Ecco come veniva vista da uno sguardo esterno la
nostra civiltà abitativa. Si tratta della oramai famosa descrizione che ne fece
un grande capo delle isole Samoa (nell'Oceano Pacifico) per raccontare ai suoi
isolani ciò che vide durante un suo eccezionale viaggio in Europa nei primi
anni del Novecento.
Il testo venne a conoscenza di Erich Scheurmann, un
artista tedesco (che fu amico di Hermann Hesse), il quale quando scoppiò la
prima guerra mondiale si rifugiò in Polinesia, e lì ebbe occasione di tradurlo,
dandone una versione adattata. La redazione di appunti scritti dei discorsi di
Tuiavii infatti era intesa solo come promemoria per rivolgersi agli uditori
samoani di allora, che non avevano idea alcuna delle realtà di cui Tuiavii
andava riferendo. Di tale evento si parlò tanto che da tutta la Polinesia pervennero delle richieste di poter conoscere le parole originarie di quella relazione.
Der Papalagi. Die Reden des Südseehäuptlings
Tuiavii aus Tiavea, dalla edizione tedesca a cura di E.Scheurmann,
Horn in Baden, 1920 (rist. 1977), trad.it: Tuiavii di Tiavea, Papalagi, per Stampa Alternativa,
collana "millelire", Nuovi Equilibri, Viterbo, giugno 1990, redazione
tradotta da Amina Pandolci; riporto le cit. dalla quarta ristampa, del gennaio
1992.
Con il termine "papalagi" (pronunciato
con la g dura) si indicava in samoano
l'uomo bianco:
"Il Papalagi vive in un guscio solido come
quello di una conchiglia marina. Vive tra le pietre così come la scolopendra
fra le fessure della lava. Le pietre sono tutt'intorno a lui, accanto e sopra
di lui. La sua capanna dunque assomiglia come ad un cassone di pietra messo in
piedi.
Una cassa che ha molti scomparti ed è tutta bucata.
C'è un solo punto da cui si può entrare e uscire da
questa cassa di pietra.
(…) Un samoano morirebbe ben presto soffocato in
questi cassoni, perché qui non passa mai un soffio d'aria fresca come in una
qualsiasi capanna delle Samoa. E anche gli odori della cucina cercano invano
una via d'uscita. Spesso però anche l'aria che viene da fuori non è migliore
(…).
(…) Fra questi cassoni il Papalagi trascorre dunque
la sua vita. Sta ora in questo e ora il quel cassone, secondo l'ora della
giornata e il momento. I suoi figli crescono qui, alti sopra il terreno, spesso
più alti di una palma adulta, in mezzo alle pietre. (…)
Questi cassoni di pietra si trovano spesso molto
numerosi l'uno accanto all'altro, come uomini spalla a spalla, e in ciascuno
vivono tanti individui quanti ce ne sono in un villaggio delle Samoa. A un tiro
di pietra, dalla parte opposta, si leva un'altra fila di uguali cassoni,
anch'essi spalla a spalla, e anche in questi abitano tante persone. Così fra le
due file c'è soltanto una sottile fessura, che il Papalagi chiama strada.
Questa fessura spesso è larga quanto un fiume e coperta di dure pietre. Bisogna
camminare a lungo per trovare un tratto libero; ma qui sfociano altre fessure
frammezzo ad altri cassoni. Anche queste sono lunghe come ampi corsi d'acqua
dolce, e le loro fessure laterali sono anch'esse fessure diptera della stessa
lunghezza. Così si può camminare per giorni in queste fessure fino a perdersi,
prima di arrivare a vedere un bosco, o un pezzo di cielo azzurro. (…)
Tutto ciò non impedisce ai papalagi di correre in
queste fessure da mattina a sera. (…) In talune di queste fessure in
particolare c'è una confusione e la gente vi scorre dentro come un denso limo.
(…)"
da: pp. 9-13.
Certamente in caso di terremoto o altra calamità
naturale le capanne samoane si potevano abbastanza facilmente rimettere in
piedi, o ripristinare o ricostruire, mentre i nostri palazzi e condomìni se
cadono procurano evidentemente assai più danni a cose e persone. Anche in quei
paesi ad es. in cui sono frequenti i tornado e i cicloni, casette sparse di legno,
o in materiali prefabbricati e componibili, subiscono danni più facilmente
riparabili, rispetto a costruzioni alte in cemento, magari affiancate tra loro.
Ma ovviamente l'interesse maggiore di questo testo è un altro, e cioè
rappresenta una occasione per ascoltare una descrizione da parte di un attento
osservatore esterno, con un'ottica quasi di tipo etnografico, sulla nostra
civiltà. Questo sguardo ci rinvia una immagine che non da per scontato e ovvio
alcunché, e che parte da una visione di base, da una mentalità, e una cultura
diversa da quella occidentale, dato che fa riferimento ad abitudini, usanze e
costumi differenti dai nostri.
Il che è in parte valido anche nel caso opposto. Può darsi che Scheurmann durante la sua permanenza in Polinesia avesse ascoltato qualcuno che riferiva di un viaggio fatto da un isolano e dei suoi racconti, e da lì si fosse ispirato per scrivere questo testo in modo da sottolineare la sua critica alla civiltà occidentale, servendosi dello sguardo esterno (come già si fece in molti altri casi dal settecento in poi).
Il che è in parte valido anche nel caso opposto. Può darsi che Scheurmann durante la sua permanenza in Polinesia avesse ascoltato qualcuno che riferiva di un viaggio fatto da un isolano e dei suoi racconti, e da lì si fosse ispirato per scrivere questo testo in modo da sottolineare la sua critica alla civiltà occidentale, servendosi dello sguardo esterno (come già si fece in molti altri casi dal settecento in poi).
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