lunedì 3 febbraio 2014

il piacere della lettura (3)

Ogni narrazione, che sappia intrecciare situazioni e personaggi coinvolgenti, ci affascina e ci cattura nella misura in cui riesce in qualche modo a parlarci, a far breccia nel nostro mondo interiore. Il laccio con cui ci cattura sono eventi, dialoghi, in definitiva storie che pur sappiamo essere ipotetiche, fittizie, non effettive, non reali. Pur conoscendo questa premessa, stiamo al gioco, cioè accettiamo il patto di interessarci a questa situazione ipotetica, ed entriamo in questo mondo artificiale, acconsentendo con noi stessi a lasciarci trasportare dalle emozioni, vivendo per un certo tempo nella dimensione del "come se ". Rimuoviamo o assopiamo temporanea-mente, sia il fatto di sapere che si tratta di finzione, sia la consapevolezza del patto cui stiamo aderendo. Immediatamente, pur sapendo che si fa per finta, e fingendo con noi stessi che le storie finte tali non siano, accettiamo che ci ingannino e ci abbandoniamo quasi totalmente al loro fluire attraverso di noi, abbassando grandissima parte delle difese razionali. L'incanto si mantiene poi nella misura in cui tali vicende imitano in maniera verosimile la percezione che solitamente abbiamo della realtà. Esse debbono saper fare ricorso in modo perfetto al mondo simbolico, ripercorrerne le modalità immaginative e la loro peculiare logica. Il mondo della fiction, seguendo le regole del verosimile, deve marcare maggiormente della realtà consueta i suoi tratti, per colpirci e intrattenerci, ma lo deve saper fare come se si trattasse della realtà consueta. Le sue vicende e i personaggi che le popolano ci interessano perché ci forniscono uno specchio per riflettere sulla realtà, ci forniscono modelli, ci stimolano su come comportarci, ci danno idee. Facendoci calare nelle situazioni in cui si trovano i personaggi coi quali la vicenda romanzesca ci stimola ad immedesimarci, essa ci avvince in modo accettabile, perché più rilassato, in definitiva meno teso di quel che accadrebbe se vivessimo quei momenti nella realtà, poiché di fondo conserviamo la coscienza della loro dimensione fittizia, e del fatto che siamo solo lettori e non attori. Una storia che ci prende, fa leva sulle nostre emozioni e le orienta. Ci fa così vivere quel che forse non potremmo vivere mai, poiché in effetti esso è  proprio quel che vorremmo, o che non vorremmo, vivere. Rende plausibili con la sua arte cose su cui avremmo molti dubbi nella realtà, e tra i suoi artifici, vi è una "essenzializzazione" della realtà stessa attuata come unico mezzo per comunicare il messaggio di cui si fa veicolo. La storia da cui ci lasciamo prendere dunque compie per noi scelte che ci trascinano, deresponsabilizzandoci, persino fin dentro l'assurdo, il paradossale, il nonsenso. E' perché essa ci appare in certo senso quasi "più vera" del vero… 

