunque andato a rileggermi alcuni episodi della sua vita che avevo letto in occasione del mio viaggio del 2008 in Sudafrica.


All'interno della grande e variegata etnia Bantu vi sono nella parte orientale della Provincia del Capo, gli Xhosa (che alla fine del regime dell' Apartheid sarebbero circa 8 milioni in Sudafrica). Questi erano stati in parte confinati nei due "Bantustans" (o Homeland) del Transkei e del Ciskei, regioni "autonome" africane sui due lati del fiume Kei (in realtà erano delle specie di "riserve" coatte per gli "indigeni"). 



Il futuro Presidente nacque e crebbe a Qunu nel Transkei, nella tribù dei Thembu, grande clan famigliare legato alla Corte del trono tradizionale africano della regione. Nipote del rispettato Capo Mandela, e figlio di un benestante padrone di mandrie con quattro mogli, il Nostro fu chiamato da piccolo, Rolihlahla, (che può venir tradotto come "rompiscatole" o "piantagrane", o "attaccabrighe", o "guastafeste"), e poi alle scuole elementari dei missionari metodisti gli venne assegnato dalle autorità scolastiche il nome, secondo loro più "rispettabile", di Nelson (come il famoso ammiraglio inglese). Mandela poi scriverà nei suoi ricordi: «Vedevo che nella pratica [...] l'ambiente educativo delle scuole missionarie era molto più aperto di quanto non lo fossero le scuole governative». Come adulto fu chiamato a partire dai 16 anni Dalibhunga. Ma se ne andò dal villaggio natale per sottrarsi al matrimonio combinato col consenso di sua madre dagli anziani della assemblea tribale,

confermando così il suo appellativo di Rolihlahla, e andò a vivere nella grande metropoli dello Stato boero (afrikaner) del Transvaal, a Johannesburg, dove si impegnò negli studi. Fu il primo xhosa ad iscriversi all'università (ebbe tra i compagni di classe anche due ebrei, Joe Slovo e Harry Shwarz, molto contrari al diffuso antisemitismo e al segregazionismo, e un meticcio, Walter Sisulu, presso cui alloggiava), e poi fu il primo nero in Sudafrica ad aprire uno studio legale. Sposò la figlia del cugino di Sisulu. Subito dopo si dedicò ad attività di opposizione al governo segregazionista del Transvaal che discriminava neri, coloured, meticci, e persone non di origine europea (indiani e asiatici). Poi con l'irrigidimento della repressione da parte del regime di estrema destra nazionalista e razzista al potere in Sudafrica, fondò con altri l'organizzazione clandestina Umkhonto we Sizwe, "Punta di lancia della nazione", quale braccio armato del partito African National Congress, allora dichiarato illegale. Fin da bambino era stato educato anche a divenire un buon guerriero xhosa: “Imparai a lottare col bastone e divenni esperto nelle mosse: paravo i colpi dell’avversario, accennavo una finta in una direzione per poi colpire nell’altra, mi disimpegnavo dall’avversario con un abile lavoro di piedi”. L'organizzazione di Umkhonto ha compiuto azioni di sabotaggio del regime segregazionista, e di attacco a postazioni militari o di polizia o a centri di interesse strategico per il governo, o sedi di partiti pro-aparthied, che provocò morti e feriti (un'altra occasione per farsi affibbiare il nomignolo di gran rompiscatole, in questo caso da parte dei bianchi razzisti al potere…). "I have a dream" diceva. Fu imprigionato e restò per 27 anni in carcere (con Sisulu e atri compagni). Ma da lì divenne la guida ideale dei diseredati per la conquista del rispetto dei diritti umani, e sentì tutto il peso della responsabilità dovuta alla sua immagine a livello popolare, in cui provò "il senso del potere che deriva dall'avere la Ragione e la Giustizia dalla propria parte".
Dopo il massacro di neri a Sharpeville (1960) non riuscì a vedere altra uscita che la guerriglia urbana.
Ancora nel giugno 1980 riuscì a scrivere alla African National Congress clandestina: « Unitevi! Mobilitatevi! Lottate! Con l'incudine delle azioni di massa e il martello della lotta armata dobbiamo annientare l'apartheid! »



