mercoledì 7 settembre 2011

viaggi immaginari in Utopia






PAROLE IN DISUSO: chimere. PAROLE IN USO: scenari.

L'utopia si dice che non sia cosa di cui valga la pena interessarsi perchè sarebbe solo un puro esercizio di fantasia.
Dopo la famosa utopia di Thomas More del Cinquecento, fiorirono molti altri testi nel Seicento, e nel Settecento che raccontavano di paesi favolosi e invidiabili
In sostanza certi tra questi testi descrivono con passione come dovrebbe (e potrebbe) essere una società giusta, e con le loro descrizioni fecero intravedere una possibilità da perseguire, almeno come obbiettivo ultimo, anche se non del tutto applicabile. Mi riferisco a testi come la "Storia dei Severambi" del 1675, di D.Veiras (ma inizialmente ritenuta di Leibnitz), "La Repubblica dei filosofi, o storia degli Ajoiani", del 1683, opera uscita postuma, di Fontenelle, o la "Storia di Calejava, o dell'Isola degli uomini ragionevoli", di C.Gilbert, dell'anno in cui si dava inizio al secolo dei Lumi, o il "Naufragio delle Isole Fluttuanti" di Morelly, di metà del Settecento, o "L'anno 2440" di Mercier, del 1771. 
Sono racconti fantastici che si inserivano in contesti nei quali si producevano molti progetti di trasformazione drastica dei sistemi giuridici ed economici vigenti, o si diffondevano voci su isole felici realmente trovate nei mari tropicali al di là del lontano Oceano. E in effetti ad es. tutti i testi appena menzionati furono pubblicati da Garnier nella sua monumentale raccolta in dieci volumi dei "Viaggi immaginari" , che tanto successo ebbe quando uscì nel 1787, ad appena un anno e mezzo dalla presa della Bastiglia e dunque da quella rivoluzione che nelle aspettative di molti prometteva di realizzare l'utopia nel mondo reale. 
Poichè l'invitare a pensare come si ritiene che dovrebbe essere una società veramente perfetta, cioè immaginandola senza farsi frenare da considerazioni opportunistiche o realistiche, relative alla incombente presenza di ostacoli insormontabili, ci fa rendere maggiormente conto di quanto grande sia la discrepanza con la prosaica banalità della squallida quotidianità. Ma non solo in negativo, il che potrebbe produrre sconforto, bensì aprendo spazi in senso positivo, facendo intravedere obiettivi e dunque alimentando speranze.
D'altra parte una società "troppo" perfetta forse non sarebbe auspicabile, forse sarebbe piuttosto temibile? Ad es. Aldous Huxley nel suo romanzo distopico "Il mondo nuovo" del 1932 (ma il titolo originale era "The Brave New World", il selvaggio mondo nuovo, ripreso da una celebre esclamazione nel V Atto della "Tempesta" di Shakespeare), volle porre prima dell'inizio del suo testo questa citazione provocatoria tratta dallo scrittore russo Nikolaj Berdjaev ("Filosofia della libertà", 1911): "Le utopie ci appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente di fronte ad una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva ? (...) Le utopie sono realizzabili. La vita marcia verso le utopie. E forse un secolo nuovo inizia; un secolo in cui gli intellettuali e il ceto colto penseranno ai mezzi per evitare le utopie e ritornare ad una società non-utopistica, meno "perfetta" ma più libera ".
Perchè mai allora tali racconti ebbero -e non solo alla loro epoca- un così grande successo? in parte appunto anche perchè rispondevano alla esigenza, che tutti proviamo, di sentirci dire cose nuove, di convincerci che si possa (e debba) immaginare un mondo migliore, di sperare che ciò che riteniamo esser buono, bello e giusto si realizzi forse proprio qui, almeno un giorno sia pur lontano, o almeno in una qualche remota parte del mondo...purchè si possa pensare che una società in cui valga la pena vivere, e -ancor più- in cui sia gratificante viverci, sia possibile. 
Ma sarebbe chieder troppo? e poi, se fosse davvero perfetta...chi vorrebbe mai osare rovinarla...? Le conquiste faticosamente acquisite, e le conquiste fragili, vanno difese ad ogni prezzo, nessuno deve poter incrinarle o farle fallire...
E allora?? allora comunque ricordiamoci sempre di non smettere di immaginare il meglio, di coltivare la nostra fantasia creativa, osiamo mirare all'orizzonte, illudiamoci pure un po', ma senza poi i soliti "ismi" assolutistici. Fa bene allo spirito il vedere la differenza tra l'essere e il dover o poter essere, è sempre stimolante. I viaggiatori, gli appassionati di viaggi e di avventure, sono per loro natura portati a inseguire visioni di un altrove reale più bello e realizzabile, sono il sale della Terra, fecondano la nostra cultura, ma senza scordarci di avere consapevolezza dei limiti e dei rischi sul piano mentale e non arrivare mai a voler imporre perfezioni intoccabili.
L'utopia è dunque un insopprimibile anelito del genere umano.

1 commento:

  1. scusa ma, sempre pensando al film dell'altra sera, chiamarla utopia non è un po' come darsi per vinti in partenza? perchè non anelito, invece?

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