Realizza i nostri timori e li esorcizza, drammatizza i nostri desideri e ce li mostra a tutto tondo nel loro dispiegarsi. In virtù di quell'inganno cosciente su cui si basa, che è un autoinganno, deve risultare verosimile al massimo e quindi sembrarci, almeno al momento, così possibile da poter poi esser eventualmente applicabile alla realtà che viviamo o vivremo, come accadeva per la liseuse di cui sopra... Le abilità dell'autore sono assai raffinate poiché chi crea una realtà fittizia, deve conoscere veramente a fondo la realtà effettiva per saperla imitare in maniera verosimile cioè amplificando certi aspetti e sottolineandone certi tratti, così da incidere sul lettore ma in modo per lui accettabile. Trovare quel punto di equilibrio e mantenerlo in sospensione per tutto il tempo della durata della narrazione è un artificio estremamente difficile. L'emozione del fruitore della storia deve restar desta anche là dove si vuole farlo ragionare. A ciò concorrono tutti gli elementi umani e materiali coinvolti in un amalgama armonico che deve vibrare all'unisono e con-muovere il lettore facendogli appunto "dimenticare" che è tutta finzione, a tal punto da fargli scordare anche che ha egli stesso dato il consenso a partecipare a questa realtà fittizia, "fizionale", dichiarandosi disposto a credere anche all' incredibile.
Ciò è possibile che si realizzi, tra l'altro perché il lettore è posto in condizioni da poter dotare di un suo senso gli eventi che si svolgono o almeno i comportamenti o le parole di alcuni o uno dei personaggi. Quanto più la situazione è costituita da un intreccio di elementi differenti, tanto più risulterà difficile per lo scrittore far sì che a tutte le componenti dell'insieme il lettore sia disposto a dar credito. La difficoltà risiede anche nel fatto che il lettore non è passivo fruitore e quindi di fatto non è solo un destinatario, un utente, o un ricettore, ma anche un interlocutore, che si pone e pone al racconto degli interrogativi: egli è infatti colui che interpreta il testo, anzi ogni e ciascun lettore è l'ermeneuta per antonomasia che dota di un suo senso ogni testo. Di qui deriva l'estremo arricchimento che una buona lettura può donare al suo lettore.
Una "buona lettura" è tanto più coinvolgente quanto meglio ci permette di porre in atto un processo di identificazione che ci consenta di affrontare anche messaggi e stimoli che possano innescare un intimo cambiamento, o predisporci ad una apertura verso la trasformazione, la metamorfosi di una parte di noi stessi.
Proprio dalla sia pur vaga consapevolezza di tale arricchimento nasce lo stimolo a continuare a leggere, si alimenta il bisogno di aprire sempre nuovi libri.
Ma non dimentichiamoci che la storia della lettura registra anche reazioni ben diverse. Ad esempio l'americano Ralph Waldo Emerson all'inverso di quanto detto più sopra, 

faceva appello piuttosto ad una "relazione originaria" col mondo, che non sia mediata dalle letture. Riteneva che attraverso parole lette, noi reagiamo alle sensazioni, idee, ricordi, e fantasie di persone che non abbiamo mai conosciuto, e che crediamo di conoscere. Ma.... tant'è, il libro emana un fascino ammaliante, e anche Emerson per rifiutarlo, ha affidato a sua volta il proprio messaggio a suoi libri che certo sperava sarebbero stati molto letti, come lo furono  (ebbero infatti tutti un enorme impatto sul pubblico, dal primo, "Nature" del 1836, all'ultimo "The Conduct of Life" del 1860).
In un certo senso si tratta di un piacere tale per cui, una volta gustato, poi non si riesce più a farne a meno, e ciò significa che può divenire un indispensabile piacere vitale, e vivificante, del quale si diviene dipendenti. La già citata Katherine Mansfield, ricoverata in Svizzera nel giugno 1922 in una villa convalescenziario per affetti da tubercolosi, scriveva in una lettera: "Potrei essere altrettanto felice se avessi qualcuno al mio fianco? No. Dovrei mettermi a conversare, e a volte è tanto meglio astenersi dal farlo." Ma in realtà ella era una divoratrice di libri, ed aveva con sè di che saziarsi. E infatti confessa che diversamente si sarebbe sentita "terribilmente a disagio, come in un vuoto" senza una buona lettura.

Se tutti i libri venissero distrutti, forse non mancherebbero persone che, come in "Fahranheit 451" (1953) di Ray Bradbury (da cui poi il film di Truffaut del 1966), sarebbero disposte a compiere l'immane fatica di imparare a memoria interi volumi pur di non rischiare di ritrovarsi in quel terribile vuoto cui faceva cenno la Mansfield.

Non di rado il divoratore di libri, il topo da biblioteca, der Büchtrinker, ovvero i vari Bookworms, sono affetti da una manìa paradossale, quella per cui non è per loro soddisfazione sufficiente il compiere una buona lettura, ma essi debbono ad ogni costo anche possedere personalmente tutti quei libri, il che può portare all'eccesso di riempirsi la casa di volumi in numero tale che non sarà loro mai possibile leggerli tutti. . .