Intanto crescevano gli scontri fisici a volte molto forti tra partiti e fazioni avverse all'interno dello schieramento africano, ad es. tra il partito Inkatha dell'etnia Zulu, guidata dal principe Buthelezi, e l'ANC; oppure tra l' AZAPO composta da gruppi giovanili estremisti, e il Fronte democratico unito, guidato da monsignor Tutu e dal pastore Boesak con conseguenti feriti e anche morti, in una sorta di incipiente guerra civile tra oppositori dell'apartheid, tra gruppi politici, e tra etnie, e anche tra neri. Mandela ne era preoccupato e anche allarmato. Disse: "non sono un santo, a meno che non si pensi che un santo è un peccatore che continua a mettersi alla prova".
Nel frattempo è divenuto assai critico anche nei confronti di un uso indiscriminato della violenza nella lotta contro il razzismo dei bianchi al potere, sia pure da parte di combattenti per la libertà e l'eguaglianza, sopratutto in seguito a una ondata di vari attentati terroristici compiuti da gruppi estremisti anti-apartheid che giunsero anche a mettere bombe in locali e luoghi pubblici frequentati da ambienti segregazionisti bianchi (attentati e bombe che in un decennio causarono in totale 130 morti, di cui trenta erano membri dell'esercito o di forze di polizia, ma cento civili, cioè 40 bianchi e 60 africani che semplicemente si trovavano nei pressi). A volte l'antirazzismo portò alcune persone ad una forma di razzismo alla rovescia!... In Occidente (essendo egli allora percepito come il simbolo della battaglia violenta antigovernativa) il presidente americano Reagan e la primo ministro britannica Margaret Thatcher fecero inserire il suo nominativo nelle liste dei terroristi non graditi sul territorio nazionale (inclusione tutt'ora esistente, nonostante i tentativi poi fatti da Condoleeza Rice, segretario di Stato di Bush, per cancellarlo).

Dunque in questa fase, Mandela modificò il proprio sogno giovanile, e dal 1985 si dedicò a promuovere dal carcere un dialogo interraziale con l'obiettivo dell'instaurazione della democrazia. Con ciò creando irritazione in certi leaders più rivoluzionari, tra cui anche in Winnie Nomzano Madikizela, leader della Lega delle Donne, e allora seconda moglie di Mandela (che aveva divorziato dalla prima la quale, divenuta poi testimone di Geova, disapprovò i metodi violenti di lotta politica...), e in diversi seguaci dell' ala "dura" del movimento di liberazione, che propendeva per l' azione armata guerrigliera, e che erano anche ammiratori di Mugabe, il leader del vicino Zimbabwe ( e perciò Mandela venne ritenuto anche da loro un vero Rolihlahla….).

(Poi una decina di anni dopo si verrà a sapere che anche alcuni partigiani anti-apartheid, giunsero persino a praticare la tortura fino al decesso, per riuscire ad estorcere informazioni ai loro prigionieri.)

Quando uscì dal carcere nel 1990 pronunciò uno storico discorso in cui disse:«Amici, compagni e compatrioti sudafricani. Vi saluto in nome della pace, della democrazia e della libertà per tutti. In tutti questi anni mi sono battuto contro il predominio dei bianchi, così come mi batto contro un predominio dei neri. Ho perseguito l'ideale di una società libera e democratica, in cui tutti possano vivere insieme in armonia e con pari opportunità. È un ideale per il quale spero di continuare a vivere fino a conseguirlo. Ma per il quale, se necessario, sono pronto a morire».

Mandela in quel periodo, tra la sua gente e in generale tra la popolazione africana (e in tutto il Sudafrica) era già da tempo riverito e chiamato "Madiba", cioè con il tradizionale titolo onorifico e di rispetto che è dovuto ai capi, ai saggi, e alle personalità eminenti Xhosa.
Gli Xhosa, sono in Sudafrica il popolo con più lunga tradizione sindacale e politica, sin dall' '800 (l' ANC fu fondato nel 1912), e sono un popolo di antica cultura (che parla una ancestrale lingua del ceppo khoiSan, contenente lo schiocco dei cosiddetti "click").
Si vedano a quest'ultimo proposito i tre post in questo Blog, relativi al mio viaggio in Sudafrica e in Swaziland nel 2008:
http://viaggiareperculture.blogspot.it/2011/11/lantichissimo-popolo-dei-san-sud-africa.html


