venerdì 25 novembre 2011

a proposito di Hillman e delle nostre dotazioni

A seguito delle mail e dei Post di Lara e dei commenti che ha suscitato:
non so se già conoscete le opere di James Hillman uno psicologo archetipico, che è morto il mese scorso. Nel suo testo "Il codice dell'anima" riflette su varie biografie, in particolare per capire che cosa sia la vocazione, o inclinazione, o propensione, che ognuno di noi mostra di possedere come suo "dono" o dotazione specifica.
Io penso che il mix tra corredo genetico e esperienze concrete di vita (quindi nelle relazioni sociali, nella cultura vigente, nella storia) sia quel nucleo di cui si parlava nel nostro dibattito, e che potremmo denominare in vari modi a seconda dei nostri punti di vista. Ma al di là e previamente a ciò, o meglio al fondo di esso, personalmente penso che ci sia una energia vitale in ciascun essere individuale, sia vegetale che animale.

Quanto a Hillman vi invio questa sintesi della sua visione, che ho preso da internet (worldsocialsummit.org):


Il concetto di anima occupa, in tal senso, un posto centrale nel pensiero di Hillman, il quale non la identifica con lo spirito dell'uomo (come presupporrebbe un'interpretazione di tipo religioso) né con il suo corpo (da cui un'interpretazione di tipo psicosomatico) perché, a rigore, come spiega ne Il codice dell'anima, non è l'anima che appartiene all'uomo ma è l'uomo che è parte dell'anima del mondo. Il compito della Psicologia Archetipica in cui si riassume la sua riflessione teorica è, pertanto, quello di ascoltare l'anima mundi facendo attenzione ad ogni elemento e ad ogni luogo del mondo perché l'anima li permea di sé.
L'errore commesso dalla psicoanalisi è, invece, quello di ricacciare l'uomo nel passato, laddove, essendo le cause del suo malessere attuali, l'obiettivo dovrebbe essere quello di aiutare l'individuo a problematizzare il mondo in cui vive nonché, più in generale, evidenziare e far condividere la necessità, per l'uomo postmoderno, di riconoscere le connessioni mentali e psicologiche che lo legano alle sue radici culturali antiche (o addirittura arcaiche), e non solo in quanto singolo portatore di turbamenti e patologie dell'anima, ma in quanto componente di una società non meno turbata e patologica di lui. Proprio perché le patologie dell'anima manifestano in realtà i problemi di adattamento della singola psiche alle richieste e alle pressioni del luogo sociale e storico in cui il suo portatore si trova ad agire, e i conflitti tra il "carattere", la "vocazione" e il "destino" del singolo e quelli della collettività in cui egli vive.
E' con la "teoria della ghianda" che Hillman chiarisce che cosa intende quando fa riferimento al "carattere", alla "vocazione" e al "destino" del singolo, che rappresentano la chiave per leggere il linguaggio cifrato che costituisce il "codice dell'anima". In particolare, rifacendosi alla filosofia di Platone, egli afferma che esiste un motivo per cui ciascuna persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, e che ci sono cose alle quali si deve dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d'essere.
La "teoria della ghianda" (al cui interno è racchiusa la vocazione, la motivazione a diventare quell'unica e splendida quercia che cercherà di essere) fa riferimento alla sensazione, spesso elusa, omessa o inascoltata, di essere responsabili verso qualcosa dai contorni confusi, ma che necessariamente ci chiama, ci spinge verso certe direzioni e non altre. Ogni persona, dunque, ha in sé un'unicità, un "carattere" che chiede di essere vissuto, una vocazione ad essere quell'unico, irripetibile individuo, ad essere la quercia alta e frondosa, o bassa e massiccia che la ghianda e il proprio demone hanno scelto, un "tempo" fuori dal tempo. Più precisamente noi siamo ciò che siamo in virtù di un demone che ci sovrasta, che altro non è che ciò che chiamiamo "destino" e che ha fatto sì che nascessimo in una certa epoca, da una certa famiglia e in certe condizioni.
In questo modo Hillman ci conduce per mano a riscoprire e recuperare "verità" non dimostrabili, ma indubbiamente sentite e sperimentate da ogni uomo. In termini filosofici è insita in questa posizione teorica il rifiuto a pensare la vita dell'uomo come una storia scritta esclusivamente da geni ereditati e influenze ambientali, che fin dall'inizio decidono per lui il copione che senza alcuna possibilità di sbavature, sarà costretto a recitare. L'ipotesi di Hillman, al contrario, ci riscatta da un destino meccanicistico di causa-effetto nella misura in cui ci restituisce la convinzione, o semplicemente la sensazione, di non essere al mondo per caso, che ci sono cose che ci fanno sentire vivi e pieni di significato ed altre vuoti e privi di senso.
Il viaggio che l'uomo compie all'"interno di se stesso" alla ri-scoperta dell'unicità del suo essere è per forza di cose anche un viaggio di trepidazione e di paura. Per quanto, come Hillman scrive nel Saggio su Pan, "la paura, come l'amore, può diventare un richiamo per la coscienza; si incontra l'inconscio, l'ignoto, il numinoso e incontrollabile restando in contatto con la paura, che eleva dal cieco panico istintuale del gregge al sagace, astuto, riverente sgomento del pastore".
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ovviamente è una sua visione, altri ne hanno espresse di differenti (ad es. cfr. la filosofa spagnola Maria Zambrano, dalla scrittura poetica, in particolare nel suo testo "Verso un sapere dell'anima"), questa sintesi ve l'ho "postata" solo per stimolo di riflessione ...   ciao a tutte/i   :-)

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