martedì 29 maggio 2012

L'ordine delle cose del mondo

Care amiche e amici, mi fa piacere offrirvi una sintesi di un racconto su cui eventualmente riflettere e meditare. (c'è stata da poco una ulteriore e forte scossa):

Nel 1908 il filosofo ebreo tedesco Martin Buber, scrive uno straordinario testo narrativo in cui racconta la leggenda mitica di Israel ben Eliezer (1698-1760), vissuto nei Carpazi ukraini, fondatore di un movimento mistico ebraico, detto dei khassidìm, cioè dei pii. L'opera si intitola "La leggenda del Baal-Shem" poiché quel personaggio è noto con il soprannome di "Maestro del Buon Nome", Baal Shem Tov, abbreviato anche in BeShT, alludendo all'ineffabile nome di Dio. Tra i 21 racconti ve n'è uno intitolato "rivelazione", in cui si cerca di comunicare al lettore cosa comporti perdere la cognizione dell'ordine delle cose.
 Martin Buber

Quando il Baal Shem aveva circa trent'anni, faceva il taverniere, l'oste, ma si ritirava spesso in una vicina grotta a meditare, e quando giungeva un nuovo cliente, la moglie usciva dalla porta e urlava il suo nome, e subito egli si presentava. Un giorno il reverendo rabbino Naftalì si fermò in quella taverna isolata a riposare nel suo viaggio di ritorno a casa. Rimase molto colpito dai suoi occhi, dal sorriso, dal bel garbo, dai dolci movimenti che trasmettevano grande serenità.

Restò un po' a riflettere su varie cose. Poi quando gli chiese di preparargli la carrozza perché voleva ripartire, l'oste gli rispose: mancano solo sei giorni al sabato, perché non rimanete a fare shabbat qui con me? Il rabbi lo rimbrottò e si rimise in viaggio, ma continuò a ripensare a quella frase. E così "non gli riuscì di riprendere il colloquio nel suo spirito; gli sembrò che fosse come un tessuto lacerato" non ricomponibile. Rimase turbato, e inoltre essendosi sforzato  di ricomporre il filo del pensiero, "gli avvenne che tutte le cose si confusero dinanzi ai suoi occhi, ed un vortice lo travolse, sicché egli proseguì il suo viaggio nel vortice, fra mezzo ad una confusione di cose, come lanciate in un giro vertiginoso." Si rese conto che sino ad allora non aveva mai veramente prestato attenzione ad osservare le cose come stanno, ma "gli era bastato di sapere che esistevano e di sopportare la loro presenza." Ora egli "vedeva le cose del mondo, ma cacciate lontane dai loro posti e sperdute nella confusione." Sognò che un uomo con una pelliccia di pecora venisse a far svoltare con le redini i cavalli, e dopo poco si ritrovò presso quella osteria di campagna. E in quel momento "scomparvero, insieme con la confusione, la paura e l'affanno di Rabbi Naftalì, come se non fossero mai stati." Ma "la sua mente non riusciva ad articolare nessuna domanda". Quando però vide intorno a sè "le cose nel modo consueto" ricominciò a cercare di riflettere, e "i pensieri eran di nuovo obbedienti alla sua volontà".  L'oste era intento a servire i clienti e ad abbeverare i loro cavalli, e la donna lo salutò con volto calmo.  Decise dunque di pernottare nella locanda.
"Per lungo tempo sull'anima del Rabbi stette l'incanto dell'incomprensibile."
Ma poi tutto riprese il ritmo della quotidianità.

Il giorno dopo la stessa scena: parte con la carrozza rasserenato ma quando solleva lo sguardo al firmamento, la cui distesa gli era "familiare per la consuetudine indifferente con cui la vedeva" da sempre, si spaventò perché non lo riconobbe. Allora si sentì come "prigioniero, relegato in un carcere inesorabile" e piombò in grande tristezza. A quel punto "si sentì avvinto dal mistero, voltò la carrozza sferzando i cavalli" e ritornò alla casetta isolata della taverna. Chiese all'uomo: "Israel ma cosa mai accade?" Quello "levò lo sguardo e sorrise, e non era un sorriso alla maniera degli uomini, ma come quello di un lago che riposa tra le rupi; quel sorriso doloroso e indulgente che sale dalle sue profondità quando il sole vespertino lo accarezza". E il Rabbi nuovamente si acquietò.
La mattina seguente, uscito sulla soglia, "gli parve di vedere le cose non dalla lontananza del suo corpo, ma dal loro interno, come la cosa vede sè stessa"... e ne fu lieto a constatare che "ognuno adempie volentieri al suo ruolo nel mondo, e trova gioia nelle sue azioni". E chiuse gli occhi sereno, ma quando li riaprì vide aprirsi come un abisso e vide "lo sfasciarsi di un immenso velo", vide la sofferenza e il dolore del mondo: "il disco solare in muto, lento travaglio, e una quantità di alberi ed erbe che uscivano (dalla terra) in un eterno parto doloroso, e numerosi animali correvano e volavano in un affaccendamento assurdo." Al Rabbi "pareva di aver passato tutta la vita in un inganno", e di vedere soltanto ora "la verità e la vita". E a quel punto "il suo cuore vacillò, spinto per metà a ribellarsi contro Dio, e per metà a soffrire assieme con Dio".
Ma in quel momento rivide l'oste (Baal-Shem Tov) con la sua pelliccia di pecora, che parlava col sole e con gli alberi e con gli animali. "Grate le cose erano ricongiunte e si vedevano e si conoscevano, e si capivano l'un l'altra." ...ora non vi era più fra di loro e in loro alcun abisso, "si vedevano scambievolmente attraverso il suo occhio". E in questo abbraccio egli percepì "un profondo flutto di senso e di mèta".
Seguirono così altri tre giorni, e per Rabbi Naftalì "il suo mondo era come una oscillazione di pendolo ed il miracolo della lontananza ed il miracolo della vicinanza si alternavano in un'eterna vicenda". La notte che annunciava l'entrata del sabato constatò che "gli piaceva il fatto che in quel luogo e in quel preciso momento si determinava il miracolo per cui lontananza e vicinanza dovessero insieme confluire."
 
danza di Chassidim
da http://elenalea.webnode.it/


libero compendio tratto da: Martin Buber, Die Legende des Baal-Shem, 1908, trad.it. La Leggenda del Baal-Shem, P.Gribaudi editore,  pref. di Enzo Bianchi, Milano, 1995, pp. 54-61.

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