Esiste una visione, o concezione, del mondo specifica di tutti i popoli Bantu, che è stata illustrata e interpretata dal padre francescano Placide Tempels, Bantoe Filosofie, pubblicato ad Anversa in fiammingo dalla Reale Accademia Belga delle scienze nel 1946 (trad.it. edizioni Medusa, Milano, 2005), e poi dal poeta e studioso tedesco di letterature comparate Janheinz Jahn, Muntu, Düsselforf, 1958 (trad. it. Einaudi editore, Torino, 1961, con pref. di Ernesto De Martino, poi "La civiltà africana moderna", 1976, capitolo IV), nonché dall' etnologo italiano Vittorio Lanternari, Movimenti di libertà e salvezza dei popoli oppressi, Feltrinelli, Milano, 1960, poi Editori Riuniti, 2003).

Mandela si è spesso riferito a quella Weltanschauung o visione dell'Uomo e del Mondo, una concezione per cui tutti i membri dell'Umanità sono simili e collegati tra loro, tutti se rimangono modesti, onesti e impegnati per la collettività possono realizzare i valori dell'umano, come per es. anche nel suo discorso per l'insediamento come primo Presidente nero del nuovo Sudafrica nel 1994, quando disse tra l'altro:

"La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati, la nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite. E' la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più … ci domandiamo: chi sono io per essere brillante, pieno di talenti, favoloso? In realtà chi sei tu per non esserlo? Siamo figli di Dio, il nostro giocare in piccolo non serve al mondo. E non c'è nulla di illuminato nello sminuire se stessi, così che gli altri non si sentano insicuri attorno a noi. Siamo tutti nati per risplendere, come fanno i bambini, siamo nati per rendere manifesta la gloria divina che è dentro di noi. () Se tu consenti alla tua luce di splendere, inconsciamente dai agli altri il permesso di fare lo stesso".
Discorso che terminò con "God bless Africa", Dio benedica l'Africa. (Mandela era sempre rimasto un cristiano metodista).



Tornando ai temi che accennavo più sopra, dicevo che dovremmo ricordarci, in occasione della sua scomparsa, di fare un riepilogo di tutta la sua vita (come fece lui stesso nella sua autobiografia: Long Walk to Freedom, "Il lungo cammino verso la libertà", trad.it. Feltrinelli, 1995), e non di limitarci soltanto ad osannarlo (giustamente) come uomo di pace per la straordinaria iniziativa di istituire un Tribunale di Verità e Riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission, TRC), e per aver lavorato a raggiungere un accordo col riformatore De Klerk, ma rammentandoci anche del periodo precedente. 

Passati i sessant'anni d'età Mandela disse: "noi avevamo la ragione dalla nostra parte, ma non la forza, e mi rendevo conto che una nostra vittoria sul piano militare era un sogno lontano, se non impossibile". Compì non solo un atto di realismo, ma anche una conversione spirituale straordinaria che allora non fu compresa fino in fondo da tutti i suoi compagni e ammiratori, avvicinandosi maggiormente all'autentico messaggio spirituale di Gandhi (che aveva vissuto in Sudafrica, nel Natal, aprendo uno studio legale e lottando contro la segregazione e per i diritti umani per vent'anni), un messaggio di pace, giustizia e nonviolenza, portato avanti soltanto per mezzo della obiezione di coscienza, della non-cooperazione, di scioperi, di pubblici digiuni, e della disobbedienza civile, e che da sempre Mandela aveva ammirato, pur essendosi orientato metodologicamente in modo diverso. Gandhi propugnava ahimsa e satyagraha, cioè nonviolenza e verità con fermezza; e diceva che "l'odio genera sempre solo altro odio", dando luogo ad una spirale inarrestabile e infinita. Senz'altro a suo tempo ebbe un positivo influsso su di lui anche il premio Nobel per la pace, Albert Lutuli, ma soprattutto l'amico il vescovo anglicano nero Desmod Tutu che viveva anch'egli a Soweto, vicino alla casa dei Mandela. In effetti Madiba riprese e rilanciò l'espressione di Tutu: "Rainbow Nation", nazione arcobaleno, riferita all'intera popolazione del Sudafrica. 