Molti ricorderanno il famoso personaggio descritto da Elias Canetti in "Auto da fé" (1935), sotto le cui mentite spoglie si cela in effetti l'autore stesso che in tal modo compie una spietata opera di sarcasmo nei propri confronti.  Il bibliomane, che leggeva anche nell'oscurità, era il "famoso"professor Peter Klein che uscendo per fare una passeggiata portava in ogni caso con sè una piccola parte della sua grande biblioteca in una borsa gonfia di volumi che teneva sempre stretta addosso in una maniera speciale da lui escogitata per fare meno fatica (sforzo da Sisifo oggi superato dal kindle). 

Oppure si può citare lo scrittore tedesco K. Huizing che nel suo "Il mangialibri - il romanzo di chi ama leggere" (1994), descrive un parroco sàssone che, disposto a tutto pur di procurarsi certi libri, fu arrestato nel 1813; costui aveva appreso addirittura ad individuare con assoluta precisione la tipografia di provenienza di un qualsiasi libro, in base all'odore della carta. Qualche anno fa un furto inusuale è accaduto nel centro storico di Milano, alla "libreria Rovello" nottetempo tutti gli scaffali del settore per bibliofili sono stati svuotati; uno di loro evidentemente non ha saputo più resistere …
Nel 1842 fu edita a Torino una commedia teatrale di Alberto Nota, intitolata appunto "Il bibliomane" (riedita a cura di M.-C. Misiti per Interlinea, Novara, 2001) in cui si poneva in berlina questa versione paradossale del bibliofilo. Come spiega bene Umberto Eco, la linea di distinzione tra bibliofilo e bibliomane è realmente molto sottile e persino incerta, per cui è a volte labile (cfr. il suo ultimo Riflessioni sulla bibliofilìa, edizioni Rovello, stampato in mille esemplari contrassegnati, Milano, 2001, di una trentina di dense e gustosissime paginette su carta “velato avorio” e su carta “Rives”). In un manuale del bibliofilo si legge che "la più semplice accezione del termine è amico del libro. Ma un libro viene così diversamente guardato, letto, maneggiato, scelto, compreso, amato, che non si può, a partire da percezioni così svariate, riassumere in una sola formula tutte le differenti devozioni particolari cui si presta" (Ch.Galantaris, Manuel de bibliophilie, éditions des cendres, 2 tomi, Paris, 1998, t. I p. 11). Ma un manuale "classico" ed anche uno dei più minuziosi, oltre che dei primi, è quello scritto da Richard de Bury tra il 1343 e il 1344, negli ultimi due anni della sua vita, quando, a causa dei debiti, dovette vendere a più riprese consecutive una parte molto consistente della sua raccolta privata di volumi, e con quale strazio lo si può desumere già dalle prime righe dell'opera, ispirate da un passo del libro biblico dei proverbi: "Il desiderabile tesoro costituito dalla saggezza e dalla conoscenza, cui tutti gli esseri umani aspirano per un istinto della natura, supera infinitamente tutte le ricchezze del mondo" (questo l'incipit di Philobiblion, ora riedito in trad. francese a cura di Bruno Vincent, per Parangon-L'Aventurine, Paris, 2001).

Nella nostra epoca ormai il libro è divenuto un oggetto di uso quotidiano, e il fatto che possa esistere una degenerazione maniacale è comunque segnale di un dato, e cioè che oggi è sempre più frequente notare che del libro in un certo senso non si può fare a meno. Anzi esso è addirittura presente in abitazioni di persone non dedite alla lettura, in quanto è divenuto uno status symbol e non può dunque mancare in un salotto, o nella sala d'aspetto di uno studio professionale, altrimenti si farebbe la figura di persona di poco conto. Ancora nel manuale sopracitato si dice che radunando i propri libri prediletti, in realtà si miri a definire sé stessi, a costituire in un locale "un decoro che rifletta intenzionalmente o meno, le sfaccettature della propria personalità, e quindi (si miri) ad autoritrarsi" (ivi, t.I, p. 12), e questa è dunque un'altra caratteristica che si ritrova, enfatizzata, nel bibliofilo.

Nessun commento:

Posta un commento