Quindi il suo fu un ripensamento, frutto di una riflessione profonda e sofferta. Un riorientamento, per compiere quella scelta strategica che gli valse poi nel '93 il premio Nobel per la pace. (Ma in questi giorni ricordiamoci pure che il premio venne dato anche a De Klerk, poiché un accordo di pace si fa sempre solo in due ...). 



Anche a Desmond Tutu nel 1984 era stato conferito il premio Nobel per la pace. Comunque si deve soprattutto a Mandela se non si giunse in Sudafrica a quell'irreparabile bagno di sangue che tutti temevano (che sarebbe stato oltre un certo segno irreversibile), e se si riuscì a far condividere a grandissima parte della popolazione il sogno di un "paese arcobaleno", multietnico e pacifico.  E anche l'obiettivo di giungere alla ammissione delle proprie colpe da parte degli individui coinvolti nei soprusi e negli scontri di tutti gli schieramenti contendenti, per cui attraverso la ammissione di responsabilità e la accettazione di verità scomode tenute nascoste o giustificate, cercare di avviare un processo di rinnovamento e rinascita spirituale e poi soprattutto di riconciliazione tra le parti. Mandela disse: "La gente coraggiosa non ha paura di perdonare, per amore della ricerca della pace" ("courageous people do not fear forgiving, for the sake of peace").

La terza moglie di Mandela (dopo il divorzio dalla estremista Winnie) è Graça Simbine (la vedova del primo presidente del Mozambico indipendente, Samora Machel) anche lei cristiana metodista. Vennero sposati in chiesa dall'amico il vescovo D. Tutu.

Mi sono fermato a riflettere su come possa sentirsi un uomo che ha organizzato attentati con esplosivi, e che poi diviene un pacifista… In questo caso il riferimento a certi valori della cultura bantu può forse averlo aiutato. Ma personalmente mi riesce difficile capire come far convivere quelle due anime ...
Un "rivolgimento" dunque radicale e straordinario, che per certi versi assomiglia a quello compiuto da Gerry Adams, leader del Sinn Fein, il partito separatista dei cattolici nordirlandesi, braccio politico dell' IRA. L'altro giorno guardavo il filmato su una sua lunga intervista relativa a questi temi, trasmesso da Sky Arte (per chi l'abbia perso verrà replicato martedì 17 alle 5 pm). Come può un politico che avesse anche solo ispirato e giustificato attentati con l'uso di esplosivi in luoghi pubblici, rivolgersi poi al messaggio di pace e nonviolenza (in questo caso quello di Gesù), e dichiararsi però non disposto a rigettare ciò che aveva deliberatamente compiuto nel suo passato?  
… Ma ripensavo anche al nostro Adriano Sofri...
Ripensavo al film di Gillo Pontecorvo sulla "battaglia di Algeri" e ai metodi della lotta anti-francese. Ripensavo al premio Nobel per la pace dato a Y. Rabin e a Y. Arafat nel '94, due grandi combattenti che seppero infine giungere a uno storico accordo (applicato ben poco).
Ripensavo a tante e tante altre situazioni tragiche di conflitto violento, dalla ex-Yugoslavia, alla Cecenia, alla Georgia, eccetera eccetera.

Può di per  il fatto di combattere contro soprusi e dittature, il fatto di combattere per la libertà, l'eguaglianza, il rispetto dei diritti umani, per la giustizia, per la pace, può essere sufficiente per ammettere nel profondo della coscienza umana l'atto di praticare la guerra e dunque la violenza? di combattere con le armi, di lanciare bombe, ecc…? insomma è il vecchio dilemma: il fine giustifica i mezzi? o questi dovrebbero essere sempre strettamente coerenti con i princìpi e i fini?

Certo possiamo ad es. ammirare la figura di Che Guevara per tanti suoi aspetti positivi, ma non possiamo comunque scordare che fu un guerrigliero armato, così come possiamo aver avuto simpatia anni addietro per i preti della teologia della liberazione che si unirono alla guerriglia in Colombia, come Camilo Torres, e in altri paesi del Sudamerica (Salvador, Nicaragua, Perù ecc..), ma senza dimenticare che guerriglia vuol dire sparare a qualcuno, magari a un giovane soldato coscritto nell'esercito, e ucciderlo perché incarna il nemico della libertà, della pace, della democrazia...
Le guerre purtroppo hanno una loro logica ferrea e inesorabile, non posso non ricordare la canzone di De André sul povero Piero...

Mandela è un uomo che ha visto le aberrazioni a cui si può giungere se si imbocca la strada della forza e della violenza, e ha avuto il coraggio e la capacità di voltare pagina, e di rispondere negativamente alle domande di cui sopra. Ed ha professato questa convinzione, almeno a partire dai 63-65 anni, non solo nella sua condizione di carcerato, e di vittima del razzismo, ma ha continuato a farlo anche nella sua posizione di leader, di guida di tutto il popolo sudafricano, e poi anche di Presidente del suo Paese, e capo del governo (per cinque anni dal '94 al '99). In questo è veramente straordinario.
Madiba ad un certo punto della sua vita disse (riferendosi probabilmente ad un noto slogan rivoluzionario): "perché essere liberi non è solo liberarsi dalle proprie catene, ma vivere in un modo che rispetti e valorizzi la libertà anche degli altri"

Perciò secondo la tradizione bantu degli Xhosa in questi giorni si canta e si balla, e al passaggio del suo feretro la gente applaude e sorride per festeggiarlo. Gli Imbongi, i cantori della tradizione orale xhosa, declamano le sue lodi in modo poetico, e l'arcivescovo Tutu nonostante i suoi 82 anni ha danzato in pubblico alla cerimonia funebre.

Alla fine della sua autobiografia "Long Walk to Freedom" Madiba scrisse: " Quando sono uscito dalla prigione la mia missione era di liberare sia gli oppressi che l'oppressore. Qualcuno dice che lo scopo è stato raggiunto. Ma io so che non è questo il caso. La verità è che non siamo ancora liberi, abbiamo solo conquistato la libertà di esserlo, il diritto a non venire oppressi. Non abbiamo ancora compiuto l'ultimo passo del nostro viaggio, ma il primo di un lungo e anche più difficile cammino. Per essere liberi non basta rompere le catene, ma vivere in un modo che rispetti e accresca la libertà degli altri. Il vero test della nostra fedeltà alla libertà è solo all'inizio Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà. Ho cercato di non vacillare, e ho compiuto anche dei passi falsi. Ma ho scoperto il segreto che dopo aver scalato un colle, si capisce che ce ne sono ancora molti altri da scalare. Mi sono preso un momento di sosta per dare un'occhiata al panorama che mi circonda, per riguardare indietro al cammino che ho fatto. Ma posso riposare solo per un momento, perché con la libertà vengono anche le responsabilità, e mi preoccupo di non indugiare perché il mio lungo cammino non è ancora finito."

giovedì 5 dicembre 2013

un viaggio nella città dell'Aurora

mercoledì 4 dic. "La Repubblica" ha pubblicato nel suo inserto settimanale "RViaggi", un articolo su Pondicherry, ex colonia francese nel sud dell'India, alle pagine 48-49, in cui si parla anche di Auroville, la città dell'utopia ecosostenibile. Se quei cenni, necessariamente molto rapidi e sintetici, del giornalista Videtti, vi hanno destato qualche curiosità, vi consiglio di andarvi a leggere anche quel che ne scrissi io dopo una visita di qualche giorno. Cercate all'inizio di questo blog, il diario del mio terzo viaggio in India nell'estate 2006, che ho postato il 26/07/2011: http://viaggiareperculture.blogspot.it/ 2011/07/diario-di-viaggio-nellindia-del-sud.html
viaggio durante il quale ho visitato vari centri spirituali diversi tra loro, facendo dei confronti, e dove ai paragrafi dal 12 al 16 racconto appunto di Auroville. E' un po' come la Città del Sole di Campanella, e si chiama così perché fa riferimento all'aurora di una umanità nuova, e al nome di Aurobindo.
Sarebbe un magnifico e interessante viaggio invernale, là trovereste l'estate (e una bella spiaggiona) e anche una piccola comunità di italiani che ci vivono, da cui potrete farvi descrivere e spiegare meglio i dettagli su quel grande progetto urbanistico e ideale, e sui presupposti spirituali di fratellanza che lo ispirano. Ci sono anche dintorni molto belli. Ne vale davvero la pena.